Cartolarizzazione di beni pubblici: è necessaria una puntuale istruttoria sulla effettiva condizione dell’immobile prima di attribuire allo stesso la qualifica di pregio

A.V.
In materia di procedure per la dismissione (cartolarizzazione) di beni pubblici, è stato ritenuto illegittimo il decreto ministeriale di individuazione degli immobili di pregio, adottato senza la previa comunicazione di avvio del procedimento agli interessati, inquilini degli immobili qualificati di pregio, e senza una puntuale istruttoria volta ad accertata l’assenza di condizioni di degrado tali da far venire meno la presunzione di “pregio” degli immobili collocati in zona A del centro storico della città.
Il TAR della Toscana annulla il decreto classificazione degli immobili, confermando la necessità della comunicazione di avvio del procedimento e della puntuale istruttoria nelle procedure di dismissione dei beni pubblici, ai fini dell’individuazione della qualifica di pregio degli immobili.
Gli aspiranti acquirenti di immobili di enti pubblici compresi nei procedimenti di dismissione potranno, pertanto, beneficiare del consistente abbattimento del prezzo dell’immobile e delle altre agevolazioni previste dalla normativa applicabile, salvo che – a seguito di una puntuale istruttoria – non venga accertata l’assenza di condizioni di degrado del bene medesimo.
La pronuncia in esame presenta il prego di affermare, con valenza generale, un principio che fino a tale momento aveva trovato applicazione solo nei singoli casi concreti e previo accertamento di determinate condizioni di fatto.

Le esigenze della sicurezza nazionale non giustificano deroghe agli appalti con gara

M.P.C.
A distanza di pochi mesi, l’Italia è stata condannata due volte dal giudice comunitario sulla questione degli acquisti senza gara di forniture destinate ad esigenza delle Forze pubbliche e dei Vigili del fuoco (sentenza 8 aprile 2008, C-337/05; sentenza 2 ottobre 2008, C-157/06).
In ambedue i casi si trattava dell’acquisto di elicotteri leggeri che l’Italia ha affermato essenziali per la sicurezza nazionale; e che possono essere utilizzati anche a finalità militari, oltre che civili. Così da rientrare tra le eccezioni all’evidenza pubblica previste dalla direttiva sugli appalti pubblici.
La Corte di giustizia ha ritenuto che, sulla scorta degli elementi forniti dall’Italia, l’utilizzo di questi elicotteri è certo per usi civili; solo eventuale per finalità militari. E dunque fuoriesce dalla deroga all’evidenza pubblica prevista per le forniture militari, che va interpretata restrittivamente. Alla stessa conclusione la Corte è giunta circa la rilevanza dell’obbligo di riservatezza, che sarebbe stato richiamato dall’Italia in modo sproporzionato.
La posizione della Corte non convince, perché non considera adeguatamente la nuova latitudine della sicurezza pubblica, rispetto alla quale le tradizionali nozioni di “guerra” e “difesa militare” appaiono adeguate e limitative. Anche il “mercatismo” deve trovare in questi casi alcune giustificate restrizioni.

Risoluzione del contratto d’appalto: ancora una conferma per la giurisdizione ordinaria

M.M.
Nuova conferma per l’attribuzione al giudice ordinario della cognizione sulla legittimità o meno del provvedimento di risoluzione del contratto di appalto: la V Sezione del Consiglio di Stato, con decisione n. 4455 del 18 settembre 2008, ha ribadito ancora una volta che le controversie inerenti le vicende del contratto di appalto, ivi comprese quelle relative alla risoluzione, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, confermando così un orientamento già da tempo instradato nei binari della incontestabilità e ribadito nel corso dell’ultimo anno, fra l’altro, da TAR Lazio - Roma, sez. II bis, sentenza 12 marzo 2008 n. 2291 (in fattispecie di risoluzione ex art. 119 del d.p.r. 554/99, vale a dire in caso di negligenza o ritardi imputabili all’appaltatore), da TAR Calabria – Catanzaro, sez. II, sentenza 11 gennaio 2008 n. 144 (in fattispecie di risoluzione ex art. 340 della l. 2248/1865 all. F, norma ora confluita nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici, ovvero in caso di frode o grave negligenza dell’appaltatore) nonché, soprattutto, dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. Unite civili - ordinanza 11 marzo 2008 n. 6421 (in fattispecie di risoluzione per inadempimento dell’appaltatore).

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Orientamenti recenti in materia di risarcimento del danno conseguente ad annullamento di provvedimento amministrativo illegittimo

M.M.
Segnaliamo alcune recentissime decisioni rese dal Consiglio di Stato in materia di risarcimento del danno conseguente all’annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo.
Trattasi di pronunce di particolare rilievo, stante la peculiarità dei profili sottoposti all’attenzione del Supremo Giudice Amministrativo.
Con la decisione n. 5096 del 17 ottobre del 2008, la V Sezione del Consiglio di Stato ha affermato il principio che, in fattispecie di appalto pubblico, l’accoglimento del ricorso con conseguente travolgimento degli atti di gara e rinnovazione della medesima non esclude il contestuale accoglimento della domanda di risarcimento del danno per equivalente: ha infatti ritenuto la Sezione che l’effetto meramente ex nunc della rinnovazione degli atti di gara non può in alcun caso valere a sanare l’illegittimità che investe il provvedimento amministrativo annullato fin dalla sua venuta ad esistenza (ex tunc).
È altresì d’interesse la pronuncia n. 5100 del 17 ottobre del 2008, in cui la V Sezione, in tema di prova della colpa dell’Amministrazione al fine di riconoscere la sussistenza di una fattispecie di risarcimento del danno secondo lo schema dell’art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale), ha consolidato il principio già oggetto di precedenti pronunce secondo cui l’illegittimità accertata del provvedimento amministrativo costituisce già di per sé una “presunzione relativa di colpa a carico dell’Amministrazione”, cui pertanto spetterà di provare “di essere incorsa in errore incolpevole”: a tal fine, non può costituire elemento esimente della colpa l’avere l’Amministrazione “vinto” il giudizio di primo grado, in caso di esito opposto in sede di appello favorevole all’originario ricorrente.

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Sicurezza sul lavoro e facoltà di delega da parte del datore di lavoro: delega di funzioni o di responsabilità?

M.M.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 (ancora non completa, viste le recenti proroghe al 1 gennaio 2009 per alcune delle più importanti disposizioni) il complesso sistema della sicurezza sui luoghi di lavoro cerca di farsi più “maturo”, anche arricchendosi di nuove previsioni rispetto al recente passato costituito dal d.lgs. 626/94.
Fra queste, un importante rilievo acquista la previsione di cui all’art. 16, che finalmente positivizza lo strumento, già largamente diffuso nella prassi e avallato (entro certi limiti) dalla giurisprudenza, della delega di funzioni, mediante la quale il datore affida ad altri soggetti l’espletamento dei propri obblighi in materia di sicurezza.

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Sicurezza sul lavoro: nuovo d.lgs. 81/2008 e ambito soggettivo di applicazione della normativa

M.M.

Con l’entrata in vigore del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, fra le altre novità deve registrarsi altresì quella relativa all’ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione della normativa di tutela del lavoratore sul luogo di lavoro.
Definito il lavoratore (art. 2, co. 1, lett. a) come “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolga un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”, la medesima disposizione propone un’elencazione di tipologie lavorative equiparate (associato in partecipazione, volontario che svolge il servizio civile, il tirocinante ex l. 196/97, l’allievo di istituti di istruzione universitari etc.). L’allargamento dei soggetti destinatari della normativa in materia di sicurezza è reso quindi palese dall’inciso “indipendentemente dalla tipologia contrattuale”, nonché dal successivo art. 3, co. 4: “il presente decreto legislativo si applica a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati …”.

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Esame di avvocato: il commissario “professore universitario” si nomina in contraddittorio

M.M.
Va rafforzandosi l’orientamento, inaugurato dalla ormai lontana sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 347 del 2002, e rafforzato dalle recenti pronunce della I sez. del Tar Lazio – Roma, nn. 602, 2543 e 2637 del 2007, nonché n. 2208 del 5 marzo 2008, a mente del quale il docente chiamato a partecipare ai lavori delle Sottocommissioni costituite dal Ministero della Giustizia per le sessioni dell’Esame di abilitazione alla professione forense deve ricevere da parte dell’Amministrazione la comunicazione di avvio del procedimento di nomina, affinché possa tempestivamente dedurre eventuali impedimenti alla partecipazione alle sessioni.
È quanto ha stabilito il Tar della Toscana, I sez., con pronuncia n. 1763 del 17 luglio 2008: il Tribunale, richiamando proprio il filone giurisprudenziale sopra citato, ha precisato altresì che ben potrebbe l’Amministrazione provare in giudizio, ex art. 21octies, co. 2, che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; tuttavia, mancando tale prova, in mancanza di comunicazione di avvio del procedimento il ricorso avverso il decreto ministeriale di nomina è meritevole di accoglimento.
La sentenza, tuttavia, non approfondisce un ulteriore motivo di illegittimità della nomina, in ordine alla selezione quale commissario d’esame di un professore a tempo definito piuttosto che di un docente a tempo pieno: su tale motivo, solo Tar Lazio Roma, I sez., n. 2637 del 2007 si è sinora espresso ritenendolo meritevole di accoglimento, mentre le sentenze successive non ne hanno trattato, ritenendo assorbita la doglianza dal primigenio vizio di mancanza di comunicazione di avvio del procedimento.
Sul punto, deve tuttavia registrarsi che il Consiglio di Stato ha parzialmente ridimensionato il sopra richiamato orientamento, con sentenza n. 3528 del 15 luglio 2008, la quale ha ritenuto non dovuta la comunicazione di avvio del procedimento (in fattispecie nella quale la Facoltà di appartenenza del docente non aveva, tout court, indicato alcun nominativo alla Corte d’Appello richiedente), in presenza delle oggettive esigenze di celerità richieste dalla legge per derogare il disposto dell’art. 7 l. 241/90.

Torna la revisione dei prezzi, con taluni limiti, negli appalti pubblici

M.P.C.
Il decreto legge 23 ottobre 2008, n. 162, ha reintrodotto il principio dell’adeguamento dei prezzi nel Codice dei contratti pubblici, in deroga al criterio dell’immodificabilità del prezzo.
Ciò è previsto (art. 1) solo per i materiali da costruzione ed in riferimento agli aumenti repentini dei prezzi dei materiali da costruzione più significativi, verificati nel corso del 2008.
La compensazione di questi aumenti avverrà per la percentuale di variazione accertata che eccede l’otto per cento; con la particolare procedura ivi prevista.
La novità è di particolare rilievo perché riconosce l’impossibilità di mantenere immodificati i prezzi di appalto di un periodo di enormi aumenti dei maggiori materiali impiegati nelle costruzioni. Un primo passo era stato già compiuto in questo senso, nell’anno 2008, con l’introduzione del comma 1-bis all’art. 133 del Codice dei contratti pubblici; ma si trattava di una misura parziale e finalizzata al non usuale caso dell’acquisto iniziale dei materiali di costruzione. La revisione prezzi ora torna come criterio generale, anche se con “franchigia” sopra indicata.
Il principio, valido per gli appalti pubblici, ha una sicura forza espansiva anche nel settore degli appalti privati; specie per stazioni appaltanti no profit, cooperative o con finalità di pubblico interesse.

Le farmacie comunali esercitano un pubblico servizio cui non si applica il diritto comunitario e il diritto nazionale sui servizi pubblici locali

M.P.C.
Il TAR Napoli (Sez. V, 9.10.2008, sentenza n. 14957) ha stabilito un principio in tema di farmacie comunali e tutela della concorrenza che farà molto discutere.
Alcuni farmacisti privati avevano presentato ricorso avverso la decisione di un Comune di esercitare il diritto di prelazione per la gestione di una sede farmaceutica di nuova istituzione. Il primo motivo di ricorso stava nell’afferma violazione dei principi del Trattato CE su pubblicità, trasparenza e concorrenza.
Il TAR ha dato atto che la disciplina nazionale sui servizi pubblici locali, come necessariamente da interpretare alla luce della cospicua giurisprudenza della Corte di giustizia, non consentirebbe la procedura seguita dal Comune; dato che la società affidataria della nuova sede è partecipata maggioritariamente da socio privato.
Tuttavia, secondo il TAR, la gestione delle farmacie comunali da parte degli enti locali va collocata in un’attività gestoria in nome e per conto del Servizio sanitario nazionale, come tale esclusa dall’ambito dei servizi di interesse generale considerati dal diritto comunitario. Precisamente, sempre secondo il TAR, si tratta di esercizio di un servizio pubblico, in quanto attività rivolta a fini sociali ai sensi dell’art. 112 del d. lgs. n. 267/2000 (testo unico sugli enti locali). Come tale, estranea all’ambito di applicazione del diritto comunitario.
La conclusione appare assai dubbia, alla luce della vasta nozione di diritto comunitario sui servizi di interesse pubblico generale. Oltre a rilevare per il tema specifico delle farmacie, la sentenza porta ulteriori incertezze sul tema dei servizi pubblici locali.

Atti amministrativi che violano il diritto comunitario: come disapplicarli?

M.P.C.
La decisione del Consiglio di Stato (sez. V, 8 settembre 2008, n. 4263) si segnala per riportare nel solco della tradizione nazionale il tema della disapplicazione degli atti amministrativi in contrasto con il diritto comunitario.
Infatti, il punto cruciale della sentenza sta nell’affermazione secondo cui, pure in presenza di un sicuro contrasto di un provvedimento amministrativo con norme o principi comunitari, tale provvedimento non può essere direttamente disapplicato dall’amministrazione; ma solo rimosso con il ricorso ai poteri di autotutela di cui la stessa amministrazione dispone (e che sono disciplinati dalla legge n. 241/1990, come integrata dalla legge n. 15/2005).
Tale conclusione “nazionalizza” il principio dell’obbligatoria disapplicazione di ogni norma o disposizione amministrativa anticomunitaria, da tempo affermato dalla Corte di giustizia. Detto principio comunitario – che è tipica espressione del più generale principio del “primato” del diritto comunitario – deve dunque essere applicato attraverso il filtro del diritto interno sull’autotutela dell’amministrazione.
Si tratta di una posizione oltremodo discutibile, sia in riferimento al diritto comunitario, la cui primazia viene sostanzialmente posta in discussione; sia perché comporta l’annullamento della sentenza del TAR Sardegna, impugnata nella fattispecie (sentenza sez. I, 27.3.2007, n. 549), assai più articolata nella distinzione tra disapplicazione comunitaria ed ordinari poteri di autotutela.
In ogni caso, nelle more di un auspicato ripensamento delle conclusioni giurisprudenziali in esame, occorre prendere atto che la decisione di disapplicare un provvedimento amministrativo per anticomunitarietà deve osservare le condizioni e seguire le procedure di cui alla citata legge n. 241.