M.M.
L’Impresa che vede sfuggire la possibilità di aggiudicarsi un appalto, e che voglia tutelare le proprie ragioni in giudizio, mira tradizionalmente a conseguire in primo luogo un risarcimento in forma specifica; sul punto, consolidata giurisprudenza ha chiarito che il conseguimento del bene della vita richiesto, ovvero l’aggiudicazione dell’appalto previa annullamento degli atti impugnati, ha carattere primario ed esclusivo rispetto all’eventuale risarcimento per equivalente monetario: “
in materia di appalti pubblici il risarcimento del danno per equivalente è da escludersi qualora l'accoglimento del ricorso avverso l'aggiudicazione intervenga in tempo utile a restituire in forma specifica all'impresa interessata la chance di partecipare alla gara da rinnovare, consentendo quindi il soddisfacimento diretto e pieno dell'interesse da essa fatto valere” (Consiglio di Stato, sez. V, 28 gennaio 2009, n. 491).
In mancanza, tuttavia, di risarcimento in forma specifica, il ricorrente plausibilmente proseguirà il giudizio al fine di conseguire il risarcimento del danno per equivalente monetario.
Sullo sfondo di tale questione, si affaccia peraltro il mare magnum della pregiudiziale amministrativa, laddove è stato ritenuto da parte della giurisprudenza conforme alle note ordinanze SS.UU. 13 giugno 2006, n. 13659 e 13660, che il ricorso con cui si chieda il risarcimento per equivalente monetario non è condizionato dai termini decadenziali posti dalla legge per l’impugnativa dei provvedimenti ritenuti lesivi.
Il danno risarcibile si suddivide nelle tradizionali voci del danno emergente e del lucro cessante: quanto al primo, in materia di gare pubbliche viene in evidenza il rimborso delle spese di partecipazione alla procedura; tale “voce” non è peraltro ritenuta risarcibile da una parte minoritaria della giurisprudenza, sulla scorta della considerazione che tali spese costituiscono di fatto un investimento “a fondo perduto”, e che le stesse non spetterebbero in caso di aggiudicazione della commessa (in tale senso, Consiglio di Stato, VI sez., 2 marzo 2009, n. 1180).
Quanto al lucro cessante, si registra anzitutto la “sottovoce”, di recente creazione giurisprudenziale, del danno cd. curriculare: esso consiste nel “pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'Amministrazione. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va, infatti, ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé, e al relativo incasso; alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara” (così Consiglio di Stato, VI sez., 9 giugno 2008, n. 2751).
La tradizionale partizione di tale voce di danno, tuttavia, enuclea le due categorie della perdita di chance e del mancato utile.
Sovente “accorpate” dalla giurisprudenza ai fini della concreta quantificazione del danno liquidabile, tali voci si differenziano soprattutto in relazione alla posizione soggettiva del soggetto richiedente il risarcimento: si ha perdita di chances, infatti, in tutti quei casi in cui il concorrente, pur a seguito di un eventuale accoglimento del proprio ricorso, non può conseguire la certezza di risultare aggiudicatario della commessa (ciò perché lo stesso è stato escluso dalla gara prima dell’apertura delle buste, o perché la gara è stata revocata, o perché si verte in materia di erronea verifica dell’anomalia dell’offerta del primo classificato, essendo risultando anomala anche l’offerta del ricorrente, etc.).
Il mancato utile, invece, sarà invocato da quel ricorrente che, a seguito dell’accoglimento del gravame, abbia la certezza di risultare aggiudicatario: si pensi al caso del primo graduato cui si imputi, ad esempio, la mancata produzione in gara di documentazione prevista a pena di esclusione.
La prova dell’entità del danno è, tuttavia, argomento di non facile definizione.
Il danno, infatti, viene tradizionalmente commisurato al margine di utile ipotizzato dall’Impresa in sede di gara; tuttavia, tale parametro, apparentemente l’unico cui poter fare concreto riferimento, può talora celare taluni inconvenienti pratici. Si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui un concorrente, che non si sia (ingiustamente) visto aggiudicare la commessa, abbia formulato un’offerta economica prevedendo un utile d’impresa estremamente ridotto; trattasi di ipotesi border line con la fattispecie di non serietà dell’offerta, ma che ad ogni buon conto è comune nella prassi (si pensi alla partecipazione alla gara di Cooperative Sociali, ONLUS, e più in generale di soggetti privi di scopi istituzionali di lucro) ed è talora ammessa tout court dalla giurisprudenza. In un caso del genere, parametrando il risarcimento monetario all’utile sperato dall’Impresa concorrente, è evidente che non potrà riconoscersi, a titolo di ristoro, altro che una somma poco più che simbolica, plausibilmente non sufficiente a giustificare la proposizione di un ricorso giurisdizionale. In disparte quanto sopra, in generale, in merito alla quantificazione del lucro cessante, la giurisprudenza ha tradizionalmente seguito il cd. criterio del 10% dell’utile sperato dal concorrente, come ribassato in gara, estendendo in via analogica la disposizione di cui all’art. 345 della l. n. 2248 del 1865, in materia di recesso della Pubblica Amministrazione dal contratto di appalto. Sul punto, chiarisce Consiglio di Stato, V sez., 14 aprile 2008, n. 1665: “per ciò che riguarda… il lucro cessante come indebita sottrazione delle chances di guadagno da esecuzione dei lavori, il danno andrà presunto in ragione dell’usuale 10% del valore dell’appalto. È infatti criterio consolidato che, ai fini della quantificazione di un siffatto danno, nella determinazione forfetaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici, trovi applicazione analogica l’art.345 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F – ora sostanzialmente riprodotto dall’art. 122 del regolamento di cui al d.p.r. n. 554/99 – che quantifica al 10% del valore dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione … ragioni di necessaria concretezza nella determinazione del detrimento patrimoniale impongono di considerare che il riferimento di base per il calcolo di detta percentuale presuntiva sia quello della base d’asta, come ribassato dalla offerta del ricorrente”.
Partendo da tale ammontare, la giurisprudenza ha poi elaborato taluni “correttivi”, in base alle reali chances di aggiudicazione dell’Impresa nel caso di specie, secondo quanto già si è detto. In altre parole, occorre verificare se, ai fini del risarcimento del danno, vi fossero chances concrete di aggiudicazione della commessa per la ricorrente, anche minime: “la chance è ristorabile ogniqualvolta la possibilità di vittoria sia seria, anche se non necessariamente superiore al 50%” (Consiglio di Stato, VI sez., 15 giugno 2009, n. 3829).
Così, in tal senso, Consiglio di Stato, VI sez., 15 giugno 2009, n. 3829, ha ritenuto risarcibile secondo il criterio del 10% della base d’asta ribassata il danno subito dall’impresa, ritenendo tuttavia che l’importo risultante debba essere ulteriormente suddiviso per il numero dei partecipanti alla procedura; nel medesimo senso, anche Consiglio di Stato, V sez., 17 ottobre 2008, n. 5096; Consiglio di Stato, IV sez., n. 1206/2009 ha invece ritenuto congruo il parametro del 10%, tuttavia ulteriormente ridotto del 50% a titolo di equità, in considerazione della “liberazione delle forze dell’impresa che hanno potuto essere destinate ad altre attività”; nel medesimo senso, Consiglio di Stato, V sez., 28 gennaio 2009, n. 491; Consiglio di Stato, VI sez., 2 marzo 2009, n. 1180 fa invece nuovamente riferimento al parametro del 10%, tuttavia ridotto nella misura dell’utile quantificato dall’Impresa in sede di giustificazione del ribasso praticato.
Non manca, comunque, un orientamento maggiormente favorevole per le Imprese concorrenti, a tenore del quale “si deve riconoscere un risarcimento forfettizato … (10 % del valore complessivo dell’appalto di servizi in esame…), potendosi ritenere implicito il danno (illegittimo) nel non aver potuto conseguire l’aggiudicazione, nel non aver potuto attivare il servizio oggetto di quest’ultima e nel non aver potuto inserire il tutto nel proprio curriculum, in occasione della partecipazione ad ulteriori gare d’appalto” (Consiglio di Stato, V sez., 12 giugno 2009, n. 3679); similmente, la già ricordata Consiglio di Stato, V sez., 14 aprile 2008, n. 1665.
L’orientamento suesposto, che riporta al 10% della base d’asta ribassata, in via forfetaria, l’ammontare del danno ristorabile per equivalente monetario a titolo di lucro cessante, trova tuttavia negli ultimi tempi decise affermazioni in contrario, e talora, il contrasto è apprezzabile anche all’interno della medesima Sezione.
Si veda, a titolo di esempio, la pronuncia n. 5098 del 17 ottobre 2008, V sezione, pubblicata nel medesimo giorno della predetta decisione n. 5096 della medesima sezione, che segue però una strada radicalmente opposta.
Trattasi di un orientamento che ripudia il criterio dell’utile presunto del 10%, sulla scorta di alcune interessanti considerazioni. In generale, il Collegio ritiene che, “nel rispetto del principio basilare sancito dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, si è affermato, … che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il ricorrente debba fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2007, n. 10; sez. VI, 2 marzo 2004, n. 973)”, infatti, “va al riguardo ribadito l’orientamento di questo Consiglio per il quale è inammissibile e comunque infondata la domanda risarcitoria formulata in maniera del tutto generica senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 306)”. Quanto alla possibilità di procedere a liquidazione equitativa, la sezione parimenti ritiene che “quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito. Orbene mentre nel caso di accertamento di danni non patrimoniali l’unica forma possibile di liquidazione è quella equitativa, per quelli patrimoniali è vero il contrario, specie se subiti da imprese nell’esercizio della propria attività”. Effettuate tali premesse, si perviene a dover quantificare l’entità del risarcimento. La sezione, anzitutto, respinge il criterio forfettario del 10%, poiché anzitutto “è desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l’indennizzo dell’appaltatore nel caso di recesso dell’amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d’asta”; in secondo luogo, e soprattutto, si rileva che tale parametro “conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale. In tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno”.
Anche il meccanismo predetto dei “correttivi” all’importo del 10% non va esente da critiche: “ulteriore difetto di tale tecnica risarcitoria (come si registra nella prassi giudiziaria, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1513) è che obbliga i giudici più sensibili a moltiplicare gli sforzi per trovare correttivi che rendano meno evidenti gli ingiustificati esborsi a carico della finanza pubblica; … tali escamotage offrono un rimedio inappagante perché scontano il vizio d’origine del costrutto argomentativo che nasce all’interno della logica indennitaria e non si concilia affatto con il regime della prova nel sistema della responsabilità civile in genere e della p.a. amministrazione in particolare”. Infine, in merito alla condanna ex art. 35 d.lgs. n. 80/98, vale a dire quella con la quale il Giudice si limita a indicare i criteri cui dovrà attenersi l’amministrazione nel riconoscimento del richiesto risarcimento, “premesso che nel processo amministrativo non sono ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2004, n. 942), il ricorso alla c.d. <<sentenza sui criteri>> di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell’offerta da parte della p.a. E’ evidente pertanto che il meccanismo processuale divisato dal menzionato art. 35 non può essere strumentalizzato per eludere l’obbligo di allegazione dei fatti costitutivi del proprio diritto”. Medesime considerazioni valgono per la eventuale c.t.u., “che non è mezzo di prova in senso proprio e non può supplire all’onere probatorio della parte (cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2005, n. 1563; sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012)”. Tale orientamento è stato confermato dalle successive decisioni del Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967, sez. V, n. 842 del 16 febbraio 2009, sez.V, n. 2143 del 6 aprile 2009, e sez. VI, n. 3144 del 21 maggio 2009, fra le altre.
Trattasi, in tutta evidenza, di una linea interpretativa del tutto incompatibile con quella precedentemente illustrata, tuttavia largamente prevalente, almeno nella giurisprudenza di primo grado e, forse, orientata a scoraggiare azioni volte a “monetizzare” indebitamente la mancata aggiudicazione di una gara d’appalto, pur in mancanza di concreti presupposti.
Ciò non sembra del tutto ragionevole; in presenza di atti illegittimi adottati dall’Amministrazione, parrebbe singolare non riconoscere a favore dell’Impresa ricorrente alcuna utilità a titolo risarcitorio; ciò, anche nell’ipotetica assenza o insufficienza di idonee allegazioni documentali, che peraltro, nella maggior parte dei casi, si limiteranno all’offerta economica proposta in gara, che è il solo documento mediante il quale possa darsi prova dell’utile sperato a seguito dell’aggiudicazione della commessa. Più di cosi, la prova diverrebbe davvero diabolica.
Una sintesi fra i due orientamenti appare lontana: è quindi allo stato inevitabile, per le difese dei ricorrenti, la predisposizione negli atti introduttivi di articolate richieste risarcitorie, con conseguenti allegazioni documentali quanto più esaustive, onde non pervenire ad esiti, sia pur vincenti in giudizio, di poca o nulla utilità pratica.
Non può non considerarsi, però, che il risarcimento del danno, a 10 anni dalla sentenza n. 500/99, e pur a seguito dell’entrata in vigore della riforma del 2000, resta ancora nel giudizio amministrativo (in particolar modo in materia di pubbliche gare) un istituto la cui effettività è garantita a corrente eccessivamente alternata.