Mario P. Chiti - Il Partenariato Pubblico Privato e la nuova direttiva concessioni

1.                  Il Partenariato Pubblico Privato (PPP) è una nozione descrittiva di un fenomeno complesso ed articolato che si riferisce in modo collettivo ad un fascio di istituti giuridici caratterizzati da alcuni comuni elementi. Dunque, il PPP non è un distinto ed unitario istituto giuridico[1].

Così è anche positivamente previsto nel Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, c. 15 ter (introdotto con il correttivo del 2008), definisce il genere dei “contratti di partenariato pubblico privato”[2] e poi ne indica, a titolo esemplificativo[3], alcuni tipi. Nel diritto dell’Unione europea non esiste un riferimento generale, né una definizione del PPP, a dispetto delle numerose proposte in tal senso; ma neanche se ne parla in modo espresso nella recente direttiva concessioni.

Pur con queste premesse, la tematica del PPP ha caratteri largamente omogenei. In particolare, si è individuato un filo rosso tra gli istituti giuridici rapportabili al PPP, incentrato sul ruolo del privato quale promotore del progetto, interlocutore e partner di durata della pubblica amministrazione. Ciò è avvenuto inizialmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito ed in altri sistemi di simile civiltà giuridica[4]; ma ben presto anche in altri ordinamenti, avendo il PPP attirato generale attenzione.

Convergenti, ancorché di per sé diverse, motivazioni hanno favorito una rapidissima fortuna del PPP negli ultimi due decenni. Tre motivazioni, in particolare, sono risultate importanti: il ruolo paritario del privato nei confronti della pubblica amministrazione; l’affermazione della sussidiarietà orizzontale, di cui il PPP è considerato una delle varie espressioni; la centralità dell’economia sociale di mercato nel contesto della “costituzione economica” dell’Unione europea.

Al fondo delle diverse motivazioni si può cogliere il comune elemento dell’apporto del privato alla realizzazione delle politiche pubbliche in termini di progettualità, di finanziamento e di gestione o cogestione delle iniziative. Fenomeno non certo in precedenza sconosciuto, come dimostrato ad esempio dalla legge sul procedimento amministrativo (n. 241/1990, specie art. 11); ma certo originale nei termini pervasivi in cui adesso si è manifestato nella gran parte dei sistemi giuridici.

            Come spesso accade per nozioni nuove ed accattivanti, il PPP ha destato un vero entusiasmo ed è stato considerato quale panacea per una quantità di questioni che nell’ultima parte dello scorso secolo segnavano negativamente l’azione della pubblica amministrazione, quali la carenza di finanziamenti pubblici per nuove iniziative, i limiti imposti dalle norme europee di finanza pubblica, la modesta progettualità, le difficoltà di impostare un efficace rapporto per la gestione dei progetti di durata[5]. L’esperienza sta dimostrando che nessuno degli istituti rapportabili alla nozione di PPP può considerarsi la primaria soluzione per i problemi dell’azione pubblica; ma comunque bene hanno fatto le istituzioni nazionali ed europee a valorizzare il ruolo di questi nuovi istituti e, quando si trattava di istituti risalenti (come le concessioni), a modernizzarne la disciplina.

2.                  Come detto, lo sviluppo della tematica del PPP è un fenomeno manifestatosi contestualmente in alcuni tra i più avanzati ordinamenti; ma non avrebbe assunto l’attuale importanza senza il contributo decisivo dell’Unione europea, a partire dalle proposte organiche del 2004.

            I principali documenti dell’Unione europea sul tema del PPP sono: il Libro verde del 2004 relativo ai PPP ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2004, 327); la Comunicazione della Commissione europea del 15.11.2005 sui PPP e sul diritto degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2005, 569); la Risoluzione del Parlamento europeo del 16.10.2006 sui partenariati pubblico-privati e il diritto comunitario in tema di appalti pubblici e concessioni; la Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) del 5.2.2008 (COM 2007 6661); il Libro verde del 2011 relativo alla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti (COM 2011 15). Il tema particolare delle concessioni era stato anticipato rispetto ai documenti ora citati dalla Comunicazione interpretativa della Commissione del 12.4.2000 sulle concessioni nel diritto comunitario.

            Dopo tanto trattare di PPP, in documenti dell’Unione, non se ne parla invece nella recente direttiva 2004/23 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.2.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (d’ora in poi, direttiva concessioni), che pure è la disciplina europea che per la prima volta regola in modo sistematico uno degli istituti capisaldi del Partenariato.

            La ragione è che nel breve volgere di un decennio (2004-2014) il dibattito critico sul PPP è stato così intenso da aver, a mio avviso, indotto l’Unione europea ad una virata delle proprie politiche. Tanto da porre il problema della perdurante validità di una nozione unitaria di PPP, visto che l’Unione europea sta sviluppando una politica del diritto incentrata sulla definizione di alcuni dei maggiori istituti del Partenariato; abbandonando la prospettiva di una disciplina generale del tema.

            Le riforme non riguardano, intuitivamente, il solo versante dell’Unione europea, stante la perdurante competenza degli Stati membri su una quantità di istituti giuridici del Partenariato, nonché la tendenza alla convergenza ed alla reciproca ibridazione tra gli ordinamenti nazionali. Per l’Italia esiste l’ulteriore questione dell’anticipazione normativa di una prima disciplina del PPP rispetto agli attesi sviluppi del diritto europeo, sulla base di una sicura propria competenza. Tale normativa è ora a rischio di asimmetria o, addirittura, di contrasto con il più recente diritto dell’Unione, come la direttiva concessioni. 

            Per verificare lo stato di questa evoluzione – che è, insieme, normativa, giurisprudenziale e scientifica – occorre esaminare come il tema del PPP sia stato trattato nei documenti dell’Unione europea, sopra citati, a ciò specificamente dedicati; gli esiti dei relativi dibattiti; nonché le ragioni della mancata considerazione del PPP nelle direttive del 2014 sui contratti pubblici.

3.                  Il Libro Verde del 2004, dopo una definizione di larga massima del PPP, considera che il Partenariato sia caratterizzato da quattro elementi e che la complessiva tematica si articoli in due categorie di istituti.

            La definizione generale di Partenariato si riferisce a forme di cooperazione a lungo termine tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le risorse necessarie, apportate in via principale dal privato, sono in gestione congiunta ed i rischi collegati suddivisi in modo proporzionato, sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto.

I quattro elementi caratterizzanti sono il rapporto collaborativo di lunga durata; il finanziamento almeno in parte privato, con successivo recupero dell’investimento; il ruolo non operativo della pubblica amministrazione, ma di controllo e coordinamento; il trasferimento del rischio sul privato, in modi complessi.

Le due principali categorie di partenariato sono poi definite “PPP istituzionalizzato” e “PPP contrattualizzato”. La prima è caratterizzata dalla decisione condivisa di istituire un nuovo soggetto giuridico cui i due o più partner pubblici e privati parteciperanno; la seconda si riferisce invece alla presenza di un rapporto contrattuale, non organizzativo.

            Come è proprio delle importanti proposte presentate dalla Commissione europea nella forma di “Libri verdi” (che di norma rappresentano il secondo stato dell’approfondimento istruttorio, che segue un primo dibattito pubblico), le posizioni della Commissione sollevarono grande interesse e un’accesa discussione. Tanto la definizione del PPP quanto le quattro caratteristiche (presentate in modo così ampio da risultare effettivamente costanti) sono risultate accettabili, almeno in prima approssimazione. Invece, diverse sono state le valutazioni sulla categoria del “partenariato istituzionalizzato” e sulla ricomprensione degli appalti nel PPP contrattuale.

            Per quanto riguarda il partenariato istituzionalizzato, il Libro Verde indicava – come accennato – che tale è il caso della decisione di un soggetto pubblico e di un soggetto privato (gli uni e gli altri anche plurali, ovviamente) per costituire insieme un nuovo soggetto incaricato di perseguire un obbiettivo condiviso. Ora, per le società miste va osservato che indubbiamente la parte pubblica e quella privata decidono di istituire un nuovo soggetto giuridico con l’intento di collaborare insieme per il raggiungimento di scopi comuni. In tale prospettiva, nulla è più vicino all’idea generica di Partenariato di un soggetto “comune” alle due parti che lo istituiscono e vi partecipano; inoltre, il privato contribuisce con il proprio apporto finanziario, il lavoro e le prestazioni necessarie. Tuttavia, in questo modulo di PPP a carattere organizzativo manca un elemento essenziale del Partenariato, quale il rischio diretto per la parte privata; non perché la partecipazione societaria sia priva di rischi, ovviamente, ma in quanto il rischio di impresa è propriamente della società e ripartito tra i soci in proporzione al peso delle relative partecipazioni. In ogni caso è del tutto diverso in queste situazioni dal rischio operativo e di disponibilità, come definito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dai giudici nazionali, e come adesso disciplinato dalla direttiva concessioni. Si consideri inoltre che le società miste hanno un regime giuridico con caratteri non necessariamente identici a quelli delle società di diritto comune (talora con rilevanti discrepanze, anzi); ciò che determina una posizione dei privati differenziata rispetto al criterio generale del rischio di impresa. La circostanza che il privato sia stato scelto all’esito di una procedura ad evidenza pubblica (oggi rimangono solo limitate eccezioni a questa regola) non riequilibra la situazione ora esposta; e comunque è inconferente con l’idea di Partenariato.

            Se non è semplice riportare le società miste con qualche precisione alla nozione di PPP, ancora più difficile è per varie altre figure giuridiche soggettive pubblico-private; vista la varietà oggi assunta da queste figure. Anche le “fondazioni pubbliche” – che pur rappresentano in modo descrittivo, di prima approssimazione, una forma di PPP – sfuggono infatti ad una puntuale ricomprensione nella nozione di Partenariato. Infatti, per definizione una fondazione (quale che sia la caratterizzazione, tradizionale o “pubblicistica”) è un soggetto giuridico che vive distintamente dai soggetti che l’hanno promossa e che non contempla neanche il concetto economico di rischio per il privato che vi partecipa[6].

            Nell’insieme, il “PPP istituzionalizzato” non pare rappresentare una categoria omogenea per la diversità delle figure soggettive che possono considerarsene parte, ed anche per il regime giuridico altrettanto differenziato di tali figure. Ma soprattutto non vi si rinvengono elementi essenziali della nozione generale di Partenariato, come definiti dallo stesso Libro Verde, ad iniziare, come detto, dalla “traslazione del rischio”. Per superare queste obbiezioni a ben poco è valsa la Comunicazione interpretativa della Commissione sui PPP istituzionalizzati del 5.2.2008.

4.                  Assai discussa è stata anche l’assimilazione tra i contratti di appalto e le concessioni nell’ambito del “PPP contrattuale” (nella terminologia del Libro Verde)[7].

            I contratti di appalto – istituti di antichissima tradizione giuridica – paiono già a prima considerazione estranei alla nozione di PPP. Infatti, a base di questi contratti non esiste alcuna comune volontà collaborativa di realizzare una comune iniziativa. Il contratto cristallizza gli opposti interessi delle due parti, che rimangono sostanzialmente diversi anche nel corso dell’esecuzione e fino alla definitiva estinzione del rapporto. Il privato non finanzia l’oggetto del contratto, se non in circostanze del tutto particolari ed eventualmente sempre per una parte. Il rischio per il privato, come in tutti i contratti del genere, è solo per il c.d. “rischio operativo”; mancano in genere altri rischi, come il rischio di disponibilità. La programmazione, l’attivazione delle relative procedure e la loro gestione è esclusiva competenza delle pubbliche amministrazioni stazioni appaltanti.

            In breve, non risulta per niente convincente l’assimilazione che il Libro Verde ha voluto tra appalti e concessioni nel quadro della categoria del PPP contrattuale. Neanche poteva richiamarsi la circostanza che la direttiva 2004/18 per gli appalti pubblici avesse delle disposizioni applicabili anche alle concessioni. Tali disposizioni riguardano infatti alcuni principi generali da tenere presenti nelle procedure per l’affidamento delle concessioni, senza introdurre una disciplina delle stesse. Anzi, malgrado una forte pressione per una normativa dell’Unione europea sulla materia – quale essenziale componente della disciplina dei contratti pubblici – solo nel 2014 è stata approvata l’attesa direttiva (la già ricordata direttiva 2004/23); che tuttavia, come si dirà, è incentrata proprio sulla distinzione di fondo tra concessioni ed appalti.

5.                  Alla carenza di un convincente inquadramento generale della nozione di PPP nel diritto dell’Unione si accompagnava un’altrettanto discutibile considerazione dei principali istituti di Partenariato nel Sistema europeo contabile SEC 1995, come interpretato da Eurostat con la decisione 11.2.2004 sul deficit e sul debito.

            La questione è molto tecnica, ma alla base vi è il problema definitorio dell’ambito delle operazioni finanziarie che possono o meno rientrare nel Patto di Stabilità (criterio del c.d. off on balance). Problema che rappresenta uno dei maggiori elementi di attrazione per il PPP, ove si accetti il criterio che anche i PPP “freddi” siano da considerare al di fuori dei vincoli del Patto, a meno che non si tratti di veri e propri appalti.

            La decisione Eurostat sopra citata del 2004 prevedeva, in riferimento specifico ai contratti di infrastruttura, ma con argomenti facilmente estensibili, che sono contratti di PPP solo quelli in cui una pubblica amministrazione corrisponde al privato tutto o gran parte del costo del servizio; ovvero i casi usualmente definiti come di “opere fredde”. Mentre sono concessioni – distinte dai contratti di PPP – le tipologie contrattuali in cui i servizi sono pagati, in tutto (opere “calde”) o in parte (opere “tiepide”) dagli utenti finali. Per Eurostat, le operazioni in cui il privato si assume il rischio di costruzione ed almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda possono non essere registrati nei bilanci delle pubbliche amministrazioni. Tale conclusione determinava due problemi: il primo, per la distinzione tra PPP e concessioni, tema sul quale i documenti della Commissione europea fornivano opposte indicazioni; il secondo, per una malintesa applicazione delle regole SEC 95, mai però formalmente contestata ad Eurostat.

            Nel 2010 il sistema contabile SEC è stato modificato, con effetto dal settembre 2014, secondo criteri che influenzano anche il tema in esame. Infatti, come chiarito dal Manuale sul governo del deficit e del debito (MGDD), in base alle varie novità possono considerarsi off balance le operazioni di PPP in cui il partner privato assume la maggior parte dei rischi e, allo stesso tempo, ha diritto di godere di larga parte dei benefici derivanti dall’operazione.

            Con la direttiva 2014/23 la questione può considerarsi definitivamente superata in quanto la nuova disciplina ricomprende unitariamente le concessioni, anche quelle in cui il principale pagatore è la pubblica amministrazione

            La soluzione delle iniziali posizioni di Eurostat è quanto mai opportuna pure per il diritto interno poiché il più volte citato art. 3, c. 15 ter, del Codice dei contratti pubblici stabilisce che alle operazioni di PPP “si applicano i contenuti delle decisioni Eurostat”. Cessa così l’antinomia tra la decisione Eurostat del 2004 – per cui solo i contratti “freddi” sono da considerare PPP – e il nostro Codice che, invece, considera le concessioni quali sue articolazioni, comprese quelle “calde”.

6.                  Il decennio intercorso tra il Libro Verde del 2004 e le nuove direttive contratti pubblici del 2014 è stato dunque segnato da un intenso dibattito, ma nessuna proposta è stata compiutamente accolta ed approvata. Altri temi sono stati abbandonati o radicalmente riconsiderati[8].

Il tema del “Partenariato istituzionalizzato” non è stato sviluppato come tale nella disciplina dell’Unione europea, neanche per parti. Si è avuta invece un’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema delle società miste e del collegato tema dell’organismo di diritto pubblico, ma su aspetti non direttamente connessi al PPP (osservanza delle procedure ad evidenza pubblica da parte delle società miste, applicabilità dei principi sull’“in house providing” a queste società, criteri di scelta dei soci privati, ecc.). L’amplissima letteratura giuridica ha confermato, come già accennato, un marcato scetticismo sulla riconducibilità al PPP delle società miste e delle altre figure soggettive. In sintesi, questa parte delle iniziali proposte del Libro Verde non avuto sviluppo ed anzi può considerarsi abbandonata. Ma va notato come l’ordinamento italiano sia sul punto asimmetrico ed impreciso, almeno nelle definizioni, contemplando ancora le “società miste” tra gli esempi di PPP già contrattualizzato (cfr. il citato art. 3, c. 15, del Codice dei contratti pubblici).

C’è stato invece un fervido e costruttivo dibattito per un aggiornamento delle “direttive appalti” del 2004 (nn. 17 e 18) e per il completamento della disciplina dei contratti pubblici con l’attesa direttiva sulle concessioni.

Le direttive del 2014 (nn. 23-24-25), ed in particolare la “direttiva concessioni” (la 2014/23)[9], sono, allo stato, la conclusione di questo percorso; anche se il carattere particolare del processo di integrazione europea indica che nulla è mai punto definitivo di arrivo, ma tappa di un percorso che continua incessantemente. Come dimostra anche il documento del Parlamento europeo nel settembre 2014, con l’ausilio di centri ricerca, “The Cost of Non-Europe in the Single Market[10], ove nella parte IV dedicata a Public Procurements and Concessions, si ipotizzano ulteriori perfezionamenti per l’attuazione della normativa europea sui contratti pubblici e sul PPP.

            Che cosa ci indicano dunque per la problematica del PPP le direttive n. 23 (concessioni) e n. 24 (appalti pubblici nei settori ordinari; quelli nei settori esclusi – disciplinati dalla direttiva n. 25 – non interessano qua particolarmente)[11]?

            Tra le molte novità, tre sono particolarmente rilevanti ai presenti fini. Anzitutto, nelle due direttive non si parla mai di PPP; neanche nei pur numerosissimi “considerando” iniziali. Merita dunque accertare la ragione di questo silenzio, che non è causale. In secondo luogo, si stabilisce una precisa linea divisoria – concettuale e di disciplina – tra appalti e concessioni; anche per le fattispecie che paiono più strettamente connesse. In terzo luogo, le concessioni disciplinate dalla direttiva n. 23 non sono gli istituti del genere tradizionale delle concessioni traslative o costitutive, ma (cfr. Considerando n. 11) la particolare specie di contratti mediante i quali le amministrazioni aggiudicatrici “affidano l’esecuzione di lavori o la prestazione e gestione di servizi a uno o più operatori economici. Tali contratti hanno per oggetto l’acquisizione di lavori o servizi attraverso una concessione in cui il corrispettivo consiste nel diritto di gestire i lavori o i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo[12]”.

            La prima indicazione – sul mancato richiamo al PPP – è, in tutta evidenza, quella più importante per capire lo stato del diritto europeo per la problematica in esame. Dopo tanto proporre e discutere di PPP, le istituzioni dell’Unione non potevano certo considerarsi ignare di questa tematica; specie nel momento in cui per la prima volta disciplinavano istituti giuridici che ne fanno parte, a ragione (le concessioni), o ridisciplinavano istituti (gli appalti) che, a torto, il Libro Verde considerava parte del PPP. La circostanza che nelle due nuove direttive sia stato omesso ogni riferimento, generale e speciale, al PPP sta dunque a significare – a mio avviso – che il legislatore europee ha considerato, almeno per il momento, che non sussistono le condizioni per una disciplina unitaria degli istituti giuridici riportabili al PPP; ma neanche che ce ne sia bisogno, una volta che il cuore della tematica del Partenariato (le concessioni) trova una compiuta disciplina.

            La linea divisoria accuratamente disposta dalle direttive 23 e 24 tra appalti e concessioni indica poi che il legislatore europeo ha implicitamente accolto le critiche – fondatissime – all’iniziale posizione espressa dalla Commissione nel Libro Verde circa l’unitarietà del plesso del “partenariato contrattuale”. In tal modo ulteriormente sfoltendo l’ambito del PPP prima maniera, dopo che era stato fatto cadere l’intero plesso del “partenariato istituzionalizzato”.

            Ancora, la nuova disciplina delimita implicitamente l’ambito del PPP rilevante per il diritto dell’Unione europea, in quanto tratta solo delle concessioni “di rischio”. Il punto ricorre in modo puntuale nell’intera direttiva 23; specialmente nei Considerando da 11 a 20 e negli artt. 1e 3. Si tratta di una delimitazione quanto mai opportuna, anche nella prospettiva nazionale. Infatti, se la direttiva chiarisce che per il diritto dell’Unione è rilevante solo questa specie di concessioni è perché solo esse sono istituti in cui il rischio connota il rapporto di partenariato. Si tratta dunque di concessioni “dinamiche”, ben diverse dalle tradizionali concessioni traslative. Secondo il Considerando n. 15, gli accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico – quali porti, aeroporti, spiagge – non si configurano come concessioni ai sensi della direttiva 23, in quanto l’amministrazione non acquisisce lavori o servizi, né vi una definizione dei rischi ai sensi della nuova direttiva.

                  La direttiva 23 rappresenta così un’importante novità anche per il nostro diritto, confermando con tutto il peso giuridico del diritto dell’Unione che il genus delle concessioni va ormai scisso per species, ciascuna con una propria distinta caratterizzazione. Questo esito era atteso da una parte degli studiosi per dare finalmente un’aggiornata sistemazione ad una delle più risalenti nozioni pubblicistiche; ma comporta anche conseguenze importanti per superare una serie di pseudo questioni che – per ragioni comprensibili connesse alle precedenti incertezze normative, nonché per bieche ragioni politiche contingenti – avevano portato a vedere ovunque fattispecie concessorie soggette al diritto europeo. Specie a seguito della direttiva sui servizi nel mercato interno (c.d. direttiva Bolkestein 2006/123).

7.                  La direttiva 2014/23 sulle concessioni è dunque il principale risultato sinora raggiunto nell’Unione europea sul tema del PPP; ma con esiti che si distinguono assai dalle iniziali proposte del Libro Verde del 2004. Infatti, il PPP viene incentrato sulla figura delle concessioni dinamiche disciplinate dalla direttiva ora citata; senza però che il legislatore europeo abbia chiarito se in questa figura si esaurisca la rilevanza giuridica del PPP, oppure se ciò rappresenti solo una prima disciplina di un complesso fenomeno ancora da completare.

            La questione ha intuibili conseguenze, come detto, anche nel diritto interno, in quanto, accettando la tesi che il PPP di matrice europea si esaurisce nelle concessioni di cui alla direttiva 23, una serie di contratti pubblici che il d. lgs. n. 163/2006, e ss.ii.mm. considera esempi, tipici ed atipici, di PPP rimarrebbero privi di ancoraggio nel diritto dell’Unione. È il caso ad esempio dei contratti di sponsorizzazione (art. 26), della locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. 160 bis) e dei contratti di disponibilità (art. 160 ter).

            Al riguardo, è però opportuno precisare che la mancanza di una chiara base di diritto europeo non delegittima le disposizioni nazionali che si richiamano al PPP, non essendo tale tematica parte delle competenze esclusive dell’Unione. Ma così si determina una situazione di duplice regime di PPP, nazionale ed europeo, in cui il primo si può svolgere autonomamente, almeno sino al punto in cui si determinino incompatibilità con principi generali di diritto europeo rilevanti in tali fattispecie. Situazione interessante quale esempio di riforme interne sollecitate da iniziative dell’Unione europea, poi non sviluppate compiutamente, che risultano caratterizzate da un segno nazionale “eurocompatibile”.

8.                  Per confermare questa interpretazione occorre analizzare più in dettaglio alcuni punti centrali della direttiva n. 23, quali la disciplina delle procedure di aggiudicazione delle concessioni; il trasferimento del rischio al privato concessionario; il controllo pubblico sull’esecuzione; il finanziamento delle concessioni, anche tramite i c.d. direct agreements.

            La procedura di aggiudicazione è stata disciplinata secondo il principio di libertà procedurale delle amministrazioni concedenti, che dunque potranno modellare di volta in volta la procedura a seconda dell’oggetto e delle caratteristiche della concessione. Il principio è opposto a quello della disciplina degli appalti, dove le relative procedure ad evidenza pubblica sono puntualmente predefinite.

            Il Libro Verde del 2004 aveva consigliato che, sino all’adozione di una direttiva dell’Unione sul tema delle concessioni, gli Stati membri adottassero procedure flessibili; diverse da quelle per gli appalti. Con enfasi per la procedura di “dialogo competitivo”, considerata la più appropriata per un effettivo rapporto di partenariato in quanto l’amministrazione può aumentare le sue conoscenze nel corso della procedura, affinando le posizioni di partenza ed attenuando l’asimmetria conoscitiva.

            La direttiva 2004/18, coeva al Libro Verde, seguiva una linea assai più vaga e per certi versi imprecisa stabilendo solo alcune regole essenziali per le concessioni di lavori a tutela della trasparenza e della pubblicità (art. 56 e segg.); nulla prevedendo per le concessioni di servizi.

            Il nostro Codice dei contratti pubblici è andato oltre le previsioni della direttiva 2004/18, con quattro plessi normativi dedicati nell’ordine alle concessioni di servizi su iniziativa pubblica (art. 30); alle concessioni di lavori su iniziativa pubblica (art. 144); alla finanza di progetto (art. 153). Con un proseguo nel regolamento, all’art. 278, per la finanza di progetto nei servizi.

            La fattispecie disciplinata dal vigente Codice in modo più leggero è, come detto, quella delle concessioni di servizi. Ma il giudice amministrativo è stato attento a mettere appropriati argini ai poteri delle amministrazioni concedenti. Esemplare la sentenza del TAR Brescia, I, n. 1202/2014, sugli affidamenti diretti di queste concessioni[13].

            Sino alla direttiva 2014/23 l’asimmetria tra il diritto europeo – quanto mai ridotto – e il diritto nazionale – non completo, ma certamente più incisivo ed inspirato dalla disciplina degli appalti – non aveva dato origine a nessun contrasto sostanziale; neanche per la disciplina della finanza di progetto uscita indenne da alcuni complessi contenziosi.

            Adesso invece si pone in modo ineludibile la questione della “libertà di procedura”, che il legislatore nazionale dovrà risolvere nell’attuazione della direttiva 23 attraverso il riconoscimento in via generale del principio sulla libertà delle procedure ed una profonda rivisitazione dell’attuale disciplina della finanza di progetto. Per il principio di libertà di procedura, il diritto dell’Unione non lascia margini agli Stati membri. In caso di eventuali previsioni nazionali difformi, il contrasto sarà facilmente verificabile con la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o tramite una procedura di infrazione attivata dalla Commissione; a meno che i soggetti tenuti ad applicare il diritto dell’Unione non disapplichino direttamente la norma nazionale in questione.

            Si osservi il modo dettagliato con cui la direttiva 23 ha previsto il principio. Nel Considerando n. 68 si prevede che deve “essere lasciato alle amministrazioni aggiudicatrici ed agli enti aggiudicatori un’ampia flessibilità nel definire ed organizzare la procedura di selezione del concessionario”. Principalmente per la ragione che le concessioni sono di norma accordi complessi di lunga durata con i quali il concessionario assume responsabilità e rischi tradizionalmente propri dalle amministrazioni e rientranti di norma nell’ambito di competenza di queste ultime.

            L’art. 30 esplicita in modo netto (tanto da impressionare le vestali dell’evidenza pubblica) che le amministrazioni “sono libere di organizzare la procedura per la scelta del concessionario, fatto salvo il rispetto della presente direttiva” (come per i principi di cui all’art. 3).

            Tanto centrale è questo principio nell’ambito della nuova direttiva che è ribadito anche nell’art. 37, inclusa la precisazione (c. 6) che “l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore può condurre liberamente negoziazioni con i candidati e gli offerenti”.

            Nella prospettiva di questo scritto, quale è il significato di fondo del principio così originale sulla libertà di procedura?

            Pur senza che sia stato esplicitato nei “considerando”, si può a mio avviso agevolmente rilevare che la libertà di negoziazione con i candidati e gli offerenti risponde con puntualità al principio del partenariato, del dialogo tra pari; anzi è il modo primario di dar effettività a questo principio. Le amministrazioni concedenti saranno dunque libere di configurare di volta in volta le procedure più appropriate, anche negoziate e competitive, trattando con i privati quali interlocutori con piena dignità. Fermo che la procedura che così sarà configurata dovrà garantire i caratteri essenziali delle “nuove” concessioni.

9.                  Passando alla disciplina del trasferimento del rischio, va detto che il tema non è certo nuovo dato che da sempre è stato considerato necessario carattere delle varie forme di PPP ed in particolare delle concessioni, assieme alla traslazione della gestione per cui deve esservi un diretto legame tra il partner privato e l’utente finale. Tuttavia né gli spezzoni di normativa sinora in vigore, né la pur cospicua giurisprudenza avevano chiarito il suo ambito preciso; salvo ribadire che si tratta del principale elemento distintivo rispetto agli appalti.

            Più incisiva è stata la giurisprudenza nazionale che da un lato aveva individuato come il rischio debba essere per il privato concreto e sostanziale (ovvero non meramente formale); dall’altro, era giunta addirittura a ritenere nulli i contratti che non assicurassero un’effettiva distribuzione dei rischi, in quanto in frode alla legge (TAR Sardegna, 10.3.2011, n. 213). Quest’ultima posizione, per quanto isolata nella sua radicale conclusione, è meritevole di richiamo poiché con ottime ragioni intende assicurare l’equilibrio del mercato del PPP senza che il privato possa sfruttare le asimmetrie informative e di competenze che affliggono l’amministrazione[14].

            La giurisprudenza nazionale è inoltre interessante per aver calcato la distinzione tra appalti e concessioni proprio sulla ripartizione del rischio; ma, così facendo, marginalizzando le concessioni “fredde”, se non addirittura espungendole dal genere concessioni. Emblematica la decisione del Consiglio di Stato, VI, 4.9.2012, n. 682, che considera appalti le apparenti concessioni in cui l’onere del servizio viene sostanzialmente a gravare sull’amministrazione.

            Il Codice dei contratti pubblici ha usato (con l’art. 15, c. 15 ter, introdotto con la revisione del 2008) una formula apparentemente adeguata, parlando di necessaria “allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni comunitarie vigenti”; ma ponendo da parte che sul punto le prescrizioni comunitarie sono state sino alla direttiva 2014/23 assai vaghe. Per il caso della concessione di opere destinate alla utilizzazione diretta della pubblica amministrazione, l’art. 143, c. 9, è più preciso nel prevedere che il concessionario deve avere l’alea economico-finanziaria della gestione dell’opera. Anche l’art. 153, c. 13, per la gestione delle operazioni di finanza di progetto.

            Adesso il tema del rischio è compiutamente definito con una disciplina europea che non lascia margini di incertezza all’interprete, ma neanche spazi di autonomia per il legislatore nazionale che l’attuerà. Nella direttiva n. 23 tra le tante previsioni dedicate al tema del rischio le principali sono i Considerando n. 18 e n. 20, specie per la definizione del rischio operativo[15], e l’art. 5, c. 1, n. 1, (secondo cui il rischio per il concessionario ha natura economica e comporta che in condizioni operative normali non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione).

            Nell’insieme, dalla direttiva 23 emerge una chiara configurazione del rischio relativamente alla costruzione delle opere (quando tale è, in tutto o in parte, l’oggetto della concessione), alla domanda (ovviamente variabile per una serie amplissima di fattori), alla “disponibilità”. Con questa espressione si intende la qualità e la quantità della prestazione del concessionario, specialmente rilevanti nel caso di concessioni “fredde”, con canoni di disponibilità erogati dalla pubblica amministrazione che tengono conto dell’effettività delle prestazioni del concessionario. Si tratta dunque di un rischio collegato agli effettivi risultati del concessionario nelle concessioni di gestione di infrastrutture per la pubblica amministrazione (oggi frequenti in vari settori, come la sanità e l’amministrazione penitenziaria).

            Secondo la prima posizione di Eurostat del 2004, almeno due di questi rischi dovevano essere espressamente allocati sul privato. Ma dopo la direttiva 23 occorrerà rivedere questa posizione in quanto tutte le forme di rischio sono altrettanto rilevanti; specie il “rischio di disponibilità”. Come anticipato, la decisione Eurostat del 2004 è superata anche nella divisione che prevedeva tra concessioni “calde” e concessioni “fredde”, considerando fuori dal bilancio delle pubbliche amministrazioni solo le prime; mentre quelle fredde finivano, a tali fini, per essere assimilate agli appalti. Dopo che la riforma SEC del 2010 aveva anticipato larga parte delle novità nella prospettiva della contabilità pubblica, la direttiva 23 unifica i due tipi di concessioni, non rilevando che per quelle fredde si tratti di rapporti bilaterali. Ciò che adesso distingue le concessioni di PPP non è la struttura bilaterale o trilaterale (come anche ritenuto dalla prevalente giurisprudenza nazionale), ma il tipo di contratto e la precisa allocazione del rischio; ben presente anche nelle concessioni fredde nella veste di rischio di disponibilità.

10.              Una terza rilevante novità della direttiva 23 è la previsione di varie disposizioni sulla fase dell’esecuzione della concessione.

            Nella direttiva 2004/18 non vi era quasi nulla a tale proposito, neanche per gli appalti. Lo stesso nel nostro Codice dei contratti pubblici, salva l’importante eccezione data dall’art. 143, c. 8, che il diritto del concessionario a richiedere la revisione del piano economico-finanziario in caso di variazioni apportate dalla stazione appaltante o scaturenti da modifiche normative che comunque incidano sull’equilibrio economico-finanziario della concessione. 

È evidente che tanto il diritto europeo che quello nazionale erano decisamente influenzati dalla tradizionale visione che considerava rilevanti solo le fasi di programmazione, scelta del contraente e di aggiudicazione, lasciando il resto al diritto comune. Con l’ulteriore conseguenza – questa volta specifica solo per il sistema italiano – di una diversa giurisdizione per le questioni dell’una e dell’altra fase: del giudice amministrativo per le procedure di evidenza pubblica e del giudice ordinario, salve situazioni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sulla fase dell’esecuzione. Ispirati da ben diverse logiche sono i recenti interventi legislativi sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e prevenzione dell’illegalità delle pubbliche amministrazioni (legge n. 190/2012; d.lgs. n. 33/2013); anche se la realizzazione effettiva delle misure ivi previste può comunque offrire utili elementi di conoscenza e valutazione per le amministrazioni concedenti.

            La quasi inesistente disciplina della fase di esecuzione dei contratti pubblici di appalto e di concessione è una evidente lacuna già per gli appalti, come dimostrato da un’amplissima giurisprudenza. Per gli appalti di lavori, il settore che nella tradizione è il più accuratamente disciplinato, per tutelare gli interessi pubblici in questa fase non sono risultate adeguate figure come il direttore dei lavori e il responsabile unico del procedimento; o modalità di controllo come il collaudo. Pressoché niente era previsto per i servizi.

La carenza nella disciplina della fase di esecuzione dei contratti è comunque assai più rilevante per le concessioni, che per loro carattere implicano rapporti di durata, talora assai lunga, in cui inevitabilmente si determinano evoluzioni nel rapporto contrattualizzato. Le concessioni implicano inevitabilmente delle sopravvenienze, spesso capaci di incidere significativamente sulla realizzabilità stessa della concessione e/o sul suo equilibrio economico-finanziario.

            La direttiva 23 è assai innovativa anche per questa parte. Il Considerando n. 76 indica che la concessione può essere modificata solo per circostanza che “non si potevano prevedere nonostante una ragionevole e diligente preparazione dell’aggiudicazione iniziale da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore”, specificata ulteriormente in relazione “ai mezzi a disposizione dell’amministrazione aggiudicatrice, della natura e delle caratteristiche del progetto specifico, delle buone prassi nel settore in questione e della necessità di garantire un rapporto adeguato tra le risorse investite nel preparare l’aggiudicazione e il suo valore prevedibile”. L’art. 43, poi, prevede una serie di ipotesi in cui l’oggetto della concessione può essere modificato dalle parti senza ricorrere ad una nuova procedura di aggiudicazione. Tali ipotesi consolidano per lo più le risultanze della giurisprudenza comunitaria e nazionale, ma nel contesto di una disposizione che tende a precisare per quanto possibile la nozione di “modifica sostanziale” della concessione (cfr. c. 4).

            Al di là del completamento del quadro normativo, la direttiva 23 è importante in quanto indirettamente, ma senza equivoci, pone alle amministrazioni pubbliche l’impegno di attrezzarsi per esercitare effettivamente il ruolo di monitoraggio sul modo in cui il concessionario svolge la propria attività contrattualizzata. Tale impegno va ben oltre quello di irrobustire e qualificare gli strumenti tradizionali di controllo sopra rammentati (direzione lavori, collaudo, ecc.), implicando originali procedure, anche informatiche, per una costante verifica quantitativa e qualitativa della concessione. Per di più modellate di volta in volta sulle caratteristiche della specifica concessione da controllare, quale sviluppo di procedure definitorie e di scelta del concessionario in cui l’amministrazione gode di una situazione di “libertà” (così l’art. 30 e segg. della direttiva 23, come già indicato nei paragrafi che precedono).

            Un cenno, almeno fugace, va infine dedicato al tema del finanziamento privato del progetto di PPP. Nel diritto italiano, esemplare la disciplina della finanza di progetto, il finanziamento del privato non ha una specifica considerazione, malgrado che le difficoltà di finanziamento in corso di concessione siano un fattore di grave rischio per l’intera operazione. In altri ordinamenti, invece, come nel Regno Unito, è invalsa la prassi dei “direct agreements” (talora noto anche come “tripartite deeds”), contratti trilaterali sottoscritti dal concessionario, da un istituto di credito e dalla pubblica amministrazione; allegati al contratto di concessione.

            In occasione della prossima attuazione nell’ordinamento italiano della direttiva 23 sulle concessioni sarebbe opportuno dare specifico rilievo a questo strumento giuridico al fine di responsabilizzare il concessionario ed il finanziatore e, di converso, garantire maggiormente la pubblica amministrazione. Non osta a tale obbiettivo alcun principio sulle procedure ad evidenza pubblica, dato che il direct agreement serve al concessionario (scelto con gara) per dare piena certezza al finanziamento, senza che la pubblica amministrazione acquisisca niente per sé; neanche indirettamente.

11.              Da questo excursus sul PPP nel diritto europeo nel decennio 2004-2014, segnato all’inizio dal Libro Verde e dalla direttiva 2004/18 ed oggi dalle nuove direttive appalti (2014/24) e concessioni (2014/23), si possono trarre tre principali conclusioni.

            La prima. Il PPP è rimasto nel diritto europeo una nozione richiamata in modo descrittivo, priva di una precisa valenza giuridica. Non esiste, né è alle viste, una disciplina unitaria della nozione; parti intere delle iniziali proposte, come il “partenariato istituzionalizzato”, sono state lasciate a discipline di settore, come suggerito dalla dottrina e dai più attenti commentatori. L’Unione europea si è invece incentrata con successo nell’ulteriore definizione dei caratteri degli appalti, recependo un decennio di giurisprudenza e dibattiti europei e nazionali, ma senza prevedere nella direttiva 2014/24 alcuna connessione tra disciplina degli appalti e del PPP. Anche per questa parte allontanandosi così dalle proposte del Libro Verde, che univa nel “partenariato contrattuale” tanto le concessioni quanto gli appalti.

            Lo sviluppo più rilevante dell’ultimo decennio è senza dubbio la direttiva concessioni 2014/23. Al di là dell’importante scelta di disciplinare una tematica che a lungo era stata lasciata da parte rispetto alla sempre più pervasiva disciplina degli appalti pubblici, rileva nella prospettiva del PPP che il diritto dell’Unione si è concentrato sul particolare tipo di concessioni previsto nella direttiva 23 quale istituto per eccellenza di Partenariato.

            In sostanza, dopo tante proposte e discussioni sui molti possibili partenariati, nel diritto dell’Unione solo la concessione è rimasta come sicuro istituto giuridico di Partenariato. Si potrà pensare che si tratta solo di un primo risultato, che non preclude altri sviluppi. Ma, se questo è vero, è altresì indubitabile che allo stato non esiste alcun’altra iniziativa della Commissione europea per istituti giuridici riportabili alla nozione generale di PPP. Anzi, viene da pensare che le molteplici proposte per una disciplina europea del partenariato siano state consapevolmente strumentali per superare le ostilità e le oggettive difficoltà della direttiva sulle concessioni.

            La seconda conclusione è che il PPP rimane essenziale nel presente difficile contesto. La difficile situazione della finanza pubblica ed i condizionamenti di bilancio rendono necessarie le iniziative ed il coinvolgimento dei privati nella realizzazione e gestione di molteplici iniziative di pubblico interesse. Pur se nella perdurante crisi economica anche la parte privata non è sempre in grado di presentare proposte di particolare rilevanza, l’apporto privato risulta componente imprescindibile delle politiche pubbliche.

              Il ruolo dei privati è particolarmente apprezzabile nella fase della progettazione, che è un obbligo per la pubblica amministrazione, ma non suo monopolio in quanto aperto all’apporto dei privati. Come dimostra l’esperienza di due decenni, le principali realizzazioni ascrivibili al PPP sono dovute a proposte private, positivamente valutate dalle amministrazioni. È poi spesso apprezzabile una maggiore efficienza di sistema e capacità manageriale nella gestione del rapporto. È stato icasticamente chiarito dal giudice amministrativo che in materia di finanza di progetto (ma con argomenti generalizzabili a tutti i contratti ascrivibili al PPP), “la scelta del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è volta alla ricerca non solo di un contraente, ma di una proposta, che integri l’individuazione e la specificazione dell’interesse pubblico perseguito” (Cons. St., V, n. 67/2014).

I più recenti studi della Commissione europea e del Parlamento europeo, aggiornati alle tre direttive nn. 23-25 del 2014, evidenziano la fondamentale importanza della nuova disciplina delle concessioni per lo sviluppo del mercato interno che finalmente completa il diritto dell’Unione per i contratti pubblici. Particolarmente importante il citato Rapporto del Parlamento europeo “The Cost of Non-Europe in the Single Market” che riprende, attualizzandolo, il noto Rapporto Cecchini del 1988.

            Per quanto essenziale per le politiche pubbliche, si conferma che il PPP non è una panacea ai problemi che i tradizionali contratti pubblici hanno nel tempo manifestato. Le esperienze dei paesi con maggiore tradizione di PPP – ad esempio il Regno Unito – mostrano non pochi difetti delle iniziative di finanza di progetto, istituto tipico del PPP, specialmente in settori a forte impatto sociale, come la sanità. Gli strumenti di partenariato vanno dunque scelti selettivamente e monitorati in modo efficace nel loro svolgimento.

            La terza conclusione è che il PPP può funzionare efficacemente solo se le condizioni delle pubbliche amministrazioni sono adeguate per queste sofisticate procedure. Come da tempo si rileva, il “partenariato” è per definizione un rapporto tra pari, non diseguale, almeno tendenzialmente; un rapporto tra soggetti della stessa dignità formale e con le medesime capacità. Il privato viene così “elevato” da destinatario dell’azione amministrativa a compartecipe, partner appunto. La pubblica amministrazione dialoga con il privato, definisce consensualmente i caratteri della fattispecie, che poi segue in ogni sua fase, anche in quella dell’esecuzione.

            Se la pubblica amministrazione non è attrezzata per questi impegni – per ragioni di organizzazione, o di mezzi, o per inadeguata formazione dei funzionari o per altro – il rapporto non potrà funzionare, in quanto si tratterà di una relazione asimmetrica in cui il privato può godere di vantaggi e opportunità varie; ed in cui, comunque, il pubblico interesse è ad evidente rischio. Non è un caso che il PPP sia emerso in ordinamenti ove la pubblica amministrazione, adeguatamente organizzata, è capace di dialogare con il privato con appropriati argomenti tecnici e giuridici; senza utilizzare la “spada” del diritto di supremazia.

            Il PPP, specialmente nella forma delle concessioni, è dunque anche un fattore per la riforma e modernizzazione della pubblica amministrazione. Se questo in Italia non si realizzasse, l’occasione delle “nuove” concessioni (ovvero il tipo ora previsto dalla direttiva 23, con diversità dall’istituto tradizionale), aumenterebbe il distacco con la situazione dei paesi europei più evoluti e la non attrattività del nostro sistema per investimenti stranieri.

            L’impegno, pur ineludibile, non sembra purtroppo di soluzione rapida e sicura; anche per la difficoltà di superare la ritrosia – non del tutto ingiustificata, visto l’atteggiamento delle Procure penali e della Corte dei conti – delle amministrazioni ad un impegno diretto nella costruzione delle procedure concessorie e nella valutazione dell’esecuzione dei contratti. Pesa inoltre in modo drammatico il numero enorme, patologico, delle amministrazioni aggiudicatrici. Problema che per gli appalti si cerca di attenuare attraverso le centrali di committenza e le nuove figure dei “soggetti aggregatori” (come definiti dal DPCM in corso di approvazione[16]), ma che per le concessioni disciplinate dalla direttiva 23 si pone in modo assai diverso in conseguenza del carattere particolare di ciascuna concessione e quindi dell’impossibilità di aggregare le relative amministrazioni. Per razionalizzare il sistema delle amministrazioni aggiudicatrice delle concessioni non si può dunque pensare alle centrali di committenza e simili aggregazioni, bensì all’istituzione di un’agenzia centrale di assistenza tecnica capace di fornire l’esperienza necessaria per le amministrazioni che intendono utilizzare il nuovo strumento concessorio.

[1] La tesi esposta in miei precedenti lavori (I partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Napoli, 2009, 1 segg; Luci, ombre e vaghezze nella disciplina del Partenariato Pubblico-Privato, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Bologna, 2005, 7 segg.) ha trovato conforto nell’evoluzione del diritto nazionale e dell’Unione europea.

[2] La definizione è: “contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico dei privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti”.

[3] I casi citati nell’articolo in esame, c. 15 ter, “a titolo esemplificativo” sono: la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità, l’affidamento di lavoro mediante finanza di progetto, le società miste (enfasi aggiunta), l’affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell’opera sia in tutto o in parte posticipato o collegato alla disponibilità dell’opera per il committente o per utenti terzi.

[4] Cfr. E.R. Yescombe, Public-Private Partnership, Amsterdam, 2007.

[5] Per una sintesi, A. Di Giovanni, Il contratto di partenariato pubblico-privato tra sussidiarietà e solidarietà, Torino, 2012.

[6] Il tema è stato di recente ripreso, anche oltre il settore dei beni culturali, da G. Manfredi, La “Fondazione La Grande Brera”, il partenariato e la panacea di tutti i mali, in Aedon, 2014, 2, 18.11.2014.

[7] Per un commento, G. Santi, Il Partenariato contrattuale. Assetto e dinamiche evolutive alla luce delle direttive europee e del d.l. 90 del 2014, in Diritto dei contratti pubblici, a cura di F. Mastragostino, Torino, 2014, 236 segg.

[8] Per una visione d’insieme, oltre al già citato (n. 1) volume Il Partenariato Pubblico Privato, cfr. Finanza di progetto. Temi e prospettive, a cura di Cartei G.F.-Ricchi M., Napoli, 2010.

[9] Per un accurato commento, G. Fidone, Le concessioni di lavori e di servizi alla vigilia del recepimento della direttiva 2014/23/UE, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015. Per la fase appena precedente a quella della definitiva approvazione delle direttive 23-25/2014, si veda il volume collettaneo, a cura di M. Cafagno-A. Botto-G. Fidone-G.Bottino, Negoziazioni pubbliche, Scritti su concessioni e partenariati pubblico-privati, Milano, 2013.

[10] European Parliamentary Research Unit, settembre 2014.

[11] Per primi commenti sui testi in itinere, non sempre in linea con l’impostazione del testo, cfr. A. Travi, Il PPP: i confini incerti di una categoria, in Negoziazioni Pubbliche, cit., 143; M. Ricchi, Il PPP: nuove competenze e nuovi strumenti di regolazione della P.A., ivi, 250. 

[12] Continua il Considerando 11: “Essi possono, ma non devono necessariamente implicare un trasferimento di proprietà alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori, ma i vantaggi derivanti dai lavori o servizi in questione spettano sempre alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori”.

[13] Per il TAR, nel caso, “trattandosi di una concessione di servizi non erano applicabili integralmente le disposizioni del codice dei contratti pubblici, ma erano comunque necessarie alcune garanzie, ed in particolare la predisposizione di un bando e di un disciplinare di gara, la preventiva definizione dei criteri di attribuzione del punteggio e lo svolgimento di un contraddittorio con il concorrente interessato prima dell’esclusione dell’offerta.

[14] Tali profili sono analizzati da F. Goisis, Rischio economico, trilaterità e traslatività nel concetto europeo di concessione di servizi e di lavori, in Dir. amm., 2011, 729 segg. In generale, R. Caranta, I contratti pubblici, 2012, 170 segg. Per la questione del rischio nel contesto della finanza di progetto, F. Merusi, Certezza e rischio nella finanza di progetto, in Finanza di progetto, a cura di G. Morbidelli, Torino, 2004, 18 segg.

[15] Da intendere come derivante da “fattori al di fuori del controllo delle parti. Rischi come quelli legati ad una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione. Rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul mercato dell’offerta o della domanda, ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta”.

[16] Si tratta del DPCM assunto in esecuzione dell’art. 9 del d.l. n. 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 89/2014, che prevede l’istituzione dell’elenco (c.d. Tavolo) dei soggetti aggregatori.

Mario P. Chiti - Le riforme amministrative e l’effettività della giustizia amministrativa

1.                 Il tema della relazione è l’effettività della giustizia amministrativa all’indomani della riforma della pubblica amministrazione attivata dalla legge n. 124/2015 (la c.d. legge Madia). Farò riferimento al sistema di giustizia amministrativa risultante in specie dalla legge n. 205/2000 e, soprattutto, dal Codice del processo amministrativo (CPA) del 2010. Dopo il CPA abbiamo un lasso di tempo sufficientemente ampio da consentire un’analisi del suo effettivo funzionamento, anche in comparazione con le recenti riforme della giustizia civile. In una prossima occasione è auspicabile che si possa porre a confronto questa esperienza anche con le esperienze dei maggiori ordinamenti europei, ove si stanno tentando riforme similari; con una significativa attenzione per forme di tutela proprie della “giustizia amministrativa” anche nei Paesi di tradizione giustiziale monistica. Più avanti vi dedicherò qualche cenno.

2.                 All’analisi del tema assegnatomi premetto comunque alcune considerazioni che mi sono state sollecitate dall’introduzione generale del Prof. Cassese, come sempre stimolante.

La prima considerazione riguarda l’influenza della legislazione per il buon funzionamento della giustizia, ma anche il ruolo delle norme quale paradossale fattore di contenzioso.

A parte il diffuso fenomeno dell’“amministrare attraverso legge” – in specie ai tempi di instabilità governativa, quando il parlamento pare coamministrare con i governi – c’è un rilevante problema di qualità della legislazione che comporta gravi effetti per la tutela giurisdizionale, ovviamente anche per la giustizia civile.

Il sistema delle fonti del diritto è da tempo modificato profondamente, con una serie di atti fonti non rapportabili alle categorie principali; soprattutto, la legislazione è ipertrofica e spesso oscura.

Basti il riferimento ad un caso esemplare che si sta svolgendo in questo periodo: la faticosa approvazione in Parlamento della legge delega per il recepimento delle tre direttive UE per appalti e concessioni (nn. 23, 24 e 25/2014), a loro volta assai ampie e puntuali. Trattandosi di una legge di delega al Governo, la legge dovrebbe contenere solo principi e criteri direttivi, succintamente formulati secondo lo schema previsto dall’art. 76 Cost. Per di più, essendo materia disciplinata da ben tre direttive UE, i maggiori principi e criteri direttivi sono già previsti nelle direttive stesse; specialmente nei “considerando” iniziali. In realtà, il testo approvato in prima lettura dal Senato è composto da ben sessantadue criteri di delega (che alla Camera stanno diventando ottanta) che impegnano ben venti pagine di atti parlamentari. Taluni dei criteri riguardano poi micro-problemi, del tutto estranei al corretto modello di legge delega, come all’art. 1 il caso dei buoni pasti.

La legge delega, una volta approvata, in tal modo si porrà come fattore di complicanza per il legislatore delegato, già tenuto ad attuare oltre trecento norme comunitarie. Ne deriveranno dubbi interpretativi, inaspettati contrasti di interessi fattori di un nuovo contenzioso.

La giustizia nel suo complesso è, dunque, strettamente funzionale ad una buona legislazione.

La giustizia amministrativa, per la sua parte, è anche il portato di una buona pubblica amministrazione e del suo diritto. Non a caso nei manuali di diritto amministrativo la giustizia è usualmente trattata a conclusione, dopo i principi generali, l’organizzazione, l’attività, i mezzi, ecc. Conta in particolare il sistema di amministrazione della giustizia, definito dagli inglesi come il machinery of justice; finora invece rimasto nell’ombra, perché ritenuto non di interesse per il diritto amministrativo; come in un passato ormai fortunatamente superato non interessava ai “veri” giuristi il procedimento amministrativo; questione rilevante solo per gli operatori del diritto. Da qui lo stretto intreccio tra amministrazione e giustizia amministrativa, con le riforme della pubblica amministrazione riattivate opportunamente a tutto campo dalla legge n. 124/2015.

Un’ultima considerazione preliminare riguarda il ruolo del diritto amministrativo che, a mio parere, non può che essere allo stesso tempo “luce rossa” e “luce verde” del potere amministrativo, per usare una metafora da traffico stradale proposta anni fa da un’eminente collega inglese. Che cosa significa diritto amministrativo come “luce rossa”? Limite del potere arbitrario, verifica della legittimità del potere amministrativo, garanzia per tutti coloro che sono stati affetti da decisioni illegittime e ingiuste; componente essenziale di un effettivo Stato di diritto. Diritto amministrativo “luce verde” significa invece un diritto funzionale alla realizzazione concreta delle politiche volute dagli organi politici, strumento primario per il perseguimento degli interessi pubblici.

È nella combinazione, non facile, di questi due profili che sta l’anima del diritto amministrativo; non superabile, a meno di non trasformare il diritto amministrativo nel diritto del principe o nel diritto delle sole garanzie, paralizzante il potere amministrativo. Queste caratteristiche si rinvengono plasticamente combinate nella nostra Costituzione, ove allo stesso tempo si assicura la pienezza della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113) e la giustizia nell’amministrazione (art. 100); nonché si prevedono i principi generali della funzione e dell’azione amministrativa, suo complessivo “buon andamento” (art. 97).

3.                 Vengo finalmente al tema affidatomi: il funzionamento della giustizia amministrativa e l’effettività della tutela così assicurata; anche nella percezione internazionale, oggi di rilevante importanza in un contesto di economia globalizzata.

Leggendo ciò che il mondo pensa del nostro sistema di giustizia (per ora parliamone complessivamente, senza le interne distinzioni, per i motivi che meglio tra poco dirò) c’è da rimanere sconcertati. L’OCSE (autorevole organizzazione internazionale), la Banca Mondiale, Commissioni delle Nazioni Unite, società private che qualificano il ranking internazionale degli Stati per le varie funzioni pubbliche, sono sostanzialmente unanimi nel collocare l’Italia agli ultimi posti della graduatoria per quanto riguarda il funzionamento della giustizia. Il rapporto internazionale più “cattivo” (“Doing Business”, della Banca Mondiale), tre anni fa, ha posto l’Italia al 140° posto tra i 180 sistemi scrutinati (e non vi dico che Paesi “selvaggi” erano avanti a noi). Nell’ultimo anno, soprattutto per le varie riforme nella giustizia civile, siamo risaliti al 103° posto; bel progresso, ma che ancora ci lascia lontano dal novero dei Paesi “civilizzati”, cui pensiamo di appartenere.

Sappiamo bene che queste graduatorie, i rankings, sono opinabili; talora fuorvianti, se non addirittura sbagliati; però indicano un’indubbia percezione generale del tema trattato. Soprattutto, a toto o ragione, sono una bussola di riferimento per i players internazionali, pubblici o privati che siano. Come indica il rapporto ora citato della Banca Mondiale, questi dati indirizzano gli investitori nelle loro scelte; specie per quanto attiene ai tempi della giustizia, alle modalità di accesso alla giustizia ed al grado di prevedibilità delle sentenze.

Da qui derivano anche una serie di indicazioni e direttive politiche propinate all’Italia dal Fondo Monetario Internazionale, da altri organismi internazionali, da agenzie di rating. Il fenomeno può assumere anche carattere cogente nell’UE, specie per le misure connesse al c.d. Semestre europeo, che è divenuto veicolo per l’esercizio da parte delle istituzioni UE di un forte condizionamento tanto politico quanto anche direttamente giuridico.

4.                 Perché si arriva a questo? Le ragioni sono principalmente tre: la giustizia civile italiana è stata in effetti sino a tempi molto recenti un vero e proprio buco nero tra le funzioni pubbliche, assorbendo tutta l’attenzione; le valutazioni internazionali non tengono conto della giustizia amministrativa, concentrandosi solo sulla giustizia ordinaria (che funziona peggio di quella amministrativa); il nostro Paese non fa conoscere, tanto meno valorizzare, le riforme in via di realizzazione e le buone performance della giustizia amministrativa.

La giustizia civile non è l’oggetto della relazione, se non per taluni riferimenti che seguiranno; ma va subito sottolineato che nel recente periodo molte sono state le riforme decise e soprattutto poste concretamente in essere. Da qui il recupero, come detto, di circa quaranta posizioni nel ranking in solo biennio. Molto rimane ancora da fare, ma la via intrapresa è quella giusta; così da lasciare prevedere ulteriori miglioramenti della nostra posizione nel prossimo futuro.

La giustizia amministrativa manca invece completamente nelle valutazioni internazionali che sopra ho ricordato. Grave lacuna delle ricerche, ma in larga parte dipesa anche dalle nostre carenze di informazione verso il mondo. Ove si fosse tenuto conto dei risultati della giustizia amministrativa, specialmente dopo le due riforme chiave del 2000 (legge n. 205) e del 2010 (CPA), la risalita dell’Italia non si sarebbe fermata al 103° posto del ranking internazionale; specie considerando che larga parte del contenzioso amministrativo ha carattere economico; interesse primario di queste ricerche internazionali. Dicevo che la responsabilità è duplice: di chi ha organizzato le ricerche internazionali; nostre per non aver fatto conoscere adeguatamente la giustizia amministrativa.

Le due carenze si intrecciano strettamente. Per quanto riguarda la nostra parte, pesa negativamente la carenza di un soggetto istituzionale unitario che sia responsabile per la funzione giustizia. La giustizia civile ha una referenza istituzionale nel Ministero della Giustizia, a parte il CSM, che ogni hanno organizza statistiche e raccolte di dati. Vi sono poi circostanze in cui questi dati emergono con compiutezza, come nelle relazioni all’apertura dell’anno giudiziario e nelle periodiche relazioni del Ministro della Giustizia al Parlamento. Le maggiori riforme sono fatte conoscere al mondo esterno con traduzioni almeno in lingua inglese, alla Commissione europea viene fornita un’esaustiva panoramica sulle iniziative in corso. Per la giustizia amministrativa la situazione è assai diversa. Istituzionalmente non fa capo al Ministero della Giustizia; i legami con la Presidenza del Consiglio non includono una verifica di dati e pratiche come per la giustizia ordinaria; la relazione del Presidente del Consiglio di Stato per l’apertura dell’anno giudiziario amministrativo contiene dati utili, ma non completi né articolati per temi; il Codice del processo amministrativo non è stato sinora tradotto ufficialmente in nessuna lingua straniera.

Quindi è abbastanza spiegabile che le ricerche internazionali si sono (colpevolmente) fermate ai dati reperibili nei siti più “facili”, senza approfondire le specificità giurisdizionali e processuali dei Paesi considerati, come per l’Italia la presenza – positiva – della giustizia amministrativa. A questa “pigrizia” dei ricercatori internazionali ha fatto riscontro un comportamento di fatto autolesionistico dell’Italia, che non ha realizzato quasi nulla per far conoscere questa parte, importante, del proprio sistema di giustizia. Da accademico sono critico non solo del comportamento carente delle istituzioni, ma anche di gran parte delle iniziative (quando vi sono) delle Università: i nostri convegni sono spesso “parrocchiali”, ove si trattano anche problemi giuridici importanti, ma per lo più di natura interna; è rarissima la presenza di relatori stranieri; la comparazione è occasionale e, quando prevista, assai discutibile nella metodologia e nell’uso dei risultati. Lo stesso è stato per le ricerche; almeno sino a tempi recenti, quando, sotto la spinta potente dell’Europa, è stato inevitabile aprire l’orizzonte di riferimento.

Nel sistema della giustizia amministrativa un importante segnale positivo è stata cinque anni fa l’istituzione dell’Ufficio Studi della Giustizia Amministrativa, sulla falsariga dell’ottima esperienza della Sezione Studi e Documenti del Conseil d’Etat. Pur nel breve periodo di prima esperienza l’Ufficio Studi ha avviato analitiche ricerche sull’operatività del nuovo Codice del 2010, in genere sul funzionamento del nuovo regime processuale, anche per i vari riti speciali; molti dei quali direttamente afferenti all’economia cui le ricerche internazionali danno una posizione centrale. Meritevoli di nota anche varie iniziative per incontri ed approfondimenti con gli equipollenti giudici dei maggiori ordinamenti europei.

5.                 Malgrado le positive iniziative ora richiamate, rimane nel mondo la diffusa e pervicace convinzione che in Italia la giustizia da considerare sia solo quella civile; mentre la giustizia amministrativa è del tutto ignorata o malintesa come variante di una tutela amministrativa interna al mondo della pubblica amministrazione. Occorre dunque un nuovo impegno delle istituzioni italiane per far capire la posizione ed il ruolo della giustizia amministrativa, quale componente essenziale del sistema giustizia complessivo; nonché per mettere in luce il buon funzionamento effettivo della giustizia amministrativa, specie per il contenzioso economico (proprio quello che è principalmente rilevante per le organizzazioni internazionali). Ne verrebbe sfatata una concezione presente in varie forze politiche italiane ed in una parte dei commentatori che la giustizia amministrativa ed il diritto amministrativo in generale non siano funzionali ai processi economici del nostro tempo.

La necessaria autocritica per la mancata valorizzazione delle nostre migliore esperienza non deve però portare ad una supina accettazione dell’indirizzo generale che hanno queste ricerche internazionali sulla giustizia. Infatti, gli indicatori principali prescelti riguardano, come detto, il contenzioso economico nella prospettiva della c.d. globalizzazione. Ma la giustizia non è solo contenzioso economico, bensì funzione pubblica garantita a tutti i soggetti che si sentono lesi in un proprio diritto o interesse. Occorre allora orgogliosamente porre in evidenza come una buona parte della tutela“meta-economica” sia stata in Italia tradizionalmente assicurata a tutti, con costi limitati e risultati effettivi; con il solo vero limite dell’eccessiva durata dei processi su cui tra poco tornerò. In breve, una giustizia accessibile, a costi sostenibili, amministrata da giudici di buon livello, che assicura piena garanzia del contraddittorio.

La nostra Costituzione è particolarmente ricca di principi a tale proposito, che, fortunatamente, sono divenute in grande misura realtà effettiva. E’ tra i testi cui si è ispirata la Convenzione dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In un’epoca in cui la giustizia tende a divenire una questione per persone fisiche e giuridiche abbienti, in violazione del principio di eguaglianza, queste caratteristiche del nostro sistema vanno valorizzate in un quadro generale di rivisitazione della questione (e valgono come avvertenza anche per l’attuale Governo, attratto da riforme straniere assai dubbio; esempio le riforme inglesi dell’ultimo biennio; su questo tra breve tornerò).

6.                 Nella prospettiva nazionale, vediamo adesso se le maggiori riforme della giustizia civile dell’ultimo periodo possono essere richiamate anche come modello per la giustizia amministrativa; secondo quanto molti ritengono necessario.

6.1.           Una questione di fondo riguarda il sempre maggiore rilievo delle politiche per deflazionare il contenzioso giurisdizionale; la c.d. “degiurisdizionalizzazione” (l’orrenda parola è del legislatore). Alludo, come potete ben capire, alle forme dette alternative alla giurisdizione – le ADR, per usare l’acronimo inglese più noto – che talora sono vere e proprie “alternative”, talaltra condizioni di procedibilità per l’eventuale successiva azione giurisdizionale.

Anche ammesso che nella giustizia civile le ADR abbiano un rilevante impatto (personalmente sono scettico; ma è presto per avere una posizione ragionata), non mi pare che queste azioni “alternative” siano facilmente esportabili nella giustizia amministrativa; né, prevedibilmente, che siano utili. Le vere ADR implicano infatti una situazione almeno tendenzialmente paritaria tra le parti; laddove i rapporti amministrativi sono caratterizzati dalla presenza di una pubblica amministrazione e, quasi sempre, dall’esercizio del potere pubblico. Anche nel caso di rapporti di diritto comune con la pubblica amministrazione, questa è comunque vincolata al rispetto dell’interesse pubblico cui è preposta; come tale non negoziabile.

Lasciando ai civilisti ed ai civilprocessualisti la valutazione sulle ADR nei loro settori, nel diritto amministrativo l’obbiettivo della “degiurisdizionalizzazione” potrà riguardare solo problematiche ben definite, senza assumere valenza generale; presuppone la previa realizzazione di altri strumenti di tutela non giurisdizionale, del tipo dei britannici Administrative Tribunals; soprattutto implica una pubblica amministrazione efficiente, esperta, di qualità.

6.2.           La “degiurisdizionalizzazione” nel contenzioso con la pubblica amministrazione potrà meglio porsi con strumenti diversi dalle ADR civili; principalmente con nuove forme di tutela amministrativa; certo diverse dai tradizionali ricorsi amministrativi, che non hanno dato buona prova. Questa via è indicata anche dall’Unione europea, che in nuovi campi di intervento – esemplare il caso della recente unione bancaria – ha previsto vari rimedi amministrativi, peraltro non veramente “alternativi” all’eventuale garanzia giurisdizionale, ma strumenti di prevenzione tramite decisioni “tecniche” affidate ad organismi altamente qualificati, senza una predominanza di membri giuristi.

La proposta di “riscoprire” la tutela amministrativa non è certo originale, ma sembra indubbiamente tuttora valida ancorché le molte idee non si siano per il momento coagulate su posizioni condivise e, soprattutto, praticabili. Inoltre trova nuovo supporto nell’esperienza dell’Unione europea, ove, oltre al caso appena richiamato dell’unione bancaria, stanno emergendo vari procedimenti amministrativi giustiziali (come dimostrato da una recente ricerca pubblicata nella Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico).

A mio parere, pur condividendo l’obbiettivo, non ritengo che in Italia vi siano per il momento le condizioni per un sistema funzionante di “nuovi” ricorsi amministrativi; principalmente per lo stato carente della pubblica amministrazione (si ritorna qua ad una delle considerazioni iniziali sul rapporto tra giustizia amministrativa e nell’amministrazione e carattere della pubblica amministrazione). Nell’attesa, auspicata, che le riforme amministrative diano esiti significativi, occorre massimizzare le garanzie nel procedimento amministrativo, valorizzando le già ampie opportunità offerta dalla presente disciplina e utilizzando quanto si intravede dall’attuazione della legge n. 124/2015 con i molti decreti legislativi prossimi a definirsi.

Occorre comunque tenere presente che le politiche deflattive del contenzioso giurisdizionale non devono portare a marginalizzarlo. Lo vieta, tra l’altro, l’art. 19 del Trattato Unione europea, che sancisce che la tutela giurisdizionale è indefettibile (“gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva”). Il principio vale ovviamente solo per i settori disciplinati dal diritto UE; ma indica una direzione di fondo di sicuro rilievo anche per le materie non ancora “comunitarizzate”.

6.3.           Una seconda politica deflattiva del contenzioso è consistita nell’aumento dei costi di accesso alla giustizia; dapprima per il contenzioso civile. L’innovazione ha poi coinvolto la giustizia amministrativa, facendo qua particolare danno. Infatti, i rilevanti aumenti generali sono stati ulteriormente maggiorati per il contenzioso economico – come il rito appalti – non solo per deflazionare il contenzioso, ma anche per definire al più presto i rapporti di appalto e concessione. La maggiorazione è però così gravosa da indurre molti potenziali ricorrenti ad abbandonare le proprie opportunità di tutela. L’effetto deflattivo si è dunque verificato al più presto, ma occorre chiedersi se in questo modo non si sia violato il principio costituzionale (ed europeo) della garanzia di tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi, nonché quello il principio di eguaglianza.

Per tali motivi il TAR ha rimesso alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale chiedendo l’interpretazione del diritto UE degli appalti che sembrerebbe assicurare piena tutela giurisdizionale agli interessati, pur in un equilibrio con l’interesse pubblico ad una rapida definizione dei rapporti, evidente soprattutto nella fase cautelare. La Corte ha risposto in modo alquanto ambiguo: da una parte cercando di non porre troppi vincoli al Governo riformatore, perché ha considerato la questione eminentemente nazionale; dall’altra ha comunque sanzionato un uso eccessivo dei costi di giustizia dopo l’instaurazione dei ricorsi (ad esempio per quanto riguarda i costi per motivi aggiunti), legittimando la disapplicazione della normativa nazionale sul punto (come già anticipato da alcuni illuminati TAR).

6.4.           Una terza riforma della giustizia ordinaria ha riguardato la geografia delle sedi giudiziarie, razionalizzata notevolmente. Lo stesso è avvenuto poco dopo per le sedi dei TAR, però con risultati assai meno eclatanti che per i tribunali ordinari. La ragione sta qua nelle particolarità della geografia dei tribunali amministrativi rispetto a quella dei tribunali ordinari. Questi ultimi sono stati sinora articolati sul territorio secondo antiche tradizioni, molte volte superate dal corso della storia; i TAR nati solo nel 1972, regionali e quindi centralizzati per definizione, eccezionalmente articolati per sedi distaccate (peraltro previste nella stessa Costituzione, art. 125).

Sarebbe stato impossibile per la giustizia amministrativa un ulteriore squeezing delle sedi distaccate, a meno di non violare il criterio della “prossimità” tra il richiedente giustizia ed il giudice, già di regola regionale, e di non intasare fuor di misura le sedi maggiori. Vi è semmai il problema – sempre finora eluso per ragioni di eccessiva deferenza per le autonomie locali – dei due Tribunali amministrativi di Trento e Bolzano, la cui distinzione/articolazione non ha più vera ragion d’essere, bel potendo le specifiche esigenze (a partire dal bilinguismo) essere assicurate anche dal loro accorpamento. In disparte la delicata questione della loro composizione, che non pare rispettosa della Costituzione.

6.5.           Qualche considerazione, infine, sulle riforme della giustizia civile per valorizzare la specializzazione dei giudici e così migliorare la qualità della funzione; ovviamente ancora nella prospettiva della comparazione con la giustizia amministrativa.

Nel giudizio civile stanno dando una buona prova i tribunali delle imprese, composti da magistrati qualificati, selezionati attraverso una procedura che ha ben funzionato, operanti con norme processuali capaci di assicurare tempestività ed efficacia delle decisioni. Ritengo che anche nella giustizia amministrativa si debba procedere verso una maggiore specializzazione dei giudici; ma tenendo presente che già nel Consiglio di Stato ed in parte nei TAR esiste un sistema per competenza funzionale delle sezioni, che assicura buona parte delle esigenze presidiate nel giudizio civile dai tribunali delle imprese. Inoltre, come si dirà tra breve, le norme del processo amministrativo hanno specificità di rilievo per quanto riguarda il contenzioso economico ed altre materie “sensibili”.

6.6.           Il tema della specializzazione si lega strettamente a quello dei tempi della giustizia: il “male” più grave del sistema giustizia in Italia, comune tanto alla giustizia civile quanto a quella amministrativa.

Diceva nell’800 un grande giurista e politico inglese, William E. Gladstone, che “justice delayed is justice denied”. Se questo principio è inconfutabile, il caso italiano è veramente impressionate in senso negativo. Basti considerare che nella giustizia civile vi è un arretrato di oltre quattro milioni cause. In proporzione è lo stesso nella giustizia amministrativa.

Per quest’ultima, con le riforme del 2000-2010 si è cercato di sopperire a queste gravi lacune sulla durata dei processi. In particolare, il “rito appalti” è stato rimodellato in modo così rapido da mettere alla prova le capacità degli avvocati e dei giudici per la gestione delle particolari procedure. Ma l’espansione dei riti speciali anche oltre la materia dei contratti pubblici non ha certo assicurato miglioramenti nel resto del contenzioso, nei giudizi ordinari; così dando vita ad una sorta di doppia corsi fortemente differenziata. Il rischio è di giungere ad una disparità di trattamento processuale, non del tutto giustificata dall’interesse pubblico alla definizione del contenzioso economico.

6.7.           Altre innovazioni processuali più specifiche, e forse più incisive, potrebbero tentarsi al di fuori del terreno scivoloso dei riti speciali. Ad esempio, come vado sostenendo da tempo – finora senza esito – l’introduzione di un giudizio preliminare di ammissibilità/procedibilità e sulla configurabilità del fumus dei ricorsi giurisdizionali amministrativi, anche da parte di un giudice monocratico; ovviamente con idonee garanzie. Un istituto simile a quello inglese del leave che così buona prova ha dato da tempo.

La questione dell’arretrato non è comunque solo un problema di norme processuali, più o meno adeguate, ma anche di capacità di amministrare giustizia secondo elementari criteri di economicità, efficienza ed efficacia. A nessuno può infatti sfuggire come, a parità di condizioni, certi tribunali assicurino performance di qualità, ben sopra la media. Occorre dunque che le posizioni dirigenziali della giustizia siano attribuite ai più meritevoli, non solo in diritto ma anche nell’organizzazione dei propri uffici. 

7.                 Per concludere, va riconosciuto a merito degli ultimi Governi di aver riattivato incisive riforme della giustizia ordinaria; mentre quella amministrativa era stata già rivista in profondità dal 2000. Molto resta da fare, ma la strada imboccata e, nel complesso, quella corretta e risulta irreversibile.

Attenzione però a non utilizzare le riforme della giustizia civile come un parametro necessario per le corrispondenti iniziative per la giustizia amministrativa; come il caso delle ADR ben dimostra. La scelta costituzionale per confermare il doppio sistema della giurisdizione è stata confermata positiva dall’esperienza dei sei decenni successivi. In particolare, il diritto amministrativo è risultato appropriato per controllare il potere pubblico e per assicurare pienezza di tutela ai diritti ed agli interessi dei singoli; anche nel nuovo scenario del diritto europeo.

            Rimangono sullo sfondo alcune questioni di fondo, la cui soluzione non sembra prossima; anche perché in certi casi di rilevanza costituzionale. Due in particolare vanno richiamate ai fini della presente trattazione: il fondamento de riparto di giurisdizione ed ruolo della Cassazione quale giudice della giurisdizione; la funzione di nomofilachia e la prevedibilità delle decisioni giurisdizionali. Nell’area mondiale del diritto, e davanti ai fenomeni di “forumshopping”, questi fenomeni assumono carattere sensibile. Come detto, la soluzione non pare imminente; ma non sembra il caso che tali principi siano erosi dal didentro, in particolare ad opera del diritto UE, anziché come doveroso.

Bibliografia selezionata

Il tema dell’efficienza della giustizia amministrativa è trattato in una sterminata messe di studi; lo stesso, ovviamente per il versante della giustizia civile. Si citano dunque i testi direttamente utilizzati per la relazione:

OECD (OCSE), What makes civil justice effective?, 18.6.2013; European Commission, The 2015 EU Justice Scoreboard, COM(2015)116 final; V. Italia, Le specialità nelle leggi, Giuffré, Milano, 2016; Id. , Le “linee guida” nelle leggi, Giuffrè, Mlano, 2016; G. Salvi-R. Finocchi Gheri (a cura di), Amministrazione della giustizia, crescita e competitività del Paese, Astrid, Passigli, Furenze, 2012; A. Pajno,  Giustizia amministrativa e crisi economica, in Riv. it. Diri. Pubbl. com., 2013, 951; Id, Nomofilachia e giustizia amministrativa, ivi, 2014, 345; Id., I ricorsi amministrativi tradizionali: una prospettiva non tradizionale, ivi, 2015, 747; M. P. Chiti, Evoluzioni dell’economia e riassetto delle giurisdizioni, ivi, 2015, 713; Id., Il Consiglio di Stato e la giustizia amministrativa nella considerazione degli “altri”, in Il Consiglio di Stato, 180 anni di storia, Zanichelli, Bologna, 2011, 661; G.P. Cirillo, La frammentazione della funzione nomofilattica tra le corti supreme nazionali e le corti comunitarie, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2014, 23; L. De Lucia, I ricorsi amministrativi nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2013, 323; M. Ramajoli, Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie pubblicistiche, in Dir. Amm., 2014, 1; Diritto amministrativo ed economia, Atti del 60° Convegno di Studi Amministrativi, ES, Napoli, 2015; G.D. Comporti, Dalla giustizia amministrativa come servizio, Studio per il Convegno “A 150 anni dall’Unificazione amministrativa, in corso di stampa.

Mario P. Chiti - La legittimazione per risultati dell’Unione europea quale “comunità di diritto amministrativo”

Sommario: 1. Introduzione. 2. La rilevanza dei valori dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali per la legittimazione dell’Unione europea. 3. La legittimità democratica dell’Unione e i suoi limiti. 4. Lo stato del diritto dell’Unione in tema di democrazia e valori democratici. 5. La tesi delle due forme complementari di legittimazione dell’Unione. 6. La legittimazione per risultati. 7. Il contributo della Corte di giustizia. 8. Le basi costituzionali dell’amministrazione europea. 9. La legittimazione per risultati variante della legittimazione attraverso il diritto.

1.                 La legittimazione della Comunità europea (CE) e, poi, dell’Unione europea (UE) è stata assai discussa sino dai primordi dell’integrazione europea negli anni cinquanta dello scorso secolo, ma con risultati non definitivi né soddisfacenti. Il dibattito si riaccende ad ogni evoluzione dell’UE, come a seguito del recente riassetto della governance europea causato dalla crisi economica e finanziaria. La questione assume oggi ancora più pregnanza a fronte della presente disaffezione di una rilevante parte della società europea per il processo di integrazione.

Per quanto le posizioni del dibattito siano assai variegate, è largamente condivisa la conclusione sul “deficit democratico” dell’UE; divenuta motivo costante, sistematicamente ribadito pur a fronte di rilevanti modifiche del sistema dell’Unione.

La tesi qua proposta è che occorre integrare la tradizionale visione della legittimazione dell’UE, quale legittimazione democratica da partecipazione e rappresentanza, con la diversa forma di legittimazione detta da output/risultati. Si tratta di un’interpretazione presente sin dall’istituzione della CECA, ma che ha assunto di recente una precisa valenza giuridica in virtù dello sviluppo dei Trattati, del diritto derivato e della recente giurisprudenza della Corte di giustizia.

A differenza di alcune posizioni che, estremizzando, focalizzano su questa particolare legittimazione il sistema dell’Unione, la tesi qua esposta considera carattere tipizzante dell’Unione la compresenza delle due forme di legittimazione, democratica e da partecipazione; l’una strettamente imbricata con l’altra.

Ne consegue una visione assai meno critica di quella dominante, incentrata sul deficit di legittimazione democratica. Tuttavia, l’Unione rimane assai carente sui entrambi i versanti considerati, sì da richiedere sostanziosi interventi; ben possibili anche in vigenza degli attuali trattati. La proposta è per un appropriato sviluppo qualitativo dell’amministrazione diretta dell’Unione e delle amministrazioni degli Stati  nell’Unione operanti in senso comunitario; strumento essenziale per il conseguimento di effettivi risultati pubblici.

Lo studio è articolato in quattro parti. La prima esamina l’approccio originario alla questione, incentrato sullo sviluppo nella CE/UE dei principi dello Stato di diritto e di democrazia. La seconda presenta la tesi della compresenza delle due forme di legittimazione. La terza approfondisce il tema della legittimazione da risultati, con riferimenti alla recente normativa ed alla giurisprudenza. La quarta esamina la vivace discussione sulle proposte di legittimazione per risultati. La parte conclusiva, infine, si incentra sul ruolo del diritto amministrativo nel processo di rifondazione dell’Unione.

2.                 La questione della legittimazione del sistema europeo è stata inizialmente incentrata sul ruolo del valori dello Stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani. Il percorso, rapido ed incisivo, è sfociato nella conclusione che la CE costituisce una “comunità di diritto” – secondo la nota definizione della Corte di giustizia nella sentenza Parti Ecologiste Les Verts, 23.4.1986,C-294/83. Precisamente: “una comunità di diritto nel senso che né gli Stati che ne fanno parte né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato” (punto 23 della sentenza ora citata). Affermazione poi costantemente ribadita, come nell’importante caso Kadi (Commissione e altri/Kadi, C-584/10; C-593/10[1]) e nei successivi casi Inuit, C-583/11[2] e Telefonica, C- 274/12[3].

La qualificazione della CE/UE quale “comunità di diritto” ha costituito uno dei maggiori progressi nella giurisprudenza della Corte di giustizia per la “costituzionalizzazione” della CCE/CE dopo la sua istituzione quale atipica organizzazione internazionale. Inoltre, come emerge chiaramente dalla sua giurisprudenza, la Corte di giustizia non ha fatto riferimento allo Stato di diritto in quanto “mero requisito formale e procedurale, bensì quale valore sostanziale; specificando che lo Stato di diritto implica che le istituzioni UE sono soggette al controllo giurisdizionale della conformità dei loro atti non solo rispetto ai Trattati, ma anche rispetto ai principi generali del diritto, di cui fanno parte tra l’altro i diritti fondamentali”[4].

            Nel diritto primario della CE, il riferimento allo Stato di diritto ed alla tutela dei diritti fondamentali compare per la prima volta nelle Disposizioni comuni del Preambolo al Trattato di Maastricht del 1992, con un riferimento ambiguo al valore della democrazia[5], che ben dopo era emerso nel contesto della CE. Con lievi variazioni lessicali il riferimento permane nel successivo Trattato di Amsterdam e nel vigente Trattato di Lisbona (art. 2 TUE), così confermando che lo Stato di diritto è “un denominatore comune del moderno patrimonio costituzionale europeo” (così l’Allegato 1 della comunicazione della Commissione al Parlamento europeo dell’11.3.2014).

I principi dello Stato di diritto che hanno particolare rilevanza ai presenti fini sono il principio di legalità; il principio di certezza di diritto; il principio di eguaglianza di fronte alla legge; il principio del divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; il principio del controllo giurisdizionale indipendente ed effettivo. E’ evidente che il loro rispetto sostanziale vale di per sé a ridimensionare buona parte delle critiche sulla pretesa carenza di legittimazione della CE/UE. Tanto più che, ben prima che nel diritto dei Trattati, i diritti fondamentali erano stati individuati dalla Corte di giustizia come parte integrante dei “principi generali di cui la Corte garantisce l’osservanza” (Stauder, 12.11.1969, C-29/69). La salvaguardia di questi diritti, “pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, va garantita entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità” (Internationale Handelsgesellschaft, 17.12.1970, C-11/70).

3.                 Successivamente al riconoscimento dei valori dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali[6], è emersa la questione della legittimità democratica (anche semplicemente la “questione democratica”) della CE/UE come sviluppo inevitabile della visione sistemica della Comunità quale “ordinamento giuridico di nuovo genere a favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato, anche se in settori delimitati, ai loro poteri sovrani; ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini” (così la celebre sentenza Van Gend & Loos, 5.2.1963, C-26/62).

I valori ed i principi dello Stato di diritto (ovviamente anche nelle varianti Rule of Law e Rechtsstaat) e della democrazia sono connessi; ma non equipollenti. In ogni caso è necessaria la sinergia tra i due valori, che si completano l’un l’altro. Come affermato giustamente dalla Commissione, “non può esistere democrazia e rispetto dei diritti fondamentali senza rispetto delle Stato di diritto e viceversa. (…) Lo Stato di diritto è la spina dorsale di ogni democrazia costituzionale moderna” (così la già citata Comunicazione al Parlamento europeo del 11.3.2014[7]).

Un percorso simile è avvenuto anche nel Consiglio d’Europa, organizzazione distinta dall’UE ma operante “al suo fianco”, la cui attività si incentra su tre pilastri: i valori dello Stato di diritto, la tutela dei diritti fondamentali e la democrazia (cfr. il Preambolo della CEDU e l’art. 3 dello Statuto del Consiglio d’Europa[8]). Le iniziative del Consiglio d’Europa hanno influenzato anche ordinamenti di Stati non membri dell’UE (o non ancora membri), come alcuni Paesi ex socialisti e la Turchia, confermando che le organizzazioni internazionali possono avere un ruolo pro-attivo nel diffondere e sostenere i valori della democrazia. Di particolare rilievo nell’ambito del Consiglio d’Europa, il contributo della Commissione di Venezia[9] per arricchire la CEDU con la definizione dello Stato di diritto, “componente intrinseca di ogni società democratica”.

La correlazione, ma al contempo la non sovrapposizione, tra democrazia e Stato di diritto è ribadita dalla scienza giuridica[10]. Per tutti, il giudice britannico Tom Bingham che tratta del rapporto tra i due principi ed il tema dei diritti umani e richiama le posizioni della Commissione UE sulla “inseparabile connessione” tra democrazia, Rule of Law e rispetto dei diritti umani[11].

            Sono chiare le ragioni principali della questione democratica: l’ampliamento delle competenze CE/UE; l’accentuazione della “sovranazionalità” della CE/UE; l’incidenza diretta dell’azione CE/UE anche sui singoli; il ruolo dell’individuo al centro dell’ordinamento UE. Quest’ultima ragione è la principale, secondo un percorso giurisprudenziale segnato dal principio del diretto effetto per i diritti dei singoli[12], e dal riconoscimento dei diritti fondamentali; poi confermato nei Trattati e rafforzato con le previsioni sulla cittadinanza europea e con la Carta dei diritti.

            La discussione sulla questione democratica si è accentuata dopo il Trattato di Lisbona, che pure rafforza il ruolo del Parlamento europeo (PE), dei parlamenti nazionali in funzione europea, della partecipazione e tutela dei singoli. La circostanza può apparire contraddittoria, ma in realtà è pienamente giustificata dal fallimento della “Costituzione europea” del 2004, ove il tema trovava un inquadramento sistematico; da ulteriori cessioni di sovranità e da un modello istituzionale ben lontano da qualsiasi forma di controllo diretto, se si esclude il Parlamento europeo.

            Effettivamente, il Trattato di Lisbona non risolve in modo compiuto le questioni sottese all’art. 2 TUE[13] e in varie parti del TFUE (l’UE come ordinamento basato sui valori ivi indicati, e che realizza i suoi fini principali attraverso il “federalismo di esecuzione”). Ha destato grandi aspettative, ma i risultati sono stati limitati.

            Da qui il lamento diffuso, divenuto vulgata, sul “deficit democratico” dell’UE. Come sostenuto da uno dei più noti giuristi[14], non c’è nessun atto civico del cittadino europeo con cui questo possa influenzare direttamente l’esito di qualsiasi scelta politica dell’Unione. Nella pratica effettiva dell’Unione non si realizzano i due principi fondamentali della democrazia: il principio di responsabilità (accountability) e di rappresentanza. Diffusa è inoltre la tesi che l’indirizzo politico dell’UE non è dato da organi democraticamente eletti e responsabili direttamente davanti al corpo elettorale, elemento essenziale della democrazia.

            Le interpretazioni ora richiamate manifestano rilevanti limiti. Ci si riferisce di regola ad una nozione generale di democrazia quale valore fermo ed assoluto, ed alla democrazia nel quadro della tradizionale forma Stato. Non si considerano a sufficienza le peculiarità dell’UE come originale, inedita forma di pubblico potere sovranazionale. Tra l’altro, rimane senza adeguata spiegazione il ruolo del Consiglio europeo e della sua intrinseca rappresentatività delle constituencies nazionali di cui è espressione.

            Ma preme qua richiamare che la democrazia non è una “invariante”, bensì una variabile dei diversi contesti ordinamentali e delle varie società, culture (le “diversità culturali”), economie. Il punto è correttamente posto in varie posizioni recenti posizioni recenti, come la risoluzione dell’ONU del risoluzione 24.10.2005[15]; la sentenza del  BVG, 30.6.2009[16] (caso “Lisbona”); e vari autori[17]. Emerge così una giusta insoddisfazione per definizioni unidimensionali di democrazia, che in verità va coniugata con la diversità dei livelli, delle culture, dei contesti istituzionali.

            A fronte della poliedrica nozione di democrazia, esiste comunque un nucleo indefettibile di principi che la connotano, quali l’autodeterminazione politica; il pluralismo; il governo rappresentativo; taluni elementi di democrazia diretta; la separazione dei poteri; la tutela dei diritti. Si può dire con fondatezza che nell’UE questi principi non sono assicurati, così da suffragare la tesi del deficit di legittimazione? Nei paragrafi seguenti si vedrà che la corretta risposta è largamente negativa.

            Se è vero che la democrazia non è valore assoluto, ma che si articola variamente nei vari tipi di ordinamenti, a sua volta connotandoli (variante di essi ed al contempo loro primaria “forma”), rileva la questione della natura giuridica dell’UE. Cui però è impossibile, allo stato, dare una compiuta risposta; anche le più raffinate interpretazioni sono segnate da vaghezze, oppure hanno carattere descrittivo. Pure le tesi dell’UE quale “compendio costituzionale di Stati e unione di cittadini/Staatenund Buergerverbund[18].

E’ certo comunque che se l’UE non è uno Stato, in nessun senso giuridico preciso, la sua legittimazione deve essere fondata in modo autonomo rispetto alla normale legittimazione degli Stati membri. In particolare, tenendo conto del tipico carattere dell’UE quale ordinamento “sovranazionale”, che si distingue tanto dal modello ordinamentale degli Stati quanto da quello delle organizzazioni internazionali. A sua volta, la “sovranazionalità” dell’UE è unica nel contesto internazionale; senza paragoni con altre forme di organizzazione regionale (Mercosur, Nafta ecc.), ma neanche con le più recenti organizzazioni internazionali (come il WTO) che pure hanno assunto alcuni tratti di sovranazionalità.

Non sono qua esaminate, per la necessità di concentrare l’attenzione sull’UE, due importanti questioni attualmente assai dibattute: la possibile presenza di caratteri democratici nell’ordinamento internazionale e il ruolo delle organizzazioni internazionalie della stessa UE[19] per diffondere e sostenere i valori democratici.

Basti in questa occasione ricordare che nella lettura più convincente[20] non ha senso parlare di democrazia nel diritto internazionale, in quanto i suoi soggetti (gli Stati e le organizzazioni internazionali) non governano direttamente i singoli. Tuttavia, a fronte di organizzazioni internazionali di nuovo tipo (l’esempio maggiore è la WTO), con taluni poteri pubblicistici che possono incidere direttamente sui soggetti nazionali (quindi con caratteri sovranazionali), inizia a diffondersi la tesi che “a democratization of the governance beyond the State, in particular in the sense of a better political inclusion of citizens in the exercise of public authority by international institutions, can well be theoretically concieved and practically realized[21].

Allo stesso tempo, di fronte alle innovazioni delle organizzazioni internazionali si discute sempre più spesso del loro ruolo per la “promozione della democrazia”. Nelle parole di Sabino Cassese, “the role of global institutions as sponsors of democratic processes and institutions vis-à-vis national communities[22].

Ora, se è vero che la democrazia non è solo una questione domestica, degli Stati, rimane impervia la questione della possibilità e dei limiti per il diritto internazionale di imporre agli Stati il rispetto di standard di democraticità; specialmente nella dichiarata situazione di carenza di una nozione generale e condivisa di democrazia (merita ricordare ancora la posizione dell’ONU[23]). Una “interferenza democratica” pur generosa si può tramutare facilmente in una sopraffazione di vecchio stampo, imperialistica o neocoloniale.

4.                 Nel diritto UE in tema di democrazia e valori democratici balza agli occhi il limitato apporto iniziale della giurisprudenza della Corte di giustizia, a differenza che sui temi dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali. La prima sentenza che si riferisce ai valori democratici è Roquette Frères, 29.10.1980, C-138/89; seguita da altre poche, come Commissione e Parlamento europeo/Consiglio 11.6.1991, C-300/89.

Le ragioni della reticenza della Corte stanno nella volontà di non interferire in una questione controversa, lasciata primariamente alle istituzioni europee “politiche” ed agli Stati membri. Anche abbastanza di recente la Corte non è voluta entrare nelle questioni definitorie, lasciando spazio agli Stati membri[24].

Più “coraggiosa” è l’ultima giurisprudenza, come la sentenza Commissione/Germania, 9.3.2010, C-518/07 (sul tema delle autorità nazionali per il trattamento dati personali) che tratta dei rapporti tra principio democratico e necessità di organismi amministrativi indipendenti. Rinviando ai paragrafi successivi l’esame dell’ardita tesi della Corte sulle “nuove” amministrazioni, va richiamato che la Corte precisa (punto 41) che “il principio di democrazia appartiene all’ordinamento giuridico comunitario ed è stato sancito espressamente dall’art. 6.1. come uno dei fondamenti dell’UE. In quanto principio comune agli Stati membri, esso deve essere considerato nell’interpretazione di un atto derivato quale l’art. 28 della direttiva 95/46”.

Contrariamente ad altre tematiche, come quella già esaminata dei diritti fondamentali, il diritto “costituzionale” dei Trattati ha anticipato la giurisprudenza. Per la fase iniziale vale ricordare la Dichiarazione di Copenhagen dell’8.4.1978, sul necessario carattere democratico dello Stato che intende divenire membro della CE; poi “consolidata” nel Trattato di Maastricht del 1992 (cfr. il Preambolo, quinta frase; art. F, per gli Stati membri). Nel successivo Trattato di Amsterdam del 1997 la democrazia è considerata come principio fondante dell’UE (art. 6)[25]. Infine, il Trattato di Lisbona ribadisce (art. 2) che la democrazia è tra i valori su cui si fonda l’Unione. Gli articoli, 9-12, del Titolo II, “Disposizioni relative ai principi democratici”) prevedono poi una sistematica disciplina di questi principi, che merita richiamare nei tratti maggiori.

Centrale ai quattro articoli del Titolo II del TUE è il concetto di cittadinanza europea, di matrice repubblicana, modulato sia al livello europeo che a quello nazionale degli Stati membri. Lasciando da parte – perché sostanzialmente inutile – l’infinita diatriba sul demos europeo o sui demoi europei, emerge sostanzialmente un modello di democrazia rappresentativa parlamentare, corretto da varie occasioni di partecipazione e di democrazia diretta. Le istituzioni rappresentative degli Stati membri e i partiti politici (art. 10.4) mantengono un ruolo principale, in collegamento con le istituzioni dell’UE ed in particolare con il Parlamento europeo. Rilevante anche l’art. 11 che obbliga le istituzioni a mantenere un dialogo aperto, trasparente e regolare con i cittadini, le associazioni rappresentative, la società civile al fine di assicurare un’ampia partecipazione. 

L’innovazione istituzionale più interessante è la cooperazione interparlamentare prevista all’art. 12 (“i parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione”[26]), espressiva allo stesso tempo del “dualismo democratico” parlamenti nazionali/Parlamento europeo e dell’integrazione basata sul valore generale della democrazia rappresentativa (art. 10.1: “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”).

La peculiarità del sistema europeo, come disciplinato nel TUE, è che il concetto di “popolo” rimane prerogativa degli Stati membri (art. 1.2, “i popoli”)[27], mentre è centrale nell’Unione il concetto di cittadinanza (art. 9 TUE e Carta dei diritti fondamentali, Titolo V, artt. 39-46). Più in dettaglio, i principali punti di riferimento sono:la cittadinanza europea; l’organizzazione costituzionale dell’UE; la doppia legittimazione democratica (dell’insieme dei cittadini europei e dei popoli degli Stati membri attraverso le loro istituzioni). Una originale democrazia “multilivello”[28] che però non supera né ridimensiona il circuito di legittimazione che passa per i parlamenti nazionali[29].

Da non sottovalutare anche la previsione – l’art. 7 TUE[30] – che consente all’UE di intervenire attivamente per “proteggere” lo Stato di diritto e la democrazia da minacce di carattere sistemico[31] negli Stati membri[32]; distinguendosi anche qua l’UE dalle organizzazioni internazionali in cui, come sopra indicato, questo potere di “vigilanza democratica” è limitato o impossibile. Se i casi di questo genere sono stati sinora fortunatamente eccezionali[33], più incisivo è il caso delle interferenze economiche (ma con fortissime implicazioni istituzionali) successivamente alla crisi del 2008 per i casi di “crisi sistemica” (emblematico il caso della Grecia). Ma si tratta di questioni diverse, per finalità e base giuridica.

Nel complesso, il Trattato di Lisbona determina un avanzamento cospicuo degli strumenti per rendere    effettivi i principi democratici. Tuttavia, è palese che la sistemazione dei “principi democratici” nel TUE non è risolta in modo compiuto. Mancano riferimenti a nuovi istituti, nozioni e procedure, come la rappresentanza degli interessi e la democrazia “deliberativa”, che avrebbero arricchito la tradizionale impostazione.

E’ un limite? E’ un fatto accidentale, o tipico di un progresso cauto, per tappe progressive? Oppure ancora una consapevole scelta per un modello originale dilegittimazione democratica dell’UE in cui alla tradizionale legittimazione democratica (governo del/dal popolo) – confermata anche nel sistema dell’UE – si affianca una nuova “legittimazione per risultati”?

Prima di rispondere a questi quesiti, merita tirare alcune conclusioni dalla parte introduttiva. Malgrado l’amplissimo dibattito sulla democrazia nell’UE e sulla sua legittimazione democratica, la questione non sembra ancora adeguatamente definita in termini scientifici, di diritto e di scienza politica. La questione appare irrisolta anche nella percezione comune della società, aggravando gli attuali problemi dell’UE. Stante che attualmente pare irrealizzabile ogni ulteriore significativa modifica dei Trattati, occorre lavorare sul vigente diritto “costituzionale”, traendone il massimo (che non è poco, se ben si lavora). Nel dibattito generale vanno introdotti elementi nuovi per la legittimazione dell’azione dell’UE; che, se intesi adeguatamente, possono essere il suo proprium specifico rispetto ad altre esperienze. La questione è urgente, dato che incombono le questioni sollevate dal Governo Britannico per ovviare al prossimo referendum (libera circolazione dei lavoratori; parità di trattamento dei cittadini europei; generalizzazione dell’opting out; diritto di veto dei parlamenti nazionali; ecc.); ricompaiono i confini; la libertà di movimento è in via di riduzione.

5.                 La tesi qua proposta considera l’UE quale particolare organizzazione politica basata su due forme, complementari e sinergiche, di legittimazione: quella tradizionale, democratica, basata sull’originale idea di rappresentanza a due livelli, europei e nazionali, che si connettono attraverso l’architrave della cittadinanza europea; l’altra basata sull’effettività (utilità/satisfattività) delle decisioni assunte e realizzate; ovvero, dai risultati positivi dei processi decisionali. Le due forme di legittimazione trovano puntuale rispondenza nel diritto UE, anche primario; pure la “legittimazione per risultati”, in particolare (ma non solo) nelle previsioni relative alla Banca centrale europea, alle nuove Autorità regolatorie ed alle Amministrazioni indipendenti.

            Sulla prima forma di legittimazione (detta anche “legittimazione da input”) esiste una cospicua letteratura e sono proposte ulteriori iniziative per valorizzare la “filiera” democratica nel continuo nazional-europeo, con o senza ulteriori riforme dei Trattati.

            Non merita dedicare particolare attenzione a questa tematica, perché già assai sviluppata. Vanno ricordate solo alcune delle maggiori proposte, valide e fattibili: a) il miglioramento delle regole decisionali delle istituzioni; b) la “politicizzazione” dei vertici istituzionali secondo il modello degli Spitzkandidaten; c) il definitivo superamento del ruolo del Parlamento europeo come “completamento” della legittimazione data dai parlamenti nazionali; d) l’istituzione di un organismo consultivo interparlamentare e/o di una rete pro-attiva dei parlamenti nazionali connessa al Parlamento europeo; e) come approfondimento del punto che precede, le proposte per un processo decisionale composito definito quale “integrative law making[34]”, rilevante strumento di integrazione; f) la razionalizzazione del sistema elettorale del Parlamento europeo per favorire una vera competizione politica complessiva nell’UE[35]; g) le proposte per una “democrazia deliberativa” – amministrativa, più che politica di tipo tradizionale – basata su una partecipazione informata e consapevole.

            E’ opportuno invece concentrare l’attenzione sul secondo tema, anche se, a sua volta, non originale, visto che è da tempo familiare agli scienziati sociali, soprattutto di scienza politica. Si tratta della “legittimazione per risultati”, data dall’effettività delle realizzazioni, delle decisioni; richiamata anche come “legittimazione per gli output” (output legitimation)[36]. Vi sono infatti rilevanti novità giuridiche che danno una nuova luce a queste problematiche.

            Si tratta di una legittimazione funzionale, che si ha quando le decisioni (rectius, le decisioni ed i risultati) sono accettate come legittime perché producono risultati effettivi; rappresentano una risposta concreta e positiva ai bisogni di una comunità; esprimono razionalità ed efficienza dell’azione pubblica; sono orientate verso interessi comuni.

            Va subito detto che questa forma di legittimazione trova forti critiche: si dice che rappresenta la vittoria del pragmatismo sull’ideologia, l’ascesa della tecnocrazia e della competenza tecnica come supremi caratteri di legittimazione; rispetto ai “processi caotici della democrazia”[37] rappresenta una sommaria scorciatoia rispetto alla complessità del presente.

Per quanto assai acute, tali critiche non paiono smentire la rilevanza di questa forma di legittimazione; come meglio si dirà tra breve.

            6. La tesi della legittimazione per risultati, o funzionale, non è certo una novità delle recenti fase dell’integrazione europea. Anzi, è stata una connotazione di questo processo sin dal Trattato CECA del 1951, secondo la formula (solo meno raffinata nell’espressione) della “solidarietà di fatto” richiamata nei paragrafi 3° e 5° del Preambolo: “fondare, con l’instaurazione di una comunità economica, le prime assise di una comunità più vasta e più profonda tra popoli per lungo tempo avversi per divisioni sanguinose, e a porre i fondamenti di istituzioni capaci di indirizzare un destino ormai condiviso”.

            Per quanto un po’ oscurato nella fase di “costituzionalizzazione” della CE, opera principalmente dalla Corte di giustizia, l’elemento funzionale, dell’esperienza tecnica, è rimasto ben vivo; basti pensare ai comitati, al ruolo dei consulenti tecnici, ai rappresentanti del mondo dell’economia e del lavoro (oltre al Comitato economico sociale) e, soprattutto, alle agenzie europee.

            Questa forma di legittimazione è tornata più rilevante che in passato per l’espandersi delle competenze dell’UE in materie ad alto tasso tecnico (ambiente, energia, sanità pubblica, reti trans-europee). Inoltre, nei Trattati e nel diritto derivato è stata definita la speciale posizione della BCE e della “nuova” politica economica e monetaria. Le vicende successive al 2008 hanno portato all’istituzione di nuovi organismi, come le tre Autorità regolatore istituite del 2010 (solo in apparenza simili alle precedenti agenzie europee) ed alla creazione di un vero e proprio ordinamento giuridico di settore, denominato “unione bancaria”, con originali organismi come il Single Resolution Board, proprie procedure (vigilanza e risoluzione) e strumenti di tutela amministrativa.

            Per la BCE il TFUE assicura un’indipendenza completa, come scudo contro le interferenze nazionali e politiche; anche nell’ambito dell’Unione (l’indipendenza della BCE va in effetti oltre quella garantita ad altre istituzioni) come indipendenza istituzionale, funzionale, finanziaria. L’indipendenza è considerata necessaria per assicurare che la BCE possa perseguire i suoi obbiettivi; anzitutto, ma non solo, la stabilità dei prezzi nell’interesse dei cittadini dell’Eurozona. Il punto è confermato dalle recenti sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale, come Gauweiler (o OMT), 16.6.2015, C-362/14[38] e Accorinti II, 7.10.2015, T-79/13[39].

            Il dato ora richiamato è inconfutabile e non appare meramente evenemenziale, rappresenta anzi uno sviluppo destinato a durare e con un sistema di governance complessiva assai diverso. La finalità caratterizzante sta nel garantire le condizioni per risultati effettivi e condivisi.

           7. Come anticipato, la Corte di giustizia ha confermato questi sviluppi, con approfondite motivazioni; a differenza che sulle questioni poste dalla tradizionale impostazione della legittimità democratica (input legitimation), su cui, come detto, era risultata alquanto reticente. I due casi maggiori sono ESMA (European Securities and Markets Authority), 22.1.2014, C-270/12 e Gauweiler/OMT, cit. La Corte ha superato in modo “dolce” un pilastro della sua giurisprudenza (la “dottrina Meroni” sull’equilibrio istituzionale, basata sulla risalente sentenza del 13.6.1958, caso 9/56[40]); ha dato enfasi all’esperienza, al tecnicismo ed alla qualità amministrativa di alcuni organismi specializzati con l’importante sentenza 6.10.2015, C-362/14 (ivi un riepilogo dell’intera questione); ha riconosciuto (caso Gauweiler/OMT) la possibilità di deroghe alle regole ordinarie per ragioni “tecniche”.

            La giurisprudenza Meroni del 1958 era stata così rigidamente seguita per decenni da divenire “dottrina”. Prevedeva che non fosse conforme al sistema istituzionale comunitario una delegazione di poteri che implicasse un potere discrezionale con ampi margini; mentre potevano delegarsi poteri amministrativi di esecuzione con modesti o nulli margini di discrezionalità.

            Nel caso ESMA la Corte ha rilevato alcune circostanze (in parte già presenti in casi precedenti, dove però non erano state considerate idonee a superare la “dottrina Meroni”), quali: a) l’attribuzione di poteri con un regolamento europeo (non con atti di diritto privato come per Meroni); b) l’attribuzione di poteri puntuali, circoscritti da varie condizioni; senza dunque che si configuri “un ampio margine di discrezionalità” e comunque poteri che non vanno oltre al quadro normativo fissato dal regolamento istitutivo; c) la particolare qualificazione tecnica di ESMA, con “il suo alto grado di esperienza professionale” (punto 85 della sentenza); d) l’assoggettabilità delle decisioni al controllo giurisdizionale.

            Per la Corte di giustizia tali nuovi caratteri non determinano violazioni dei principi dello Stato di diritto e di democraticità perché tutte le decisioni assunte, anche della BCE, sono soggette a controllo giurisdizionale. Inoltre, non determinano alterazioni indebite al quadro istituzionale dell’UE. Infatti, alla BCE (che mirava, oltre che ad una piena indipendenza dalle altre istituzioni, anche ad un’esenzione dal controllo finanziario dell’OLAF) è stata riconosciuta una posizione di “autonomia funzionale”, sempre all’interno nel quadro istituzionale generale.

La citata sentenza Gauweiler ribadisce quanto già affermato nel caso OLAF (Commissione/BCE, 10.7.2003, C-11/00, al punto 135); ovvero che l’indipendenza della BCE non comporta la conseguenza di separarla interamente dalla Comunità europea e di esentarla da ogni regole del diritto comunitario. In particolare, in conformità al principio di attribuzione dei poteri, la BCE deve agire nei limiti delle competenze previste dal diritto dei Trattati e perciò non può validamente adottare ed eseguire programmi che siano fuori dalle politiche monetarie ad essa conferite; ed è sempre soggetta, come detto, al controllo giurisdizionale della Corte (cfr. punto 41)[41]. Trattasi comunque di una forma di controllo giurisdizionale non pieno, di merito (la c.d. unlimited jurisdiction) prevista all’art. 261 TFUE, ma di “illegalità”, prevista all’art. 263 TFUE, che non si estende alla valutazione completa dei fatti e della loro rilevanza giuridica ed economica, rispettando la discrezionalità tecnica della BCE[42].

            Pur con queste sentenze assai innovative – dall’esito non scontato vista la posizione giuridica e politica di Paesi importanti come la Germania – la Corte di giustizia non si è addentrata oltre sul terreno della legittimazione per risultati. Tuttavia, avendo confermato la legittimità del nuovo modello decisionale, ha aperto la via per riconoscere la particolare legittimazione funzionale dell’UE connessa all’effettività dei risultati. 

             8. La legittimazione per risultati non si limita all’attività di un’istituzione come la BCE o di altri organismi di vertice, come le tre Autorità regolatorie, ma riguarda l’intera attività amministrativa, sia diretta dell’UE sia delle amministrazioni nazionali operanti in funzione comunitaria (organi amministrativi comuni)[43], quando operano “in settori che comportano una perizia professionale e tecnica specifica”[44]. Con il TFUE è stato codificato che la pubblica amministrazione europea, nelle due branche di amministrazione diretta UE e di amministrazioni statali operanti in funzione comunitaria, deve caratterizzarsi per esperienza, qualità, indipendenza (art. 298).

            Gli sviluppi recenti mettono in crisi due modelli di amministrazione a lungo considerati principali: quello dell’esecuzione indiretta tramite le amministrazioni degli Stati membri; e il “federalismo di esecuzione”, quale sistema di articolazione della funzione esecutiva tra più livelli di amministrazione in un’istituzione federale o simile[45]. Il Trattato di Lisbona sviluppa al massimo il modello di “amministrazione comune” (cfr. in specie art. 197 TFUE).

            La giusta lettura di tre previsioni del TFUE (artt. 6, 197, 298) sinora poca considerate: la competenza dell’UE per il sostegno, coordinamento e completamento dell’azione amministrativa degli Stati membri (art. 6, sviluppato all’art. 197); la considerazione che “l’attuazione effettiva” del diritto del diritto dell’UE da parte degli Stati è “questione di interesse comune” (art. 197, c. 1); la qualificazione della pubblica amministrazione dell’UE (per la prima volta considerata) quale “aperta, efficace ed indipendente” (art. 298, c. 1)[46]. Conferma nelle analoghe previsioni della Carta dei diritti fondamentali dell’UE; in particolare per il diritto ad una buona amministrazione (art. 41) ed il diritto di accesso ai documenti (art. 42).

            Su questa base “costituzionale” occorre sviluppare una nuova nozione di buona amministrazione, quale “amministrazione efficace, capace di raggiungere risultati effettivi e positivi”. Fondando un’aspettativa per i singoli da riconoscere come essenziale nel contesto della cittadinanza europea e nazionale; dunque nel contratto sociale fondamentale.

            Già prima del Trattato di Lisbona si è avuta una prima importante giurisprudenza della Corte di giustizia su queste disposizioni; come nel caso già citato C-518/07 (Commissione/Germania) sulla protezione dei dati personali. La direttiva 1995/46 richiedeva agli Stati membri di istituire autorità di monitoraggio dotate di piena (complete) indipendenza. La Germania aveva invece argomentato che vari principi del diritto dell’Unione sono contrari al criterio di una completa indipendenza delle autorità amministrative; in particolare, il principio democratico precluderebbe un’ampia interpretazione di indipendenza. La Corte ha rigettato questo argomento, in quanto “il principio democratico non preclude l’esistenza di autorità pubbliche al di fuori della classica amministrazione gerarchica e più o meno indipendente dal governo, (…) libera da ogni influenza politica” (punto 42)[47].

La stessa conclusione, affinata ulteriormente in riferimento all’indipendenza funzionale (“operational indipendence”), è stata ribadita dalla Corte nelle successive sentenze Commissione/Austria, C-614/10, e Commissione/Ungheria, 8.4.2014, C-288/12, sullo stesso tema della protezione dei dati personali[48]. Anche in Digital Rights Ireland, 6.10.2015, C-362/14 (nota pure come sentenza Schrems), ove la Corte ha sottolineato (punto 41, sulla scia della precedente decisione nel caso C-288/12) che la garanzia dell’indipendenza delle autorità nazionali di supervisione è finalizzata ad assicurare effettività e affidabilità al controllo sull’osservanza delle previsioni sulla tutela dei dati personali.

            In sostanza, secondo la Corte, attribuire uno status indipendente a certe amministrazioni – ma in un contesto nel quale non manca una qualche influenza parlamentare – “non è di per sé idoneo a privare dette autorità della loro legittimazione democratica”[49].

            Si tratta di sviluppi ancora su temi particolari, ma comunque con carattere univoco verso la realizzazione dello “Spazio amministrativo europeo”, dopo altri similari sviluppi per sicurezza, giustizia, affari interni. Quindi articolazione dell’UE quale “spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne”.

            A fronte di questi sviluppi è evidente il rischio per ulteriori organismi e relative procedure al di fuori o in potenziale contrasto con l’assetto istituzionale (anche la dottrina Meroni “addolcita”), per i casi in cui la procedura di infrazione da parte della Commissione non riesce a garantire risultati effettivi. E’ il caso della proposta emersa nel dibattito delle Istituzioni UE per costituire un organismo indipendente – denominato “Commissione di Copenhagen” – incaricato di “proteggere la democrazia”, anche attraverso procedure di “early warning mechanism[50]. E’ il caso, ancora di più dubbio, delle proposte della Commissione di Venezia (Consiglio d’Europa) e del Bingham Centre for the Rule of Law[51] per organismi con la stessa finalità di “democracy watchdog”, in parte al di fuori del sistema UE. Del resto è stata sinora assai modesta l’esperienza dell’Agenzia UE per i diritti fondamentali[52], che rispondeva appunto alla medesima esigenze di organismi ad hoc con specifiche competenze di controllo e prevenzione.

            9. La legittimazione per risultati è una variante del genere “legittimazione attraverso il diritto”[53]. In particolare, attraverso il diritto amministrativo; considerando che gran parte dei risultati sono il portato di procedimenti amministrativi svolti da organismi di natura amministrativa.

            E’ noto che la legittimazione attraverso il diritto rappresenta uno degli esiti più tipici dell’età contemporanea, che porta a compensare la crisi della legittimazione politica; per altri a razionalizzarla. La legittimazione per risultati ne è, come detto, una specie.

            Non sono pochi, tuttavia, i rischi del modello di “legittimazione per risultati”. Si è parlato di un passaggio dal deficit democratico al “deficit politico”[54] (R. Dehousse); di una ad-hoc-crazia; dellosbilanciamento verso il tecnicismo/tecnocrazia, volto vero del preteso “government for the people[55]; di diminuzione dell’accountability; di limiti al controllo giurisdizionale; di ipertrofie burocratiche. Da ultimo, si è vivacemente sostenuto che, in un settore fondamentale per la società come le politiche economiche, l’approccio tecnocratico – che sarebbe evidente con l’istituzione della BCE e del sistema europeo delle banche centrali - comporta una palese depoliticizzazione sia a livello europeo che nazionale, con detrimento del tradizionale metodo democratico[56].

            Si tratta di critiche rilevanti, come altrettanto sono quelle per cui la “a-democraticità” della legittimazione per risultati richiama l’idea di spazi in cui la politica è stata “neutralizzata”; la pacifica e positiva “giuridificazione” del mondo[57]; l’effetto stimolante anche per le forme di legittimazione diretta, per consenso; la spiegazione dell’incipiente diritto globale come diritto “che tende a reggersi su sé stesso”.

            Assai forti anche le critiche dal punto di vista dei valori. Si è detto che la legittimazione mediante risultati di successo diventa un surrogato del processo democratico e della legittimazione democratica. Weiler ha scritto che la “politica senza politica” è devastante perché si rivolge al cittadino “ridotto a consumatore di risultati politici, invece che come soggetto che partecipa in modo significativo al processo politico”[58].

            Tuttavia, come già rilevava Carl Schmitt nel saggio “L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” (1929)[59], queste situazioni non eliminano la contrapposizione amico/nemico, tipica del suo pensiero; né la persistenza della questione egemonica. Dunque il modello legittimazione per risultati (che pure negli epigoni estremi ambisce ad una nuova sfera neutrale basata sulla tecnica) non nasconde né elide la complessità del presente, ma arricchisce l’inventario euristico per ordinamenti e società complesse. “La neutralità della tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale”[60].

            Nell’UE, in particolare, la legittimazione per risultati – come detto, carattere qualificante del processo di integrazione europea sin dai primordi della CECA – ha oggi una sua evidenza anche nel diritto costituzionale (TFUE) e nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia sulle amministrazione tecniche e sull’unione economica e monetaria. Non supera certamente il ruolo primario della legittimazione basato sull’idea di rappresentanza e consenso, ma la integra in modo significativo.

           Si spiega così il titolo dello scritto: per la rifondazione dell’UE quale “comunità di diritto amministrativo”.

            L’espressione non è nuova essendo stata utilizzata nella letteratura giuridica da Jurgen Schwarze nel suo seminale libro sul diritto amministrativo europeo[61], sulla scorta di alcune indicazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia. E’ stata ripresa più recentemente, nella scienza politica, da Peter Lindseth[62] che parla della UE come “System of Europeanized administrative governance”,  “fundamentally administrative[63].

             Qua si ripropone su ben altre basi positive e giurisprudenziali portando di nuovo in primo piano la questione amministrativa e del suo diritto al fine di assicurare una forma di legittimazione per risultati, integrativa e complementare della tradizionale legittimazione democratica per consenso.

            La proposta non è il frutto di partigianeria di materia, né di una “ideologia amministrativa”, ma, come detto, è il risultato della verifica del nuovo diritto positivo e della recente giurisprudenza della Corte di giustizia.

            Per concludere, la questione della legittimazione dell’UE può essere ben posta se si assume una nozione relativa, non assoluta, della democrazia e della legittimità democratica; se si considerano le particolari caratteristiche dell’UE quale originale ed unico potere politico sovranazionale; se si colgono i due modelli convergenti di legittimazione, per consenso e per risultati, ovvero la peculiare miscela di fonti e modalità di legittimazione che connota in modo originale l’UE. Così intendendo, non esiste un serio problema di legittimazione democratica dell’UE; semmai un deficit nella comprensione dei suoi caratteri

            Non ci si può tuttavia limitare al modello teorico di interpretazione proposto. I due “pilastri” di legittimazione risultano in concreto assai carenti.

            La legittimazione per consenso è largamente inadeguata: i parlamenti nazionali non assicurano un appagante apporto; il Parlamento europeo è capace solo di imporsi su temi particolari o di operare come freno/controllo, con modesta capacità positiva; la Commissione opera in modo poco trasparente e parcellizzato; il Consiglio è ricaduto nel ruolo di mera camera degli Stati, senza parvenza di sovranazionalità. L’unica istituzione “politica” che sta operando al meglio, oltre ogni aspettativa, è il Consiglio europeo che incarna effettivamente il ruolo di istituzione primaria di “impulso, orientamento e di definizione delle priorità politiche generali” (art. 15, c.1, TUE). Si impone dunque una rivitalizzazione del vigente quadro istituzionale dell’Unione, senza attendere modifiche ai Trattati perché al momento improponibili. 

            A sua volta, la legittimazione per risultati è zavorrata da un’amministrazione europea lontana dalle caratteristiche scolpite nell’ottimo art. 298, perché opaca e relativamente inefficace. Non è alle viste l’iniziativa da parte della Commissione – pur proposta dal Parlamento europeo pressoché all’unanimità – per un regolamento disciplinante il procedimento amministrativo europeo. Il coordinamento amministrativo e le funzioni di supporto da parte dell’UE si sono per ora limitate ad innocui interventi sporadici. Le amministrazioni nazionali operano con efficienze e velocità assai diverse e con standard di qualità altrettanto diversificati. L’attuazione amministrativa effettiva del diritto europeo negli Stati membri è in molti ordinamenti ancora un obbiettivo lontano dall’essere raggiunto. I deficit amministrativi contribuiscono alle situazioni di rischio sistemico per alcuni Stati membri. Nel complesso, lo Spazio amministrativo europeo è un cantiere aperto, ancora largamente da edificare.

[1] Sentenza del 12.9.2006 sui due casi riuniti.

[2] Sentenza del 18.7.2013.

[3] Sentenza del 19.12.2013.

[4]  Corte di giustizia, sentenza Uníon de Pequeños Agricultores, causa C-50/00, punti 38-39.

[5] Come si dirà tra breve, il riferimento alla democrazia nell’art. F, riferito al rispetto dell’identità nazionale dei suoi Stati membri “i cui sistemi di governo si fondano sui principi democratici”.

[6] Giustamente A. von Bogdandy, I principi fondamentali dell’UE, ES, Napoli, 2011, osserva (pag. 116) che “non è il principio democratico, ma lo Stato di diritto che per molti decenni è stato al centro delle riflessioni della scienza giuridica europea” sulla base dell’allora diritto della CE.

[7] “Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto”, COM (2014) 158 final, secondo cui lo Stato di diritto “è uno dei principi fondanti che discendono dalle tradizioni costituzionali comuni di tutti gli Stati membri dell’UE e, in quanto tale, è uno dei valori principali su cui si fonda l’Unione; come richiamato dall’art. 2 TUE nonché dal Preambolo dello stesso Trattato e da quello della Carta dei diritti fondamentali dell’UE” (pag. 2).

[8] Cfr. il Preambolo, alinea 3-4: “la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime effettivamente democratico (…)”.

[9] Il nome ufficiale della Commissione, organo consultivo del Consiglio d’Europa, è “Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto”. Pur a fronte della varietà delle accezioni di “Stato di diritto”/”Rule of Law” e simili, la Commissione ha proposto la sua definizione: “una comune norma europea fondamentale che guida e inquadra l’esercizio dei poteri democratici, e come componente intrinseca di ogni società democratica che impone a tutte la istanze decisionali di trattare ogni persona secondo i principi della dignità, dell’eguaglianza e della razionalità nonché conformemente alla legge, e di dar loro la possibilità di contestare le decisioni davanti a un giudice indipendente ed imparziale” (relazione del 4.4.2011).

[10] Per tutti, T. Bingham,  The Rule of Law, Allen Lane, London, 2010, 67; J. Jowell, The Rule of Law and its Underlying Values, in J. Jowell-D. Oliver (a cura di), The Changing Constitution, OUP, Oxford, 2011, 11 ss.

[11] Anche nella scienza politica è ricorrente questa vicinanza/diversità tra I due concetti: L. Morlino-A. Magen, International Actors, Democratization and the Rule of Law, Anchoring the Democracy?, Routledge, London, 2009.

[12] Rilevano H.-J. Blanke-R.Boettner (The Democratic Deficit in Economic Governance of the EU), in H.J. Blanke e altri, a cura di, Common European Legal Thinking, Eassays in Honour of Albrecht Weber, Springer, Berlin, 2016, 246), anche sulla scorta della prevalente dottrina tedesca, che “a direct effect vis-á-vis the citizens of the Member States, an element of supranationality, needs a legimatory backup at the international level, i.e. at the source of the rulemaking”

[13] L’enorme aperture ai valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani che rappresentano “valori comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

[14] J.H.H. Weiler, Living in a Glass House. Democracy and the Rule of Law, in EUI Working Papers 2014/25, 25,27, sulla scorta anche di V. Bogdanor, Legitimacy, Accountability and Democracy in the EU, A Federal Trust Report, 2007, 8. Per Weiler, “likewise, at the most primitive level of democracy, there is simply no moment in the civic calendar of Europe where the citizen can influence directly the outcome of any policy choice facing the Community and the Union in the way that citizens can when choosing between parties which offer sharply distinct programs at the national level”.

[15] UNO, World Summit Outcome, Risoluzione del 24.10.2005: “We also reaffirm that while democracies share common features, there is no single model of democracy, that it does not belong to any country or region, ad reaffirm the necessity of due respect for sovereignty and the right of self-determination”.

[16] La notissima sentenza Lisbona, caso 2 BvE 2/08, punto 279.

[17] Tra i molti, H.J. Blanke-R. Boettner, op. cit., 253-254.

[18] Un’ottima sintesi in I. Pernice, Multilevel Constitutionalism in the European Union, in Eur. Law Review, 2002, 511.

[19] Interessanti notazioni, in una prospettiva sociologica, da A. Cavalli-A. Martinelli, La società europea, Il Mulino, Bologna, 2015, specie 195 segg.

[20] Per tutti L.M. Diez Picazo, I problemi della democrazia nei livelli non statali di governo, in  La sostenibilità della democrazia nel XXI secolo, M. Cartabia-A. Simoncini (a cura di), Il Mulino, Bologna, 2009, 157.

[21] Così, A. von Bogdandy, UE Insights for Political Inclusion in International Institutions, in Intern. Journal Const. Law, 2005, 295, 296. Dello stesso Autore, Globalization and Europe: how to square Democracy, Globalization and International Law, in The European Journal of International Law, 2004, vol. 15.5, 900. Cfr. anche G. de Burca, Developing Democracy Beyond the State, Columbia Journal of Transnational Law, 2008, vol. 46 (2), 101.

[22] S. Cassese, Global Standards for National Democracies?, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2011, 701, 704.

[23] Risoluzione del 24.10.2005, cit.

[24] Ad esempio nelle cause C- 145/04 e C-300/04.

[25] Riprende l’art. F del Trattato di Maastricht, ma assumendo il principio della democrazia tra quelli fondanti dell’Unione.

[26] Il principio è poi modulato nello stesso art. 12 in cinque modalità, che comunque non esauriscono le opportunità di dialogo e di partecipazione interparlamentare.

[27] La tesi, da condividere, è oggi assai diffusa. Per tutti, J.H.H. Weiler, In the Face of the Crisis: Input Legitimacy, Output Legitimacy and the Political Messianism of European Integration, in Journal of European Integration, 2012, vol. 34/7), 825 segg.

[28] Se si accoglie questa tesi va ridimensionata la lettura di una competizione democratica rappresentativa, a livello europeo, nel Parlamento europeo con la “fiducia” alla Commissione come esecutivo politico dell’Unione.

[29] Come giustamente nota A. von Bogdandy, I principi fondamentali, cit., 124, che richiama anche in senso confermativo l’art. 48 TUE.

[30] Considerato che sono limitati a casi particolari – come Romania e Bulgaria – i meccanismi di cooperazione e verifica (MCV) nella fase di pre-adesione.

[31] Sulla nozione di attentati e rischi di “carattere sistemico” cfr. la giurisprudenza della Corte di giustizia nei casi C-411/10; C-493/10; C-4/11. In dottrina, A. von Bogdandy-M. Ioannides, Il deficit sistemico nell’UE, in Riv. Trim. Dir. Pubbl.,2014, 593, che hanno definito il “deficit sistemico” come la situazione nella quale si riscontrano fenomeni di illegalità tanto marcati e diffusi da mettere in dubbio i valori fondamentali consacrati dall’art. 2 TUE. Si veda anche il commento di L. De Lucia, ivi, 641, che modera alcune conclusioni “forti” dei due Autori.

[32] Cfr. J-W. Mueller, Should the EU Protect Democracy and the Rule of Law inside Member States?, in European Law Journal, 2015, vol. 21 (2), 141. Cfr. anche, nella prospettiva dei diritti fondamentali, connessa a quella di democrazia, A. von Bogdandy e altri, Reverse Solange. Protecting the Essence of Fundamental Rights against EU Member States, in Common Market Law Review, 2012, vol. 49, 489 (anche in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2012, 933 ss..

[33] Il caso più noto e giuridicamente definito è quello relativo alla situazione in Ungheria dei diritti fondamentali e della democrazia, oggetto di formali indagini e rapporti della Commissione e del Parlamento europeo nel periodo 2011-2013.

 

[34] C. Harlow, Limping Towards Legitimacy: a Lawyer’s Take On EU Lawmaking Integration, in corso di stampa. Nella dottrina italiana una posizione similare è espressa da A. Manzella, Il parlamentarismo europeo al tempo della globalizzazione, in Federalismi, n. 4/2015.

[35] Ad esempio con un sistema elettorale uniforme per il Parlamento europeo. E’ però pacifico che a tal fine occorra una riforma dei Trattati, al momento difficilmente proponibile.

[36] Nella vasta bibliografia, cfr. principalmente: F. Scharpf, Governing in Europe. Effective and Democratic?, OUP, Oxford, 1999; dello stesso Autore, Problem-Solving Effectiveness and Democratic Accountability in the EU, Leibniz Information Centre for Economics, MPIFG Working Paper no. 3/1, 2006; V. Schmidt, Democracy and Legitimacy in the EU Rivisited: Input, Output and “Throughput”, in Political Studies, 2013, vol. 61, 2; G. Majone, Rethinking the Union of Europe Post-Crisis. Has Integration Gone Too Far?, CUP, Cambridge, 2014.

[37] J.H.H. Weiler, Living in a Glass House: Europe, Democracy and the Rule of Law, in EUI Working Papers, RSCAS 2014,25, pag. 25.

[38] La sentenza è stata anche ampiamente trattata nella prospettiva tedesca, mettendo a confronto le posizioni espresse dal BVG nel presente caso e nel precedente “Lisbona”. Si veda, in particolare, M. Claes-J.-H. Reestmann, The Protection of National Constitutional Identity and the Limits of European Integration at the Occasion of the Gauweiler Case, in German Law Journal, 2015, vol. 16/04, 917.

[39] La sentenza è particolarmente interessante sul motivo legato all’asserita violazione del principio di legittimo affidamento da parte delle BCE e di suoi esponenti; cfr. punti 73-84.

[40] La sentenza ESMA ha immediatamente sollevato un ampio dibattito. Cfr. in particolare P. Nicolaides-N. Preziosi, Discretion and Accountability: the ESMA Judgement and the Meroni Doctrine, College of Bruges Research Papers, no. 30/2014.

[41] Nel caso Gauweiler la conclusione della Corte è stata, come noto, che i programmi della BCE per l’acquisto di obbligazioni governative sui mercati secondari (le c.d. misure “non convenzionali”, atipiche) sono conformi alla disciplina vigente.

[42] Il punto è evidenziato da C. Zilioli, The ECB, Indipendence and Judicial Scrutiny, in corso di pubblicazione negli atti del convegno “The Democratic Principle and the Economic and Monetary Union”, Università Roma II, gennaio 2016.

[43] La Corte ha accertato questo carattere in relazione agli organismi economici e monetari (cfr. punto 85 della sentenza ESMA), anche con riferimento alle competenti autorità nazionali, che insieme ad ESMA operano con un alto grado di esperienza professionale e in stretta collaborazione per il perseguimento degliobbiettivi di stabilità finanziaria dell’Unione), ma l’affermazione ha una valenza certamente più ampia, da riferire a gran parte dell’amministrazione; almeno a quella qualificabile come “tecnica”.

[44] La citazione è, nuovamente, della sentenza ESMA punto 82.

[45] Giustamente R. Schuetze, From Rome to Lisbon: “Executive Federalism” in the (new) EU, in CMLR, 2010, 1407, coglie la novità dell’art. 197 TFUE (in combinazione con l’art. 6 TFUE).

[46] Art. 298.1 TFUE: “Nell’assolvere i loro compiti le istituzioni, organi e organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione europea aperta, efficace e indipendente”.

[47] Precisa la Corte, con motivazione di particolare interesse ai presenti fini, che “l’esistenza e le condizioni di funzionamento di siffatte autorità, negli Stati membri, rientrano nella sfera della legge o persino, in taluni Stati membri, della Costituzione e tali autorità son soggette al rispetto della legge sotto il controllo dei giudici competenti. Autorità amministrative indipendenti di tale genere, come ne esistono del resto nel sistema giuridico tedesco, hanno spesso funzioni regolatrici o svolgono compiti che devono essere sottratti all’influenza politica, pur restando subordinate al rispetto della legge, sotto il controllo dei giudici competenti. Ciò si verifica precisamente nel caso delle funzioni delle autorità di controllo in materia di protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” (punto 42).

[48] In quest’ultima sentenza relativa all’Ungheria, la Corte ha ulteriormente precisato che: a) l’indipendenza di queste amministrazioni preclude, tra l’altro, ogni direttiva e influenza esterna di qualsiasi tipo; b) l’indipendenza funzione è una condizione essenziale per la legittima e corretta operatività di questi organismi (punto 52).

[49] Sentenza cit. 9.3.2010, C-518/07. Ma più che “legittimazione democratica” dovrebbe correttamente dirsi: “legittimazione funzionale o per risultati”.

[50] La proposta è riassunta nel paper dell’European University Institute, Reinforcing Rule of Law Oversight in the EU, EUI Working Papers, 2014/25, a cura di C. Closa, D. Kochenov, J.H.H. Weiler, pag. 22.

[51] Bingham Centre, Safeguarding the Rule of Law, Democracy and Fundamental Rights; a Monitoring Model for the EU, 15.11.2013.

[52] Regolamento (CE) n. 168/2007 del 15.2.2007. Per una lettura meno critica, M. Cartabia, L’Agenzia dei diritti fondamentali dell’UE, in Dir. Unione Europea, 2009, 531.

[53] Questo approccio, presente da tempo nel diritto europeo – basti pensare agli scritti di M. Cappelletti (tra cui in particolare, Integration Through Law, - Europe and American Federal experience, Gruyeter, Berlin-New York, 1986) –  è adesso particolarmente condiviso tra gli studiosi del c.d. “diritto globale”. Cfr. in particolare S. Cassese, Chi governa il mondo?, Il Mulino, Bologna, 2012; Id., Lo spazio giuridico globale, Bari-Roma, Laterza, 2006.

[54] R. Dehousse, Constitutional Reform in the EC. Are There Alternative to the Majority Avenue?, in J. Hayward (a cura di), The Crisis of Representation in Europe, Cass, London, 118.

[55] Merita qua ricordare vari scritti di D. Curtin critici sul ruolo dell’esecutivo europeo; per tutti: Challenging Executive Dominance in European Democracy, C. Joerges-C. Glinski (a cura di), The European Crisis and the Transformation of Transnational Governance. Authoritarian Managerialism versus Democratic Governance, Hart, Oxford, 2014, 203.

[56] G. Peroni, The ECB and the European Democracy: a Technocratic Institution To Rule All European States?, in corso di pubblicazione negli atti del citato Convegno “The Democratic Principle and the Economic and Monetary Union”.

[57] Sulla “ipertrofia del giuridico” pungenti le critiche di B. de Giovanni, La global polity e la ricerca dell’araba fenice, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2016, 1467, prendendo spunto dalle posizioni di S. Cassese: “nell’arena globale tutto è espressione di un mosaico di ordinamenti giuridici e di regimi regolatori settoriali. Il conflitto politico non sembra avere più un luogo dove manifestare la propria energia creativa. La global polity è, in fondo, giuridificazione del mondo. La quale per funzionare deve neutralizzare il conflitto e per farlo deve rendere omogenee tutte le forze che interferiscono nel processo globale. (…) Ma forse la natura delle forze in campo non si presta a questa omogeneizzazione”. Di de Giovanni, sul tema generale, si veda anche: Elogio della sovranità politica, ES, Napoli, 2015, specie 287 segg.

[58] J.H.H. Weiler, Europa: “Nous coalisons des Etats, nous n’unisons pas des hommes”, in La sostenibilità della democrazia nel XXI secolo, cit. 51 segg., 64; nello stesso senso l’Autore argomenta in Living in a Glass House, cit., 29.

[59] Pubblicato nel volume Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972, 167 segg; seguito dalla Postilla all’edizione del 1932 e da due Corollari.

[60] Op. cit., pag. 178.

[61] J. Schwarze, European Administrative Law, Sweet & Maxwell, London, 1992, 4, ma prima edizione 1988: “European Community Law itself is primarily made up of rules of administrative law, drawn in particular from the area of law governing the management of economy. To that extent, the EC, already described by the Court of Justice as a community based on law, could more precisely be termed a community based on administrative law”.

[62] P. Lindseth, Power and Legitimacy. Reconciling Europe and the Nation-State, OUP, Oxford, 2010.

[63] Non è invece condivisibile la scissione che l’A. propone tra legittimazione tecnocratica dell’UE e la legittimazione costituzionale e democratica che rimane negli Stati membri, dato che è tipico dell’UE coniugare congiuntamente le due forme di legittimazione (cfr. pag. 49 segg).

 

 

Mario P. Chiti - Il Partenariato Pubblico Privato e la nuova direttiva concessioni

1. Il Partenariato Pubblico Privato (PPP) è una nozione descrittiva di un fenomeno complesso ed articolato che si riferisce in modo collettivo ad un fascio di istituti giuridici caratterizzati da alcuni comuni elementi. Dunque, il PPP non è un distinto ed unitario istituto giuridico1.

Così è anche positivamente previsto nel Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, c. 15 ter (introdotto con il correttivo del 2008), definisce il genere dei “contratti di partenariato pubblico privato”2 e poi ne indica, a titolo esemplificativo3, alcuni tipi. Nel diritto dell’Unione europea non esiste un riferimento generale, né una definizione del PPP, a dispetto delle numerose proposte in tal senso; ma neanche se ne parla in modo espresso nella recente direttiva concessioni.

Pur con queste premesse, la tematica del PPP ha caratteri largamente omogenei. In particolare, si è individuato un filo rosso tra gli istituti giuridici rapportabili al PPP, incentrato sul ruolo del privato quale promotore del progetto, interlocutore e partner di durata della pubblica amministrazione. Ciò è avvenuto inizialmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito ed in altri sistemi di simile civiltà giuridica4; ma ben presto anche in altri ordinamenti, avendo il PPP attirato generale attenzione.

Convergenti, ancorché di per sé diverse, motivazioni hanno favorito una rapidissima fortuna del PPP negli ultimi due decenni. Tre motivazioni, in particolare, sono risultate importanti: il ruolo paritario del privato nei confronti della pubblica amministrazione; l’affermazione della sussidiarietà orizzontale, di cui il PPP è considerato una della varie espressioni; la centralità dell’economia sociale di mercato nel contesto della “costituzione economica” dell’Unione europea.

Al fondo delle diverse motivazioni si può cogliere il comune elemento dell’apporto del privato alla realizzazione delle politiche pubbliche in termini di progettualità, di finanziamento e di gestione o cogestione delle iniziative. Fenomeno non certo in precedenza sconosciuto, come dimostrato ad esempio dalla legge sul procedimento amministrativo (n. 241/1990, specie art. 11); ma certo originale nei termini pervasivi in cui adesso si è manifestato nella gran parte dei sistemi giuridici.

Come spesso accade per nozioni nuove ed accattivanti, il PPP ha destato un vero entusiasmo ed è stato considerato quale panacea per una quantità di questioni che nell’ultima parte dello scorso secolo segnavano negativamente l’azione della pubblica amministrazione, quali la carenza di finanziamenti pubblici per nuove iniziative, i limiti imposti dalle norme europee di finanza pubblica, la modesta progettualità, le difficoltà di impostare un efficace rapporto per la gestione dei progetti di durata5. L’esperienza sta dimostrando che nessuno degli istituti rapportabili alla nozione di PPP può considerarsi la primaria soluzione per i problemi dell’azione pubblica; ma comunque bene hanno fatto le istituzioni nazionali ed europee a valorizzare il ruolo di questi nuovi istituti e, quando si trattava di istituti risalenti (come le concessioni), a modernizzarne la disciplina.

2. Come detto, lo sviluppo della tematica del PPP è un fenomeno manifestatosi contestualmente in alcuni tra i più avanzati ordinamenti; ma non avrebbe assunto l’attuale importanza senza il contributo decisivo dell’Unione europea, a partire dalle proposte organiche del 2004.

I principali documenti dell’Unione europea sul tema del PPP sono: il Libro verde del 2004 relativo ai PPP ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2004, 327); la Comunicazione della Commissione europea del 15.11.2005 sui PPP e sul diritto degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2005, 569); la Risoluzione del Parlamento europeo del 16.10.2006 sui partenariati pubblico-privati e il diritto comunitario in tema di appalti pubblici e concessioni; la Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) del 5.2.2008 (COM 2007 6661); il Libro verde del 2011 relativo alla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti (COM 2011 15). Il tema particolare delle concessioni era stato anticipato rispetto ai documenti ora citati dalla Comunicazione interpretativa della Commissione del 12.4.2000 sulle concessioni nel diritto comunitario.

Dopo tanto trattare di PPP, in documenti dell’Unione, non se ne parla invece nella recente direttiva 2004/23 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.2.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (d’ora in poi, direttiva concessioni), che pure è la disciplina europea che per la prima volta regola in modo sistematico uno degli istituti capisaldi del Partenariato.

La ragione è che nel breve volgere di un decennio (2004-2014) il dibattito critico sul PPP è stato così intenso da aver, a mio avviso, indotto l’Unione europea ad una virata delle proprie politiche. Tanto da porre il problema della perdurante validità di una nozione unitaria di PPP, visto che l’Unione europea sta sviluppando una politica del diritto incentrata sulla definizione di alcuni dei maggiori istituti del Partenariato; abbandonando la prospettiva di una disciplina generale del tema.

Le riforme non riguardano, intuitivamente, il solo versante dell’Unione europea, stante la perdurante competenza degli Stati membri su una quantità di istituti giuridici del Partenariato, nonché la tendenza alla convergenza ed alla reciproca ibridazione tra gli ordinamenti nazionali. Per l’Italia esiste l’ulteriore questione dell’anticipazione normativa di una prima disciplina del PPP rispetto agli attesi sviluppi del diritto europeo, sulla base di una sicura propria competenza. Tale normativa è ora a rischio di asimmetria o, addirittura, di contrasto con il più recente diritto dell’Unione, come la direttiva concessioni.

Per verificare lo stato di questa evoluzione – che è, insieme, normativa, giurisprudenziale e scientifica – occorre esaminare come il tema del PPP sia stato trattato nei documenti dell’Unione europea, sopra citati, a ciò specificamente dedicati; gli esiti dei relativi dibattiti; nonché le ragioni della mancata considerazione del PPP nelle direttive del 2014 sui contratti pubblici.

3. Il Libro Verde del 2004, dopo una definizione di larga massima del PPP, considera che il Partenariato sia caratterizzato da quattro elementi e che la complessiva tematica si articoli in due categorie di istituti.

La definizione generale di Partenariato si riferisce a forme di cooperazione a lungo termine tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le risorse necessarie, apportate in via principale dal privato, sono in gestione congiunta ed i rischi collegati suddivisi in modo proporzionato, sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto.

I quattro elementi caratterizzanti sono il rapporto collaborativo di lunga durata; il finanziamento almeno in parte privato, con successivo recupero dell’investimento; il ruolo non operativo della pubblica amministrazione, ma di controllo e coordinamento; il trasferimento del rischio sul privato, in modi complessi.

Le due principali categorie di partenariato sono poi definite “PPP istituzionalizzato” e “PPP contrattualizzato”. La prima è caratterizzata dalla decisione condivisa di istituire un nuovo soggetto giuridico cui i due o più partner pubblici e privati parteciperanno; la seconda si riferisce invece alla presenza di un rapporto contrattuale, non organizzativo.

Come è proprio delle importanti proposte presentate dalla Commissione europea nella forma di “Libri verdi” (che di norma rappresentano il secondo stato dell’approfondimento istruttorio, che segue un primo dibattito pubblico), le posizioni della Commissione sollevarono grande interesse e un’accesa discussione. Tanto la definizione del PPP quanto le quattro caratteristiche (presentate in modo così ampio da risultare effettivamente costanti) sono risultate accettabili, almeno in prima approssimazione. Invece, diverse sono state le valutazioni sulla categoria del “partenariato istituzionalizzato” e sulla ricomprensione degli appalti nel PPP contrattuale.

Per quanto riguarda il partenariato istituzionalizzato, il Libro Verde indicava – come accennato – che tale è il caso della decisione di un soggetto pubblico e di un soggetto privato (gli uni e gli altri anche plurali, ovviamente) per costituire insieme un nuovo soggetto incaricato di perseguire un obbiettivo condiviso. Ora, per le società miste va osservato che indubbiamente la parte pubblica e quella privata decidono di istituire un nuovo soggetto giuridico con l’intento di collaborare insieme per il raggiungimento di scopi comuni. In tale prospettiva, nulla è più vicino all’idea generica di Partenariato di un soggetto “comune” alle due parti che lo istituiscono e vi partecipano; inoltre, il privato contribuisce con il proprio apporto finanziario, il lavoro e le prestazioni necessarie. Tuttavia, in questo modulo di PPP a carattere organizzativo manca un elemento essenziale del Partenariato, quale il rischio diretto per la parte privata; non perché la partecipazione societaria sia priva di rischi, ovviamente, ma in quanto il rischio di impresa è propriamente della società e ripartito tra i soci in proporzione al peso delle relative partecipazioni. In ogni caso è del tutto diverso in queste situazioni dal rischio operativo e di disponibilità, come definito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dai giudici nazionali, e come adesso disciplinato dalla direttiva concessioni. Si consideri inoltre che le società miste hanno un regime giuridico con caratteri non necessariamente identici a quelli delle società di diritto comune (talora con rilevanti discrepanze, anzi); ciò che determina una posizione dei privati differenziata rispetto al criterio generale del rischio di impresa. La circostanza che il privato sia stato scelto all’esito di una procedura ad evidenza pubblica (oggi rimangono solo limitate eccezioni a questa regola) non riequilibra la situazione ora esposta; e comunque è inconferente con l’idea di Partenariato.

Se non è semplice riportare le società miste con qualche precisione alla nozione di PPP, ancora più difficile è per varie altre figure giuridiche soggettive pubblico-private; vista la varietà oggi assunta da queste figure. Anche le “fondazioni pubbliche” – che pur rappresentano in modo descrittivo, di prima approssimazione, una forma di PPP – sfuggono infatti ad una puntuale ricomprensione nella nozione di Partenariato. Infatti, per definizione una fondazione (quale che sia la caratterizzazione, tradizionale o “pubblicistica”) è un soggetto giuridico che vive distintamente dai soggetti che l’hanno promossa e che non contempla neanche il concetto economico di rischio per il privato che vi partecipa6.

Nell’insieme, il “PPP istituzionalizzato” non pare rappresentare una categoria omogenea per la diversità delle figure soggettive che possono considerarsene parte, ed anche per il regime giuridico altrettanto differenziato di tali figure. Ma soprattutto non vi si rinvengono elementi essenziali della nozione generale di Partenariato, come definiti dallo stesso Libro Verde, ad iniziare, come detto, dalla “traslazione del rischio”. Per superare queste obbiezioni a ben poco è valsa la Comunicazione interpretativa della Commissione sui PPP istituzionalizzati del 5.2.2008.

4. Assai discussa è stata anche l’assimilazione tra i contratti di appalto e le concessioni nell’ambito del “PPP contrattuale” (nella terminologia del Libro Verde)7.

I contratti di appalto – istituti di antichissima tradizione giuridica – paiono già a prima considerazione estranei alla nozione di PPP. Infatti, a base di questi contratti non esiste alcuna comune volontà collaborativa di realizzare una comune iniziativa. Il contratto cristallizza gli opposti interessi delle due parti, che rimangono sostanzialmente diversi anche nel corso dell’esecuzione e fino alla definitiva estinzione del rapporto. Il privato non finanzia l’oggetto del contratto, se non in circostanze del tutto particolari ed eventualmente sempre per una parte. Il rischio per il privato, come in tutti i contratti del genere, è solo per il c.d. “rischio operativo”; mancano in genere altri rischi, come il rischio di disponibilità. La programmazione, l’attivazione delle relative procedure e la loro gestione è esclusiva competenza delle pubbliche amministrazioni stazioni appaltanti.

In breve, non risulta per niente convincente l’assimilazione che il Libro Verde ha voluto tra appalti e concessioni nel quadro della categoria del PPP contrattuale. Neanche poteva richiamarsi la circostanza che la direttiva 2004/18 per gli appalti pubblici avesse delle disposizioni applicabili anche alle concessioni. Tali disposizioni riguardano infatti alcuni principi generali da tenere presenti nelle procedure per l’affidamento delle concessioni, senza introdurre una disciplina delle stesse. Anzi, malgrado una forte pressione per una normativa dell’Unione europea sulla materia – quale essenziale componente della disciplina dei contratti pubblici – solo nel 2014 è stata approvata l’attesa direttiva (la già ricordata direttiva 2004/23); che tuttavia, come si dirà, è incentrata proprio sulla distinzione di fondo tra concessioni ed appalti.

5. Alla carenza di un convincente inquadramento generale della nozione di PPP nel diritto dell’Unione si accompagnava un’altrettanto discutibile considerazione dei principali istituti di Partenariato nel Sistema europeo contabile SEC 1995, come interpretato da Eurostat con la decisione 11.2.2004 sul deficit e sul debito.

La questione è molto tecnica, ma alla base vi è il problema definitorio dell’ambito delle operazioni finanziarie che possono o meno rientrare nel Patto di Stabilità (criterio del c.d. off on balance). Problema che rappresenta uno dei maggiori elementi di attrazione per il PPP, ove si accetti il criterio che anche i PPP “freddi” siano da considerare al di fuori dei vincoli del Patto, a meno che non si tratti di veri e propri appalti.

La decisione Eurostat sopra citata del 2004 prevedeva, in riferimento specifico ai contratti di infrastruttura, ma con argomenti facilmente estensibili, che sono contratti di PPP solo quelli in cui una pubblica amministrazione corrisponde al privato tutto o gran parte del costo del servizio; ovvero i casi usualmente definiti come di “opere fredde”. Mentre sono concessioni – distinte dai contratti di PPP – le tipologie contrattuali in cui i servizi sono pagati, in tutto (opere “calde”) o in parte (opere “tiepide”) dagli utenti finali. Per Eurostat, le operazioni in cui il privato si assume il rischio di costruzione ed almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda possono non essere registrati nei bilanci delle pubbliche amministrazioni. Tale conclusione determinava due problemi: il primo, per la distinzione tra PPP e concessioni, tema sul quale i documenti della Commissione europea fornivano opposte indicazioni; il secondo, per una malintesa applicazione delle regole SEC 95, mai però formalmente contestata ad Eurostat.

Nel 2010 il sistema contabile SEC è stato modificato, con effetto dal settembre 2014, secondo criteri che influenzano anche il tema in esame. Infatti, come chiarito dal Manuale sul governo del deficit e del debito (MGDD), in base alle varie novità possono considerarsi off balance le operazioni di PPP in cui il partner privato assume la maggior parte dei rischi e, allo stesso tempo, ha diritto di godere di larga parte dei benefici derivanti dall’operazione.

Con la direttiva 2014/23 la questione può considerarsi definitivamente superata in quanto la nuova disciplina ricomprende unitariamente le concessioni, anche quelle in cui il principale pagatore è la pubblica amministrazione

La soluzione delle iniziali posizioni di Eurostat è quanto mai opportuna pure per il diritto interno poiché il più volte citato art. 3, c. 15 ter, del Codice dei contratti pubblici stabilisce che alle operazioni di PPP “si applicano i contenuti delle decisioni Eurostat”. Cessa così l’antinomia tra la decisione Eurostat del 2004 – per cui solo i contratti “freddi” sono da considerare PPP – e il nostro Codice che, invece, considera le concessioni quali sue articolazioni, comprese quelle “calde”.

6. Il decennio intercorso tra il Libro Verde del 2004 e le nuove direttive contratti pubblici del 2014 è stato dunque segnato da un intenso dibattito, ma nessuna proposta è stata compiutamente accolta ed approvata. Altri temi sono stati abbandonati o radicalmente riconsiderati8.

Il tema del “Partenariato istituzionalizzato” non è stato sviluppato come tale nella disciplina dell’Unione europea, neanche per parti. Si è avuta invece un’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema delle società miste e del collegato tema dell’organismo di diritto pubblico, ma su aspetti non direttamente connessi al PPP (osservanza delle procedure ad evidenza pubblica da parte delle società miste, applicabilità dei principi sull’“in house providing” a queste società, criteri di scelta dei soci privati, ecc.). L’amplissima letteratura giuridica ha confermato, come già accennato,un marcato scetticismo sulla riconducibilità al PPP delle società miste e delle altre figure soggettive. In sintesi, questa parte delle iniziali proposte del Libro Verde non avuto sviluppo ed anzi può considerarsi abbandonata. Ma va notato come l’ordinamento italiano sia sul punto asimmetrico ed impreciso, almeno nelle definizioni, contemplando ancora le “società miste” tra gli esempi di PPP già contrattualizzato (cfr. il citato art. 3, c. 15, del Codice dei contratti pubblici).

C’è stato invece un fervido e costruttivo dibattito per un aggiornamento delle “direttive appalti” del 2004 (nn. 17 e 18) e per il completamento della disciplina dei contratti pubblici con l’attesa direttiva sulle concessioni.

Le direttive del 2014 (nn. 23-24-25), ed in particolare la “direttiva concessioni” (la 2014/23)9, sono, allo stato, la conclusione di questo percorso; anche se il carattere particolare del processo di integrazione europea indica che nulla è mai punto definitivo di arrivo, ma tappa di un percorso che continua incessantemente. Come dimostra anche il documento del Parlamento europeo nel settembre 2014, con l’ausilio di centri ricerca, “The Cost of Non-Europe in the Single Market10, ove nella parte IV dedicata a Public Procurements and Concessions, si ipotizzano ulteriori perfezionamenti per l’attuazione della normativa europea sui contratti pubblici e sul PPP.

Che cosa ci indicano dunque per la problematica del PPP le direttive n. 23 (concessioni) e n. 24 (appalti pubblici nei settori ordinari; quelli nei settori esclusi – disciplinati dalla direttiva n. 25 – non interessano qua particolarmente)11?

Tra le molte novità, tre sono particolarmente rilevanti ai presenti fini. Anzitutto, nelle due direttive non si parla mai di PPP; neanche nei pur numerosissimi “considerando” iniziali. Merita dunque accertare la ragione di questo silenzio, che non è causale. In secondo luogo, si stabilisce una precisa linea divisoria – concettuale e di disciplina – tra appalti e concessioni; anche per le fattispecie che paiono più strettamente connesse. In terzo luogo, le concessioni disciplinate dalla direttiva n. 23 non sono gli istituti del genere tradizionale delle concessioni traslative o costitutive, ma (cfr. Considerando n. 11) la particolare specie di contratti mediante i quali le amministrazioni aggiudicatrici “affidano l’esecuzione di lavori o la prestazione e gestione di servizi a uno o più operatori economici. Tali contratti hanno per oggetto l’acquisizione di lavori o servizi attraverso una concessione in cui il corrispettivo consiste nel diritto di gestire i lavori o i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo12”.

La prima indicazione – sul mancato richiamo al PPP – è, in tutta evidenza, quella più importante per capire lo stato del diritto europeo per la problematica in esame. Dopo tanto proporre e discutere di PPP, le istituzioni dell’Unione non potevano certo considerarsi ignare di questa tematica; specie nel momento in cui per la prima volta disciplinavano istituti giuridici che ne fanno parte, a ragione (le concessioni), o ridisciplinavano istituti (gli appalti) che, a torto, il Libro Verde considerava parte del PPP. La circostanza che nelle due nuove direttive sia stato omesso ogni riferimento, generale e speciale, al PPP sta dunque a significare – a mio avviso – che il legislatore europee ha considerato, almeno per il momento, che non sussistono le condizioni per una disciplina unitaria degli istituti giuridici riportabili al PPP; ma neanche che ce ne sia bisogno, una volta che il cuore della tematica del Partenariato (le concessioni) trova una compiuta disciplina.

La linea divisoria accuratamente disposta dalle direttive 23 e 24 tra appalti e concessioni indica poi che il legislatore europeo ha implicitamente accolto le critiche – fondatissime – all’iniziale posizione espressa dalla Commissione nel Libro Verde circa l’unitarietà del plesso del “partenariato contrattuale”. In tal modo ulteriormente sfoltendo l’ambito del PPP prima maniera, dopo che era stato fatto cadere l’intero plesso del “partenariato istituzionalizzato”.

Ancora, la nuova disciplina delimita implicitamente l’ambito del PPP rilevante per il diritto dell’Unione europea, in quanto tratta solo delle concessioni “di rischio”. Il punto ricorre in modo puntuale nell’intera direttiva 23; specialmente nei Considerando da 11 a 20 e negli artt. 1e 3. Si tratta di una delimitazione quanto mai opportuna, anche nella prospettiva nazionale. Infatti, se la direttiva chiarisce che per il diritto dell’Unione è rilevante solo questa specie di concessioni è perché solo esse sono istituti in cui il rischio connota il rapporto di partenariato. Si tratta dunque di concessioni “dinamiche”, ben diverse dalle tradizionali concessioni traslative. Secondo il Considerando n. 15, gli accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico – quali porti, aeroporti, spiagge – non si configurano come concessioni ai sensi della direttiva 23, in quanto l’amministrazione non acquisisce lavori o servizi, né vi una definizione dei rischi ai sensi della nuova direttiva.

La direttiva 23 rappresenta così un’importante novità anche per il nostro diritto, confermando con tutto il peso giuridico del diritto dell’Unione che il genus delle concessioni va ormai scisso per species, ciascuna con una propria distinta caratterizzazione. Questo esito era atteso da una parte degli studiosi per dare finalmente un’aggiornata sistemazione ad una delle più risalenti nozioni pubblicistiche; ma comporta anche conseguenze importanti per superare una serie di pseudo questioni che – per ragioni comprensibili connesse alle precedenti incertezze normative, nonché per bieche ragioni politiche contingenti – avevano portato a vedere ovunque fattispecie concessorie soggette al diritto europeo. Specie a seguito della direttiva sui servizi nel mercato interno (c.d. direttiva Bolkestein 2006/123).

7. La direttiva 2014/23 sulle concessioni è dunque il principale risultato sinora raggiunto nell’Unione europea sul tema del PPP; ma con esiti che si distinguono assai dalle iniziali proposte del Libro Verde del 2004. Infatti, il PPP viene incentrato sulla figura delle concessioni dinamiche disciplinate dalla direttiva ora citata; senza però che il legislatore europeo abbia chiarito se in questa figura si esaurisca la rilevanza giuridica del PPP, oppure se ciò rappresenti solo una prima disciplina di un complesso fenomeno ancora da completare.

La questione ha intuibili conseguenze, come detto, anche nel diritto interno, in quanto, accettando la tesi che il PPP di matrice europea si esaurisce nelle concessioni di cui alla direttiva 23, una serie di contratti pubblici che il d. lgs. n. 163/2006, e ss.ii.mm. considera esempi, tipici ed atipici, di PPP rimarrebbero privi di ancoraggio nel diritto dell’Unione. E’ il caso ad esempio dei contratti di sponsorizzazione (art. 26), della locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. 160 bis) e dei contratti di disponibilità (art. 160 ter).

Al riguardo, è però opportuno precisare che la mancanza di una chiara base di diritto europeo non delegittima le disposizioni nazionali che si richiamano al PPP, non essendo tale tematica parte delle competenze esclusive dell’Unione. Ma così si determina una situazione di duplice regime di PPP, nazionale ed europeo, in cui il primo si può svolgere autonomamente, almeno sino al punto in cui si determinino incompatibilità con principi generali di diritto europeo rilevanti in tali fattispecie. Situazione interessante quale esempio di riforme interne sollecitate da iniziative dell’Unione europea, poi non sviluppate compiutamente, che risultano caratterizzate da un segno nazionale “eurocompatibile”.

8. Per confermare questa interpretazione occorre analizzare più in dettaglio alcuni punti centrali della direttiva n. 23, quali la disciplina delle procedure di aggiudicazione delle concessioni; il trasferimento del rischio al privato concessionario; il controllo pubblico sull’esecuzione; il finanziamento delle concessioni, anche tramite i c.d. direct agreements.

La procedura di aggiudicazione è stata disciplinata secondo il principio di libertà procedurale delle amministrazioni concedenti, che dunque potranno modellare di volta in volta la procedura a seconda dell’oggetto e delle caratteristiche della concessione. Il principio è opposto a quello della disciplina degli appalti, dove le relative procedure ad evidenza pubblica sono puntualmente predefinite.

Il Libro Verde del 2004 aveva consigliato che, sino all’adozione di una direttiva dell’Unione sul tema delle concessioni,gli Stati membri adottassero procedure flessibili; diverse da quelle per gli appalti. Con enfasi per la procedura di “dialogo competitivo”, considerata la più appropriata per un effettivo rapporto di partenariato in quanto l’amministrazione può aumentare le sue conoscenze nel corso della procedura, affinando le posizioni di partenza ed attenuando l’asimmetria conoscitiva.

La direttiva 2004/18, coeva al Libro Verde, seguiva una linea assai più vaga e per certi versi imprecisa stabilendo solo alcune regole essenziali per le concessioni di lavori a tutela della trasparenza e della pubblicità (art. 56 e segg.); nulla prevedendo per le concessioni di servizi.

Il nostro Codice dei contratti pubblici è andato oltre le previsioni della direttiva 2004/18, con quattro plessi normativi dedicati nell’ordine alle concessioni di servizi su iniziativa pubblica (art. 30); alle concessioni di lavori su iniziativa pubblica (art. 144); alla finanza di progetto (art. 153). Con un proseguo nel regolamento, all’art. 278, per la finanza di progetto nei servizi.

La fattispecie disciplinata dal vigente Codice in modo più leggero è, come detto, quella delle concessioni di servizi. Ma il giudice amministrativo è stato attento a mettere appropriati argini ai poteri delle amministrazioni concedenti. Esemplare la sentenza del TAR Brescia, I, n. 1202/2014, sugli affidamenti diretti di queste concessioni13.

Sino alla direttiva 2014/23 l’asimmetria tra il diritto europeo – quanto mai ridotto – e il diritto nazionale – non completo, ma certamente più incisivo ed inspirato dalla disciplina degli appalti – non aveva dato origine a nessun contrasto sostanziale; neanche per la disciplina della finanza di progetto uscita indenne da alcuni complessi contenziosi.

Adesso invece si pone in modo ineludibile la questione della “libertà di procedura”, che il legislatore nazionale dovrà risolvere nell’attuazione della direttiva 23 attraverso il riconoscimento in via generale del principio sulla libertà delle procedure ed una profonda rivisitazione dell’attuale disciplina della finanza di progetto. Per il principio di libertà di procedura, il diritto dell’Unione non lascia margini agli Stati membri. In caso di eventuali previsioni nazionali difformi, il contrasto sarà facilmente verificabile con la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o tramite una procedura di infrazione attivata dalla Commissione; a meno che i soggetti tenuti ad applicare il diritto dell’Unione non disapplichino direttamente la norma nazionale in questione.

Si osservi il modo dettagliato con cui la direttiva 23 ha previsto il principio. Nel Considerando n. 68 si prevede che deve “essere lasciato alle amministrazioni aggiudicatrici ed agli enti aggiudicatori un’ampia flessibilità nel definire ed organizzare la procedura di selezione del concessionario”. Principalmente per la ragione che le concessioni sono di norma accordi complessi di lunga durata con i quali il concessionario assume responsabilità e rischi tradizionalmente propri dalle amministrazioni e rientranti di norma nell’ambito di competenza di queste ultime.

L’art. 30 esplicita in modo netto (tanto da impressionare le vestali dell’evidenza pubblica) che le amministrazioni “sono libere di organizzare la procedura per la scelta del concessionario, fatto salvo il rispetto della presente direttiva” (come per i principi di cui all’art. 3).

Tanto centrale è questo principio nell’ambito della nuova direttiva che è ribadito anche nell’art. 37, inclusa la precisazione (c. 6) che “l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore può condurre liberamente negoziazioni con i candidati e gli offerenti”.

Nella prospettiva di questo scritto, quale è il significato di fondo del principio così originale sulla libertà di procedura?

Pur senza che sia stato esplicitato nei “considerando”, si può a mio avviso agevolmente rilevare che la libertà di negoziazione con i candidati e gli offerenti risponde con puntualità al principio del partenariato, del dialogo tra pari; anzi è il modo primario di dar effettività a questo principio. Le amministrazioni concedenti saranno dunque libere di configurare di volta in volta le procedure più appropriate, anche negoziate e competitive, trattando con i privati quali interlocutori con piena dignità. Fermo che la procedura che così sarà configurata dovrà garantire i caratteri essenziali delle “nuove” concessioni.

9. Passando alla disciplina del trasferimento del rischio, va detto che il tema non è certo nuovo dato che da sempre è stato considerato necessario carattere delle varie forme di PPP ed in particolare delle concessioni, assieme alla traslazione della gestione per cui deve esservi un diretto legame tra il partner privato e l’utente finale. Tuttavia né gli spezzoni di normativa sinora in vigore, né la pur cospicua giurisprudenza avevano chiarito il suo ambito preciso; salvo ribadire che si tratta del principale elemento distintivo rispetto agli appalti.

Più incisiva è stata la giurisprudenza nazionale che da un lato aveva individuato come il rischio debba essere per il privato concreto e sostanziale (ovvero non meramente formale); dall’altro, era giunta addirittura a ritenere nulli i contratti che non assicurassero un’effettiva distribuzione dei rischi, in quanto in frode alla legge (TAR Sardegna, 10.3.2011, n. 213). Quest’ultima posizione, per quanto isolata nella sua radicale conclusione, è meritevole di richiamo poiché con ottime ragioni intende assicurare l’equilibrio del mercato del PPP senza che il privato possa sfruttare le asimmetrie informative e di competenze che affliggono l’amministrazione14.

La giurisprudenza nazionale è inoltre interessante per aver calcato la distinzione tra appalti e concessioni proprio sulla ripartizione del rischio; ma, così facendo, marginalizzando le concessioni “fredde”, se non addirittura espungendole dal genere concessioni. Emblematica la decisione del Consiglio di Stato, VI, 4.9.2012, n. 682, che considera appalti le apparenti concessioni in cui l’onere del servizio viene sostanzialmente a gravare sull’amministrazione.

Il Codice dei contratti pubblici ha usato (con l’art. 15, c. 15 ter, introdotto con la revisione del 2008) una formula apparentemente adeguata, parlando di necessaria “allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizione comunitarie vigenti”; ma ponendo da parte che sul punto le prescrizioni comunitarie sono state sino alla direttiva 2014/23 assai vaghe. Per il caso della concessione di opere destinate alla utilizzazione diretta della pubblica amministrazione, l’art. 143, c. 9, è più preciso nel prevedere che il concessionario deve avere l’alea economico-finanziaria della gestione dell’opera. Anche l’art. 153, c. 13, per la gestione delle operazioni di finanza di progetto.

Adesso il tema del rischio è compiutamente definito con una disciplina europea che non lascia margini di incertezza all’interprete, ma neanche spazi di autonomia per il legislatore nazionale che l’attuerà. Nella direttiva n. 23 tra le tante previsioni dedicate al tema del rischio le principali sono i Considerando n. 18 e n. 20, specie per la definizione del rischio operativo15, e l’art. 5, c. 1, n. 1, (secondo cui il rischio per il concessionario ha natura economica e comporta che in condizioni operative normali non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione).

Nell’insieme, dalla direttiva 23 emerge una chiara configurazione del rischio relativamente alla costruzione delle opere (quando tale è, in tutto o in parte, l’oggetto della concessione), alla domanda (ovviamente variabile per una serie amplissima di fattori), alla “disponibilità”. Con questa espressione si intende la qualità e la quantità della prestazione del concessionario, specialmente rilevanti nel caso di concessioni “fredde”, con canoni di disponibilità erogati dalla pubblica amministrazione che tengono conto dell’effettività delle prestazioni del concessionario. Si tratta dunque di un rischio collegato agli effettivi risultati del concessionario nelle concessioni di gestione di infrastrutture per la pubblica amministrazione (oggi frequenti in vari settori, come la sanità e l’amministrazione penitenziaria).

Secondo la prima posizione di Eurostat del 2004, almeno due di questi rischi dovevano essere espressamente allocati sul privato. Ma dopo la direttiva 23 occorrerà rivedere questa posizione in quanto tutte le forme di rischio sono altrettanto rilevanti; specie il “rischio di disponibilità”.Come anticipato, la decisione Eurostat del 2004 è superata anche nella divisione che prevedeva tra concessioni “calde” e concessioni “fredde”, considerando fuori dal bilancio delle pubbliche amministrazioni solo le prime; mentre quelle fredde finivano, a tali fini, per essere assimilate agli appalti. Dopo che la riforma SEC del 2010 aveva anticipato larga parte delle novità nella prospettiva della contabilità pubblica, la direttiva 23 unifica i due tipi di concessioni, non rilevando che per quelle fredde si tratti di rapporti bilaterali. Ciò che adesso distingue le concessioni di PPP non è la struttura bilaterale o trilaterale (come anche ritenuto dalla prevalente giurisprudenza nazionale), ma il tipo di contratto e la precisa allocazione del rischio; ben presente anche nella concessioni fredde nella veste di rischio di disponibilità.

10. Una terza rilevante novità della direttiva 23 è la previsione di varie disposizioni sulla fase dell’esecuzione della concessione.

Nella direttiva 2004/18 non vi era quasi nulla a tale proposito, neanche per gli appalti. Lo stesso nel nostro Codice dei contratti pubblici, salva l’importante eccezione data dall’art. 143, c. 8, che il diritto del concessionario a richiedere la revisione del piano economico-finanziario in caso di variazioni apportate dalla stazione appaltante o scaturenti da modifiche normative che comunque incidano sull’equilibrio economico-finanziario della concessione.

E’ evidente che tanto il diritto europeo che quello nazionale erano decisamente influenzati dalla tradizionale visione che considerava rilevanti solo le fasi di programmazione, scelta del contraente e di aggiudicazione, lasciando il resto al diritto comune. Con l’ulteriore conseguenza – questa volta specifica solo per il sistema italiano – di una diversa giurisdizione per le questioni dell’una e dell’altra fase: del giudice amministrativo per le procedure di evidenza pubblica e del giudice ordinario, salve situazioni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sulla fase dell’esecuzione. Ispirati da ben diverse logiche sono i recenti interventi legislativi sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e prevenzione dell’illegalità delle pubbliche amministrazioni (legge n. 190/2012; d.lgs. n. 33/2013); anche se la realizzazione effettiva delle misure ivi previste può comunque offrire utili elementi di conoscenza e valutazione per le amministrazioni concedenti.

La quasi inesistente disciplina della fase di esecuzione dei contratti pubblici di appalto e di concessione è una evidente lacuna già per gli appalti, come dimostrato da un’amplissima giurisprudenza. Per gli appalti di lavori, il settore che nella tradizione è il più accuratamente disciplinato, per tutelare gli interessi pubblici in questa fase non sono risultate adeguate figure come il direttore dei lavori e il responsabile unico del procedimento; o modalità di controllo come il collaudo. Pressoché niente era previsto per i servizi.

La carenza nella disciplina della fase di esecuzione dei contratti è comunque assai più rilevante per le concessioni, che per loro carattere implicano rapporti di durata, talora assai lunga, in cui inevitabilmente si determinano evoluzioni nel rapporto contrattualizzato. Le concessioni implicano inevitabilmente delle sopravvenienze, spesso capaci di incidere significativamente sulla realizzabilità stessa della concessione e/o sul suo equilibrio economico-finanziario.

La direttiva 23 è assai innovativa anche per questa parte. Il Considerando n. 76 indica che la concessione può essere modificata solo per circostanza che “non si potevano prevedere nonostante una ragionevole e diligente preparazione dell’aggiudicazione iniziale da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore”, specificata ulteriormente in relazione “ai mezzi a disposizione dell’amministrazione aggiudicatrice, della natura e delle caratteristiche del progetto specifico, delle buone prassi nel settore in questione e della necessità di garantire un rapporto adeguato tra le risorse investite nel preparare l’aggiudicazione e il suo valore prevedibile”. L’art. 43, poi, prevede una serie di ipotesi in cui l’oggetto della concessione può essere modificato dalle parti senza ricorrere ad una nuova procedura di aggiudicazione. Tali ipotesi consolidano per lo più le risultanze della giurisprudenza comunitaria e nazionale, ma nel contesto di una disposizione che tende a precisare per quanto possibile la nozione di “modifica sostanziale” della concessione (cfr. c. 4).

Al di là del completamento del quadro normativo, la direttiva 23 è importante in quanto indirettamente, ma senza equivoci, pone alle amministrazioni pubbliche l’impegno di attrezzarsi per esercitare effettivamente il ruolo di monitoraggio sul modo in cui il concessionario svolge la propria attività contrattualizzata. Tale impegno va ben oltre quello di irrobustire e qualificare gli strumenti tradizionali di controllo sopra rammentati (direzione lavori, collaudo, ecc.), implicando originali procedure, anche informatiche, per una costante verifica quantitativa e qualitativa della concessione. Per di più modellate di volta in volta sulle caratteristiche della specifica concessione da controllare, quale sviluppo di procedure definitorie e di scelta del concessionario in cui l’amministrazione gode di una situazione di “libertà” (così l’art. 30 e segg. della direttiva 23, come già indicato nei paragrafi che precedono).

Un cenno, almeno fugace, va infine dedicato al tema del finanziamento privato del progetto di PPP. Nel diritto italiano, esemplare la disciplina della finanza di progetto, il finanziamento del privato non ha una specifica considerazione, malgrado che le difficoltà di finanziamento in corso di concessione siano un fattore di grave rischio per l’intera operazione. In altri ordinamenti, invece, come nel Regno Unito, è invalsa la prassi dei “direct agreements” (talora noto anche come “tripartite deeds”), contratti trilaterali sottoscritti dal concessionario, da un istituto di credito e dalla pubblica amministrazione; allegati al contratto di concessione.

In occasione della prossima attuazione nell’ordinamento italiano della direttiva 23 sulle concessioni sarebbe opportuno dare specifico rilievo a questo strumento giuridico al fine di responsabilizzare il concessionario ed il finanziatore e, di converso, garantire maggiormente la pubblica amministrazione. Non osta a tale obbiettivo alcun principio sulle procedure ad evidenza pubblica, dato che il direct agreement serve al concessionario (scelto con gara) per dare piena certezza al finanziamento, senza che la pubblica amministrazione acquisisca niente per sé; neanche indirettamente.

11. Da questo excursus sul PPP nel diritto europeo nel decennio 2004-2014, segnato all’inizio dal Libro Verde e dalla direttiva 2004/18 ed oggi dalle nuove direttive appalti (2014/24) e concessioni (2014/23), si possono trarre tre principali conclusioni.

La prima. Il PPP è rimasto nel diritto europeo una nozione richiamata in modo descrittivo, priva di una precisa valenza giuridica. Non esiste, né è alle viste, una disciplina unitaria della nozione; parti intere delle iniziali proposte, come il “partenariato istituzionalizzato”, sono state lasciate a discipline di settore, come suggerito dalla dottrina e dai più attenti commentatori. L’Unione europea si è invece incentrata con successo nell’ulteriore definizione dei caratteri degli appalti, recependo un decennio di giurisprudenza e dibattiti europei e nazionali, ma senza prevedere nella direttiva 2014/24 alcuna connessione tra disciplina degli appalti e del PPP. Anche per questa parte allontanandosi così dalle proposte del Libro Verde, che univa nel “partenariato contrattuale” tanto le concessioni quanto gli appalti.

Lo sviluppo più rilevante dell’ultimo decennio è senza dubbio la direttiva concessioni 2014/23. Al di là dell’importante scelta di disciplinare una tematica che a lungo era stata lasciata da parte rispetto alla sempre più pervasiva disciplina degli appalti pubblici, rileva nella prospettiva del PPP che il diritto dell’Unione si è concentrato sul particolare tipo di concessioni previsto nella direttiva 23 quale istituto per eccellenza di Partenariato.

In sostanza, dopo tante proposte e discussioni sui molti possibili partenariati, nel diritto dell’Unione solo la concessione è rimasta come sicuro istituto giuridico di Partenariato. Si potrà pensare che si tratta solo di un primo risultato, che non preclude altri sviluppi. Ma, se questo è vero, è altresì indubitabile che allo stato non esiste alcun’altra iniziativa della Commissione europea per istituti giuridici riportabili alla nozione generale di PPP. Anzi, viene da pensare che le molteplici proposte per una disciplina europea del partenariato siano state consapevolmente strumentali per superare le ostilità e le oggettive difficoltà della direttiva sulle concessioni.

La seconda conclusione è che il PPP rimane essenziale nel presente difficile contesto. La difficile situazione della finanza pubblica ed i condizionamenti di bilancio rendono necessarie le iniziative ed il coinvolgimento dei privati nella realizzazione e gestione di molteplici iniziative di pubblico interesse. Pur se nella perdurante crisi economica anche la parte privata non è sempre in grado di presentare proposte di particolare rilevanza, l’apporto privato risulta componente imprescindibile delle politiche pubbliche.

Il ruolo dei privati è particolarmente apprezzabile nella fase della progettazione, che è un obbligo per la pubblica amministrazione, ma non suo monopolio in quanto aperto all’apporto dei privati. Come dimostra l’esperienza di due decenni, le principali realizzazioni ascrivibili al PPP sono dovute a proposte private, positivamente valutate dalle amministrazioni. E’ poi spesso apprezzabile una maggiore efficienza di sistema e capacità manageriale nella gestione del rapporto. E’ stato icasticamente chiarito dal giudice amministrativo che in materia di finanza di progetto (ma con argomenti generalizzabili a tutti i contratti ascrivibili al PPP), “la scelta del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è volta alla ricerca non solo di un contraente, ma di una proposta, che integri l’individuazione e la specificazione dell’interesse pubblico perseguito” (Cons. St., V, n. 67/2014).

I più recenti studi della Commissione europea e del Parlamento europeo, aggiornati alle tre direttive nn. 23-25 del 2014, evidenziano la fondamentale importanza della nuova disciplina delle concessioni per lo sviluppo del mercato interno che finalmente completa il diritto dell’Unione per i contratti pubblici. Particolarmente importante il citato Rapporto del Parlamento europeo “The Cost of Non-Europe in the Single Market” che riprende, attualizzandolo, il noto Rapporto Cecchini del 1988.

Per quanto essenziale per le politiche pubbliche, si conferma che il PPP non è una panacea ai problemi che i tradizionali contratti pubblici hanno nel tempo manifestato. Le esperienze dei paesi con maggiore tradizione di PPP – ad esempio il Regno Unito – mostrano non pochi difetti delle iniziative di finanza di progetto, istituto tipico del PPP, specialmente in settori a forte impatto sociale, come la sanità. Gli strumenti di partenariato vanno dunque scelti selettivamente e monitorati in modo efficace nel loro svolgimento.

La terza conclusione è che il PPP può funzionare efficacemente solo se le condizioni delle pubbliche amministrazioni sono adeguate per queste sofisticate procedure. Come da tempo si rileva, il “partenariato” è per definizione un rapporto tra pari, non diseguale, almeno tendenzialmente; un rapporto tra soggetti della stessa dignità formale e con le medesime capacità. Il privato viene così “elevato” da destinatario dell’azione amministrativa a compartecipe, partner appunto. La pubblica amministrazione dialoga con il privato, definisce consensualmente i caratteri della fattispecie, che poi segue in ogni sua fase, anche in quella dell’esecuzione.

Se la pubblica amministrazione non è attrezzata per questi impegni – per ragioni di organizzazione, o di mezzi, o per inadeguata formazione dei funzionari o per altro – il rapporto non potrà funzionare, in quanto si tratterà di una relazione asimmetrica in cui il privato può godere di vantaggi e opportunità varie; ed in cui, comunque, il pubblico interesse è ad evidente rischio. Non è un caso che il PPP sia emerso in ordinamenti ove la pubblica amministrazione, adeguatamente organizzata, è capace di dialogare con il privato con appropriati argomenti tecnici e giuridici; senza utilizzare la “spada” del diritto di supremazia.

Il PPP, specialmente nella forma delle concessioni, è dunque anche un fattore per la riforma e modernizzazione della pubblica amministrazione. Se questo in Italia non si realizzasse, l’occasione delle “nuove” concessioni (ovvero il tipo ora previsto dalla direttiva 23, con diversità dall’istituto tradizionale), aumenterebbe il distacco con la situazione dei paesi europei più evoluti e la non attrattività del nostro sistema per investimenti stranieri.

L’impegno, pur ineludibile, non sembra purtroppo di soluzione rapida e sicura; anche per la difficoltà di superare la ritrosia – non del tutto ingiustificata, visto l’atteggiamento delle Procure penali e della Corte dei conti – delle amministrazioni ad un impegno diretto nella costruzione delle procedure concessorie e nella valutazione dell’esecuzione dei contratti. Pesa inoltre in modo drammatico il numero enorme, patologico, delle amministrazioni aggiudicatrici. Problema che per gli appalti si cerca di attenuare attraverso le centrali di committenza e le nuove figure dei “soggetti aggregatori” (come definiti dal DPCM in corso di approvazione16), ma che per le concessioni disciplinate dalla direttiva 23 si pone in modo assai diverso in conseguenza del carattere particolare di ciascuna concessione e quindi dell’impossibilità di aggregare le relative amministrazioni. Per razionalizzare il sistema delle amministrazioni aggiudicatrice delle concessioni non si può dunque pensare alle centrali di committenza e simili aggregazioni, bensì all’istituzione di un’agenzia centrale di assistenza tecnica capace di fornire l’esperienza necessaria per le amministrazioni che intendono utilizzare il nuovo strumento concessorio.

Note:

1 La tesi esposta in miei precedenti lavori (I partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Napoli, 2009, 1 segg; Luci, ombre e vaghezze nella disciplina del Partenariato Pubblico-Privato, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Bologna, 2005, 7 segg.) ha trovato conforto nell’evoluzione del diritto nazionale e dell’Unione europea.

2 La definizione è: “contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico dei privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti”.

3 I casi citati nell’articolo in esame, c. 15 ter, “a titolo esemplificativo” sono: la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità, l’affidamento di lavoro mediante finanza di progetto, le società miste (enfasi aggiunta), l’affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell’opera sia in tutto o in parte posticipato o collegato alla disponibilità dell’opera per il committente o per utenti terzi.

4 Cfr. E.R. Yescombe, Public-Private Partnership, Amsterdam, 2007.

5 Per una sintesi, A. Di Giovanni, Il contratto di partenariato pubblico-privato tra sussidiarietà e solidarietà, Torino, 2012.

6 Il tema è stato di recente ripreso, anche oltre il settore dei beni culturali, da G. Manfredi, La “Fondazione La Grande Brera”, il partenariato e la panacea di tutti i mali, in Aedon, 2014, 2, 18.11.2014.

7 Per un commento, G. Santi, Il Partenariato contrattuale. Assetto e dinamiche evolutive alla luce delle direttive europee e del d.l. 90 del 2014, in Diritto dei contratti pubblici, a cura di F. Mastragostino, Torino, 2014, 236 segg.

8 Per una visione d’insieme, oltre al già citato (n. 1) volume Il Partenariato Pubblico Privato, cfr. Finanza di progetto. Temi e prospettive, a cura di Cartei G.F.-Ricchi M., Napoli, 2010.

9 Per un accurato commento, G. Fidone, Le concessioni di lavori e di servizi alla vigilia del recepimento della direttiva 2014/23/UE, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015. Per la fase appena precedente a quella della definitiva approvazione delle direttive 23-25/2014, si veda il volume collettaneo, a cura di M. Cafagno-A. Botto-G. Fidone-G.Bottino, Negoziazioni pubbliche, Scritti su concessioni e partenariati pubblico-privati, Milano, 2013.

10 European Parliamentary Research Unit, settembre 2014.

11 Per primi commenti sui testi in itinere, non sempre in linea con l’impostazione del testo, cfr. A. Travi, Il PPP: i confini incerti di una categoria, in Negoziazioni Pubbliche, cit., 143; M. Ricchi, Il PPP: nuove competenze e nuovi strumenti di regolazione della P.A., ivi, 250.

12 Continua il Considerando 11: “Essi possono, ma non devono necessariamente implicare un trasferimento di proprietà alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori, ma i vantaggi derivanti dai lavori o servizi in questione spettano sempre alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori”.

13 Per il TAR, nel caso, “trattandosi di una concessione di servizi non erano applicabili integralmente le disposizioni del codice dei contratti pubblici, ma erano comunque necessarie alcune garanzie, ed in particolare la predisposizione di un bando e di un disciplinare di gara, la preventiva definizione dei criteri di attribuzione del punteggio e lo svolgimento di un contraddittorio con il concorrente interessato prima dell’esclusione dell’offerta.

14 Tali profili sono analizzati da F. Goisis, Rischio economico, trilaterità e traslatività nel concetto europeo di concessione di servizi e di lavori, in Dir. amm., 2011, 729 segg. In generale, R. Caranta, I contratti pubblici, 2012, 170 segg. Per la questione del rischio nel contesto della finanza di progetto, F. Merusi, Certezza e rischio nella finanza di progetto, in Finanza di progetto, a cura di G. Morbidelli, Torino, 2004, 18 segg.

15 Da intendere come derivante da “fattori al di fuori del controllo della parti. Rischi come quelli legati ad una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione. Rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul mercato dell’offerta o della domanda, ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta”.

16 Si tratta del DPCM assunto in esecuzione dell’art. 9 del d.l. n. 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 89/2014, che prevede l’istituzione dell’elenco (c.d. Tavolo) dei soggetti aggregatori. 

Mario P. Chiti - Le riforme amministrative e l’effettività della giustizia amministrativa

1. Il tema della relazione è l’effettività della giustizia amministrativa all’indomani della riforma della pubblica amministrazione attivata dalla legge n. 124/2015 (la c.d. legge Madia). Farò riferimento al sistema di giustizia amministrativa risultante in specie dalla legge n. 205/2000 e, soprattutto, dal Codice del processo amministrativo (CPA) del 2010. Dopo il CPA abbiamo un lasso di tempo sufficientemente ampio da consentire un’analisi del suo effettivo funzionamento, anche in comparazione con le recenti riforme della giustizia civile. In una prossima occasione è auspicabile che si possa porre a confronto questa esperienza anche con le esperienze dei maggiori ordinamenti europei, ove si stanno tentando riforme similari; con una significativa attenzione per forme di tutela proprie della “giustizia amministrativa” anche nei Paesi di tradizione giustiziale monistica. Più avanti vi dedicherò qualche cenno.

2. All’analisi del tema assegnatomi premetto comunque alcune considerazioni che mi sono state sollecitate dall’introduzione generale del Prof. Cassese, come sempre stimolante.

La prima considerazione riguarda l’influenza della legislazione per il buon funzionamento della giustizia, ma anche il ruolo delle norme quale paradossale fattore di contenzioso.

A parte il diffuso fenomeno dell’“amministrare attraverso legge” – in specie ai tempi di instabilità governativa, quando il parlamento pare coamministrare con i governi – c’è un rilevante problema di qualità della legislazione che comporta gravi effetti per la tutela giurisdizionale, ovviamente anche per la giustizia civile.

Il sistema delle fonti del diritto è da tempo modificato profondamente, con una serie di atti fonte non rapportabili alle categorie principali; soprattutto, la legislazione è ipertrofica e spesso oscura.

Basti il riferimento ad un caso esemplare che si sta svolgendo in questo periodo: la faticosa approvazione in Parlamento della legge delega per il recepimento delle tre direttive UE per appalti e concessioni (nn. 23, 24 e 25/2014), a loro volta assai ampie e puntuali. Trattandosi di una legge di delega al Governo, la legge dovrebbe contenere solo principi e criteri direttivi, succintamente formulati secondo lo schema previsto dall’art. 76 Cost. Per di più, essendo materia disciplinata da ben tre direttive UE, i maggiori principi e criteri direttivi sono già previsti nelle direttive stesse; specialmente nei “considerando” iniziali. In realtà, il testo approvato in prima lettura dal Senato è composto da ben sessantadue criteri di delega (che alla Camera stanno diventando ottanta) che impegnano ben venti pagine di atti parlamentari. Taluni dei criteri riguardano poi micro-problemi, del tutto estranei al corretto modello di legge delega, come all’art. 1 il caso dei buoni pasto.

La legge delega, una volta approvata, in tal modo si porrà come fattore di complicanza per il legislatore delegato, già tenuto ad attuare oltre trecento norme comunitarie. Ne deriveranno dubbi interpretativi, inaspettati contrasti di interessi fattori di un nuovo contenzioso.

La giustizia nel suo complesso è, dunque, strettamente funzionale ad una buona legislazione.

La giustizia amministrativa, per la sua parte, è anche il portato di una buona pubblica amministrazione e del suo diritto. Non a caso nei manuali di diritto amministrativo la giustizia è usualmente trattata a conclusione, dopo i principi generali, l’organizzazione, l’attività, i mezzi, ecc. Conta in particolare il sistema di amministrazione della giustizia, definito dagli inglesi come il machinery of justice; finora invece rimasto nell’ombra, perché ritenuto non di interesse per il diritto amministrativo; come in un passato ormai fortunatamente superato non interessava ai “veri” giuristi il procedimento amministrativo; questione rilevante solo per gli operatori del diritto. Da qui lo stretto intreccio tra amministrazione e giustizia amministrativa, con le riforme delle pubblica amministrazione riattivate opportunamente a tutto campo dalla legge n. 124/2015.

Un’ultima considerazione preliminare riguarda il ruolo del diritto amministrativo che, a mio parere, non può che essere allo stesso tempo “luce rossa” e “luce verde” del potere amministrativo, per usare una metafora da traffico stradale proposta anni fa da un’eminente collega inglese. Che cosa significa diritto amministrativo come “luce rossa”? Limite del potere arbitrario, verifica della legittimità del potere amministrativo, garanzia per tutti coloro che sono stati affetti da decisioni illegittime e ingiuste; componente essenziale di un effettivo Stato di diritto. Diritto amministrativo “luce verde” significa invece un diritto funzionale alla realizzazione concreta delle politiche volute dagli organi politici, strumento primario per il perseguimento degli interessi pubblici.

E’ nella combinazione, non facile, di questi due profili che sta l’anima del diritto amministrativo; non superabile, a meno di non trasformare il diritto amministrativo nel diritto del principe o nel diritto delle sole garanzie, paralizzante il potere amministrativo. Queste caratteristiche si rinvengono plasticamente combinate nella nostra Costituzione, ove allo stesso tempo si assicura la pienezza della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113) e la giustizia nell’amministrazione (art. 100); nonché si prevedono i principi generali della funzione e dell’azione amministrativa, suo complessivo “buon andamento” (art. 97) .

3. Vengo finalmente al tema affidatomi: il funzionamento della giustizia amministrativa e l’effettività della tutela così assicurata; anche nella percezione internazionale, oggi di rilevante importanza in un contesto di economia globalizzata.

Leggendo ciò che il mondo pensa del nostro sistema di giustizia (per ora parliamone complessivamente, senza le interne distinzioni, per i motivi che meglio tra poco dirò) c’è da rimanere sconcertati. L’OCSE (autorevole organizzazione internazionale), la Banca Mondiale, Commissioni delle Nazioni Unite, società private che qualificano il ranking internazionale degli Stati per le varie funzioni pubbliche, sono sostanzialmente unanimi nel collocare l’Italia agli ultimi posti della graduatoria per quanto riguarda il funzionamento della giustizia. Il rapporto internazionale più “cattivo” (“Doing Business”, della Banca Mondiale), tre anni fa, ha posto l’Italia al 140° posto tra i 180 sistemi scrutinati (e non vi dico che Paesi “selvaggi” erano avanti a noi). Nell’ultimo anno, soprattutto per le varie riforme nella giustizia civile, siamo risaliti al 103° posto; bel progresso, ma che ancora ci lascia lontano dal novero dei Paesi “civilizzati”, cui pensiamo di appartenere.

Sappiamo bene che queste graduatorie, i rankings, sono opinabili; talora fuorvianti, se non addirittura sbagliati; però indicano un’indubbia percezione generale del tema trattato. Soprattutto, a toto o ragione, sono una bussola di riferimento per i players internazionali, pubblici o privati che siano. Come indica il rapporto ora citato della Banca Mondiale, questi dati indirizzano gli investitori nelle loro scelte; specie per quanto attiene ai tempi della giustizia, alle modalità di accesso alla giustizia ed al grado di prevedibilità delle sentenze.

Da qui derivano anche una serie di indicazioni e direttive politiche propinate all’Italia dal Fondo Monetario Internazionale, da altri organismi internazionali, da agenzie di rating. Il fenomeno può assumere anche carattere cogente nell’UE, specie per le misure connesse al c.d. Semestre europeo, che è divenuto veicolo per l’esercizio da parte delle istituzioni UE di un forte condizionamento tanto politico quanto anche direttamente giuridico.

4. Perché si arriva a questo? Le ragioni sono principalmente tre: la giustizia civile italiana è stata in effetti sino a tempi molto recenti un vero e proprio buco nero tra le funzioni pubbliche, assorbendo tutta l’attenzione; le valutazioni internazionali non tengono conto della giustizia amministrativa, concentrandosi solo sulla giustizia ordinaria (che funziona peggio di quella amministrativa); il nostro Paese non fa conoscere, tanto meno valorizzare, le riforme in via di realizzazione e le buone performance della giustizia amministrativa.

La giustizia civile non è l’oggetto della relazione, se non per taluni riferimenti che seguiranno; ma va subito sottolineato che nel recente periodo molte sono state le riforme decise e soprattutto poste concretamente in essere. Da qui il recupero, come detto, di circa quaranta posizioni nel ranking in solo biennio. Molto rimane ancora da fare, ma la via intrapresa è quella giusta; così da lasciare prevedere ulteriori miglioramenti della nostra posizione nel prossimo futuro.

La giustizia amministrativa manca invece completamente nelle valutazioni internazionali che sopra ho ricordato. Grave lacuna delle ricerche, ma in larga parte dipesa anche dalle nostre carenze di informazione verso il mondo. Ove si fosse tenuto conto dei risultati della giustizia amministrativa, specialmente dopo le due riforme chiave del 2000 (legge n. 205) e del 2010 (CPA), la risalita dell’Italia non si sarebbe fermata al 103° posto del ranking internazionale; specie considerando che larga parte del contenzioso amministrativo ha carattere economico; interesse primario di queste ricerche internazionali. Dicevo che la responsabilità è duplice: di chi ha organizzato le ricerche internazionali; nostre per non aver fatto conoscere adeguatamente la giustizia amministrativa.

Le due carenze si intrecciano strettamente. Per quanto riguarda la nostra parte, pesa negativamente la carenza di un soggetto istituzionale unitario che sia responsabile per la funzione giustizia. La giustizia civile ha una referenza istituzionale nel Ministero della Giustizia, a parte il CSM, che ogni hanno organizza statistiche e raccolte di dati. Vi sono poi circostanze in cui questi dati emergono con compiutezza, come nelle relazioni all’apertura dell’anno giudiziario e nelle periodiche relazioni del Ministro della Giustizia al Parlamento. Le maggiori riforme sono fatte conoscere al mondo esterno con traduzioni almeno in lingua inglese, alla Commissione europea viene fornita un’esaustiva panoramica sulle iniziative in corso. Per la giustizia amministrativa la situazione è assai diversa. Istituzionalmente non fa capo al Ministero della Giustizia; i legami con la Presidenza del Consiglio non includono una verifica di dati e pratiche come per la giustizia ordinaria; la relazione del Presidente del Consiglio di Stato per l’apertura dell’anno giudiziario amministrativo contiene dati utili, ma non completi né articolati per temi; il Codice del processo amministrativo non è stato sinora tradotto ufficialmente in nessuna lingua straniera.

Quindi è abbastanza spiegabile che le ricerche internazionali si sono (colpevolmente) fermate ai dati reperibili nei siti più “facili”, senza approfondire le specificità giurisdizionali e processuali dei Paesi considerati, come per l’Italia la presenza – positiva – della giustizia amministrativa. A questa “pigrizia” dei ricercatori internazionali ha fatto riscontro un comportamento di fatto autolesionistico dell’Italia, che non ha realizzato quasi nulla per far conoscere questa parte, importante, del proprio sistema di giustizia. Da accademico sono critico non solo del comportamento carente delle istituzioni, ma anche di gran parte delle iniziative (quando vi sono) delle Università: i nostri convegni sono spesso “parrocchiali”, ove si trattano anche problemi giuridici importanti, ma per lo più di natura interna; è rarissima la presenza di relatori stranieri; la comparazione è occasionale e, quando prevista, assai discutibile nella metodologia e nell’uso dei risultati. Lo stesso è stato per le ricerche; almeno sino a tempi recenti, quando, sotto la spinta potente dell’Europa, è stato inevitabile aprire l’orizzonte di riferimento.

Nel sistema della giustizia amministrativa un importante segnale positivo è stata cinque anni fa l’istituzione dell’Ufficio Studi della Giustizia Amministrativa, sulla falsariga dell’ottima esperienza della Sezione Studi e Documenti del Conseil d’Etat. Pur nel breve periodo di prima esperienza l’Ufficio Studi ha avviato analitiche ricerche sull’operatività del nuovo Codice del 2010, in genere sul funzionamento del nuovo regime processuale, anche per i vari riti speciali; molti dei quali direttamente afferenti all’economia cui le ricerche internazionali danno una posizione centrale. Meritevoli di nota anche varie iniziative per incontri ed approfondimenti con gli equipollenti giudici dei maggiori ordinamenti europei.

5. Malgrado le positive iniziative ora richiamate, rimane nel mondo la diffusa e pervicace convinzione che in Italia la giustizia da considerare sia solo quella civile; mentre la giustizia amministrativa è del tutto ignorata o malintesa come variante di una tutela amministrativa interna al mondo della pubblica amministrazione. Occorre dunque un nuovo impegno delle istituzioni italiane per far capire la posizione ed il ruolo della giustizia amministrativa, quale componente essenziale del sistema giustizia complessivo; nonché per mettere in luce il buon funzionamento effettivo della giustizia amministrativa, specie per il contenzioso economico (proprio quello che è principalmente rilevante per le organizzazioni internazionali). Ne verrebbe sfatata una concezione presente in varie forze politiche italiane ed in una parte dei commentatori che la giustizia amministrativa ed il diritto amministrativo in generale non siano funzionali ai processi economici del nostro tempo.

La necessaria autocritica per la mancata valorizzazione delle nostre migliori esperienze non deve però portare ad una supina accettazione dell’indirizzo generale che hanno queste ricerche internazionali sulla giustizia. Infatti, gli indicatori principali prescelti riguardano, come detto, il contenzioso economico nella prospettiva della c.d. globalizzazione. Ma la giustizia non è solo contenzioso economico, bensì funzione pubblica garantita a tutti i soggetti che si sentono lesi in un proprio diritto o interesse. Occorre allora orgogliosamente porre in evidenza come una buona parte della tutela“meta-economica” sia stata in Italia tradizionalmente assicurata a tutti, con costi limitati e risultati effettivi; con il solo vero limite dell’eccessiva durata dei processi su cui tra poco tornerò. In breve, una giustizia accessibile, a costi sostenibili, amministrata da giudici di buon livello, che assicura piena garanzia del contraddittorio.

La nostra Costituzione è particolarmente ricca di principi a tale proposito, che, fortunatamente, sono divenute in grande misura realtà effettiva. E’ tra i testi cui si è ispirata la Convenzione dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In un’epoca in cui la giustizia tende a divenire una questione per persone fisiche e giuridiche abbienti, in violazione del principio di eguaglianza, queste caratteristiche del nostro sistema vanno valorizzate in un quadro generale di rivisitazione della questione (e valgono come avvertenza anche per l’attuale Governo, attratto da riforme straniere assai dubbio; esempio le riforme inglesi dell’ultimo biennio; su questo tra breve tornerò).

6. Nella prospettiva nazionale, vediamo adesso se le maggiori riforme della giustizia civile dell’ultimo periodo possono essere richiamate anche come modello per la giustizia amministrativa; secondo quanto molti ritengono necessario.

6.1. Una questione di fondo riguarda il sempre maggiore rilievo delle politiche per deflazionare il contenzioso giurisdizionale; la c.d. “degiurisdizionalizzazione” (l’orrenda parola è del legislatore). Alludo, come potete ben capire, alle forme dette alternative alla giurisdizione – le ADR, per usare l’acronimo inglese più noto – che talora sono vere e proprie “alternative”, talaltra condizioni di procedibilità per l’eventuale successiva azione giurisdizionale.

Anche ammesso che nella giustizia civile le ADR abbiano un rilevante impatto (personalmente sono scettico; ma è presto per avere una posizione ragionata), non mi pare che queste azioni “alternative” siano facilmente esportabili nella giustizia amministrativa; né, prevedibilmente, che siano utili. Le vere ADR implicano infatti una situazione almeno tendenzialmente paritaria tra le parti; laddove i rapporti amministrativi sono caratterizzati dalla presenza di una pubblica amministrazione e, quasi sempre, dall’esercizio del potere pubblico. Anche nel caso di rapporti di diritto comune con la pubblica amministrazione, questa è comunque vincolata al rispetto dell’interesse pubblico cui è preposta; come tale non negoziabile.

Lasciando ai civilisti ed ai civilprocessualisti la valutazione sulle ADR nei loro settori, nel diritto amministrativo l’obbiettivo della “degiurisdizionalizzazione” potrà riguardare solo problematiche ben definite, senza assumere valenza generale; presuppone la previa realizzazione di altri strumenti di tutela non giurisdizionale, del tipo dei britannici Administrative Tribunals; soprattutto implica una pubblica amministrazione efficiente, esperta, di qualità.

6.2. La “degiurisdizionalizzazione” nel contenzioso con la pubblica amministrazione potrà meglio porsi con strumenti diversi dalle ADR civili; principalmente con nuove forme di tutela amministrativa; certo diverse dai tradizionali ricorsi amministrativi, che non hanno dato buona prova. Questa via è indicata anche dall’Unione europea, che in nuovi campi di intervento – esemplare il caso della recente unione bancaria – ha previsto vari rimedi amministrativi, peraltro non veramente “alternativi” all’eventuale garanzia giurisdizionale, ma strumenti di prevenzione tramite decisioni “tecniche” affidate ad organismi altamente qualificati, senza una predominanza di membri giuristi.

La proposta di “riscoprire” la tutela amministrativa non è certo originale, ma sembra indubbiamente tuttora valida ancorché le molte idee non si siano per il momento coagulate su posizioni condivise e, soprattutto, praticabili. Inoltre trova nuovo supporto nell’esperienza dell’Unione europea, ove, oltre al caso appena richiamato dell’unione bancaria, stanno emergendo vari procedimenti amministrativi giustiziali (come dimostrato da una recente ricerca pubblicata nella Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico).

A mio parere, pur condividendo l’obbiettivo, non ritengo che in Italia vi siano per il momento le condizioni per un sistema funzionante di “nuovi” ricorsi amministrativi; principalmente per lo stato carente della pubblica amministrazione (si ritorna qua ad una delle considerazioni iniziali sul rapporto tra giustizia amministrativa e nell’amministrazione e carattere della pubblica amministrazione). Nell’attesa, auspicata, che le riforme amministrative diano esiti significativi, occorre massimizzare le garanzie nel procedimento amministrativo, valorizzando le già ampie opportunità offerta dalla presente disciplina e utilizzando quanto si intravede dall’attuazione della legge n. 124/2015 con i molti decreti legislativi prossimi a definirsi.

Occorre comunque tenere presente che le politiche deflattive del contenzioso giurisdizionale non devono portare a marginalizzarlo. Lo vieta, tra l’altro, l’art. 19 del Trattato Unione europea, che sancisce che la tutela giurisdizionale è indefettibile (“gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva”). Il principio vale ovviamente solo per i settori disciplinati dal diritto UE; ma indica una direzione di fondo di sicuro rilievo anche per le materie non ancora “comunitarizzate”.

6.3. Una seconda politica deflattiva del contenzioso è consistita nell’aumento dei costi di accesso alla giustizia; dapprima per il contenzioso civile. L’innovazione ha poi coinvolto la giustizia amministrativa, facendo qua particolare danno. Infatti, i rilevanti aumenti generali sono stati ulteriormente maggiorati per il contenzioso economico – come il rito appalti – non solo per deflazionare il contenzioso, ma anche per definire al più presto i rapporti di appalto e concessione. La maggiorazione è però così gravosa da indurre molti potenziali ricorrenti ad abbandonare le proprie opportunità di tutela. L’effetto deflattivo si è dunque verificato al più presto, ma occorre chiedersi se in questo modo non si sia violato il principio costituzionale (ed europeo) della garanzia di tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi, nonché il principio di eguaglianza.

Per tali motivi il TAR ha rimesso alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale chiedendo l’interpretazione del diritto UE degli appalti che sembrerebbe assicurare piena tutela giurisdizionale agli interessati, pur in un equilibrio con l’interesse pubblico ad una rapida definizione dei rapporti, evidente soprattutto nella fase cautelare. La Corte ha risposto in modo alquanto ambiguo: da una parte cercando di non porre troppi vincoli al Governo riformatore, perché ha considerato la questione eminentemente nazionale; dall’altra ha comunque sanzionato un uso eccessivo dei costi di giustizia dopo l’instaurazione dei ricorsi (ad esempio per quanto riguarda i costi per motivi aggiunti), legittimando la disapplicazione della normativa nazionale sul punto (come già anticipato da alcuni illuminati TAR).

6.4. Una terza riforma della giustizia ordinaria ha riguardato la geografia delle sedi giudiziarie, razionalizzata notevolmente. Lo stesso è avvenuto poco dopo per le sedi dei TAR, però con risultati assai meno eclatanti che per i tribunali ordinari. La ragione sta qua nelle particolarità della geografia dei tribunali amministrativi rispetto a quella dei tribunali ordinari. Questi ultimi sono stati sinora articolati sul territorio secondo antiche tradizioni, molte volte superate dal corso della storia; i TAR nati solo nel 1972, regionali e quindi centralizzati per definizione, eccezionalmente articolati per sedi distaccate (peraltro previste nella stessa Costituzione, art. 125).

Sarebbe stato impossibile per la giustizia amministrativa un ulteriore squeezing delle sedi distaccate, a meno di non violare il criterio della “prossimità” tra il richiedente giustizia ed il giudice, già di regola regionale, e di non intasare fuor di misura le sedi maggiori. Vi è semmai il problema – sempre finora eluso per ragioni di eccessiva deferenza per le autonomie locali – dei due Tribunali amministrativi di Trento e Bolzano, la cui distinzione/articolazione non ha più vera ragion d’essere, bel potendo le specifiche esigenze (a partire dal bilinguismo) essere assicurate anche dal loro accorpamento. In disparte la delicata questione della loro composizione, che non pare rispettosa della Costituzione.

6.5. Qualche considerazione, infine, sulle riforme della giustizia civile per valorizzare la specializzazione dei giudici e così migliorare la qualità della funzione; ovviamente ancora nella prospettiva della comparazione con la giustizia amministrativa.

Nel giudizio civile stanno dando una buona prova i tribunali delle imprese, composti da magistrati qualificati, selezionati attraverso una procedura che ha ben funzionato, operanti con norme processuali capaci di assicurare tempestività ed efficacia delle decisioni. Ritengo che anche nella giustizia amministrativa si debba procedere verso una maggiore specializzazione dei giudici; ma tenendo presente che già nel Consiglio di Stato ed in parte nei TAR esiste un sistema per competenza funzionale delle sezioni, che assicura buona parte delle esigenze presidiate nel giudizio civile dai tribunali delle imprese. Inoltre, come si dirà tra breve, le norme del processo amministrativo hanno specificità di rilievo per quanto riguarda il contenzioso economico ed altre materie “sensibili”.

6.6. Il tema della specializzazione si lega strettamente a quello dei tempi della giustizia: il “male” più grave del sistema giustizia in Italia, comune tanto alla giustizia civile quanto a quella amministrativa.

Diceva nell’800 un grande giurista e politico inglese, William E. Gladstone, che “justice delayed is justice denied”. Se questo principio è inconfutabile, il caso italiano è veramente impressionate in senso negativo. Basti considerare che nella giustizia civile vi è un arretrato di oltre quattro milioni cause. In proporzione è lo stesso nella giustizia amministrativa.

Per quest’ultima, con le riforme del 2000-2010 si è cercato di sopperire a queste gravi lacune sulla durata dei processi. In particolare, il “rito appalti” è stato rimodellato in modo così rapido da mettere alla prova le capacità degli avvocati e dei giudici per la gestione delle particolari procedure. Ma l’espansione dei riti speciali anche oltre la materia dei contratti pubblici non ha certo assicurato miglioramenti nel resto del contenzioso, nei giudizi ordinari; così dando vita ad una sorta di doppia corsi fortemente differenziata. Il rischio è di giungere ad una disparità di trattamento processuale, non del tutto giustificata dall’interesse pubblico alla definizione del contenzioso economico.

6.7. Altre innovazioni processuali più specifiche, e forse più incisive, potrebbero tentarsi al di fuori del terreno scivoloso dei riti speciali. Ad esempio, come vado sostenendo da tempo – finora senza esito – l’introduzione di un giudizio preliminare di ammissibilità/procedibilità e sulla configurabilità del fumus dei ricorsi giurisdizionali amministrativi, anche da parte di un giudice monocratico; ovviamente con idonee garanzie. Un istituto simile a quello inglese del leave che così buona prova ha dato da tempo.

La questione dell’arretrato non è comunque solo un problema di norme processuali, più o meno adeguate, ma anche di capacità di amministrare giustizia secondo elementari criteri di economicità, efficienza ed efficacia. A nessuno può infatti sfuggire come, a parità di condizioni, certi tribunali assicurino performance di qualità, ben sopra la media. Occorre dunque che le posizioni dirigenziali della giustizia siano attribuite ai più meritevoli, non solo in diritto ma anche nell’organizzazione dei propri uffici.  

7. Per concludere, va riconosciuto a merito degli ultimi Governi di aver riattivato incisive riforme della giustizia ordinaria; mentre quella amministrativa era stata già rivista in profondità dal 2000. Molto resta da fare, ma la strada imboccata e, nel complesso, quella corretta e risulta irreversibile.

Attenzione però a non utilizzare le riforme della giustizia civile come un parametro necessario per le corrispondenti iniziative per la giustizia amministrativa; come il caso delle ADR ben dimostra. La scelta costituzionale per confermare il doppio sistema della giurisdizione è stata confermata positiva dall’esperienza dei sei decenni successivi. In particolare, il diritto amministrativo è risultato appropriato per controllare il potere pubblico e per assicurare pienezza di tutela ai diritti ed agli interessi dei singoli; anche nel nuovo scenario del diritto europeo.

Rimangono sullo sfondo alcune questioni di fondo, la cui soluzione non sembra prossima; anche perché in certi casi di rilevanza costituzionale. Due in particolare vanno richiamate ai fini della presente trattazione: il fondamento de riparto di giurisdizione ed ruolo della Cassazione quale giudice della giurisdizione; la funzione di nomofilachia e la prevedibilità delle decisioni giurisdizionali. Nell’area mondiale del diritto, e davanti ai fenomeni di “forumshopping”, questi fenomeni assumono carattere sensibile. Come detto, la soluzione non pare imminente; ma non sembra il caso che tali principi siano erosi dal didentro, in particolare ad opera del diritto UE, anziché come doveroso.

Bibliografia selezionata

Il tema dell’efficienza della giustizia amministrativa è trattato in una sterminata messe di studi; lo stesso, ovviamente per il versante della giustizia civile. Si citano dunque i testi direttamente utilizzati per la relazione:

OECD (OCSE), What makes civil justice effective?, 18.6.2013; European Commission, The 2015 EU Justice Scoreboard, COM(2015)116 final; V. Italia, Le specialità nelle leggi, Giuffré, Milano, 2016; Id. , Le “linee guida” nelle leggi, Giuffrè, Mlano, 2016; G. Salvi-R. Finocchi Gheri (a cura di), Amministrazione della giustizia, crescita e competitività del Paese, Astrid, Passigli, Firenze, 2012; A. Pajno, Giustizia amministrativa e crisi economica, in Riv. it. Diri. Pubbl. com., 2013, 951; Id, Nomofilachia e giustizia amministrativa, ivi, 2014, 345; Id., I ricorsi amministrativi tradizionali: una prospettiva non tradizionale, ivi, 2015, 747; M. P. Chiti, Evoluzioni dell’economia e riassetto delle giurisdizioni, ivi, 2015, 713; Id., Il Consiglio di Stato e la giustizia amministrativa nella considerazione degli “altri”, in Il Consiglio di Stato, 180 anni di storia, Zanichelli, Bologna, 2011, 661; G.P. Cirillo, La frammentazione della funzione nomofilattica tra le corti supreme nazionali e le corti comunitarie, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2014, 23; L. De Lucia, I ricorsi amministrativi nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2013, 323; M. Ramajoli, Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie pubblicistiche, in Dir. Amm., 2014, 1; Diritto amministrativo ed economia, Atti del 60° Convegno di Studi Amministrativi, ES, Napoli, 2015; G.D. Comporti, Dalla giustizia amministrativa come servizio, Studio per il Convegno “A 150 anni dall’Unificazione amministrativa, in corso di stampa.

Mario P. Chiti - Judicial and Political Power – Where is the Dividing Line? A Praise for Judicialization and for Judicial Restraint

1. “The least dangerous Branch”?

In a well known essay of 1788 published in the Federalist, Alexander Hamilton (alias Publius) wrote: “If we consider the different departments of power, the judiciary, from the nature of its functions, will always be the least dangerous [branch] to the political rights of the Constitution; because it will be the least in a capacity to annoy or injure them (…). The judiciary can take no active resolution whatever. It may truly be said to have neither force not will, but merely judgment; and must ultimately depend upon the aid of the executive arm even for the efficacy of its judgments. (…) The simple view of the matter proves incontestably that the judiciary is beyond comparison the weakest of the three departments of power; that it can never attack with success either of the other two branches of government, and that all possible care is requisite to enable it to defend itself against their attacks. It equally proves, that though individual oppression may now and then proceed from the courts of justice, the general liberty of the people can never be endangered from that quarter”.

The view of Hamilton on the judiciary as “the least dangerous branch” had sound grounds in the political thought of the eighteenth century. In spite of his mollified and somewhat abstract vision of the separation of powers, Hamilton’s position has been shared extensively, becoming a sort of “vulgate” on the role of judiciary in all jurisdictions.

In truth, just a few years after the publication of no. 78 issue of the Federalist, the US Supreme Court demonstrated that judges were a branch of power with teeth.

In 1803 the Supreme Court delivered the famous judgment on Marbury v. Madison1, renowned not for the rejection of the Marbury claim due to procedural reasons (under art. 3 of the Constitution the jurisdiction of the Supreme Court must be appellate, not original as assumed by Marbury), but for the celebrated statement “it is emphatically the province and duty of the judicial department to say what the law is”, and that “being the Constitution superior to any ordinary act of the legislature, the Supreme Court may strike down congressional acts and may invalidate executive acts based on such law and bind the Congress and the President to their decision”.

The opinion written by Chief Justice Marshall was at that time mostly considered a political position more than a legal statement, to be explained in that peculiar period when the Federalist Group aimed to politically annihilate President Thomas Jefferson via Madison. Over time, the judgment has shown its full importance, becoming one of the landmarks of the Supreme Court’s jurisprudence stating the role of federal courts as supreme in the exposition of the law of the Constitution, and the duty of the legislature to follow the Supreme Court’s interpretation.

Although not fully grounded, the strong doctrines are lasting and can be recalled after a long duration. The same Supreme Court has just recollected the Marbury case in a recent judgment of 2001 (United States v. Hatter2) and used Hamilton’s view considering that the guarantees for the judicial independence are quite necessary since the judiciary is still the weakest of the branches of power (opinion written by Justice Breyer3).

In the same mood, even facing an evident enlargement of the judicial role, a good part of the recent doctrine/legal science stresses the modest intrusion of the judiciary, in regard of the case by case method; even their jurisprudence is flexible and capable of a self-evolution (in patent contrast with legislation). Apart from the constitutional courts, these scholars consider that in general the judiciary treat issues of relative low relevance or of low politics; they operate in strict legal boundaries (not operating for the legislators, who establish the limits and who are subject only to the constitution). Their judgments may be reversed by Congressional or parliamentary acts and by the executive as well, at certain conditions, even when they form a consolidated jurisprudence.

The traditional view has not changed mostly also considering cases when judges patently operate as “legislators”; as where relevant authorities are lacking or the law is particularly obscure. In these cases the judges are considered just as “occasional legislators”4, who do not put at risk the general equilibrium of public powers, and do not invade the legislative field because they just fill juridical gaps, lacunas and solve uncertainness. Only in such peculiar cases “they will be national rulers rather than the law’s servant”; but in any case they remain subject to the ultimate decisions of political power5.

2. Myth and Reality

The influence of the “Hamilton doctrine”, even though not well grounded, as we have seen, has been powerful and lasting; but in the long term it has resulted in a misleading account of the interpretation of the American and European constitutional systems in the last decades. Moreover, it has given floor to an opposite view on the judicial role, in its turn excessive and not convincing. A typical example is the theory of the “Rule of Justices” by Robert Bork6 that I shall examine in the next pages.

Apart from these extremist views that will be examined later on, other important scholars have recognized that over time the role of judges is much more relevant than in the “vulgate”.

This evolution is correctly named as “judicialization” of the constitutional system, as “process of mutation of the role of judicial power with its growing capacity to shape strategic behavior of political actors”7.

Without any doubt the judges are treating “political” cases, that is to say cases which are highly relevant for the institutional and social life of each jurisdiction.

As for many other crucial features of the western systems, just after three decades since the Federalist, Alexis de Tocqueville noted in his “The Democracy in America” that “there is almost no political question in the United States that is not resolved sooner or later into a judicial question”8. His convincing remark could easily be expanded to the legal orders of Europe.

Since then, the trend for judicial empowerment has constantly developed in the national jurisdictions, with periods of greater acceleration as in the USA at the New Deal era; and in Europe in the post-war period of nationalization and planning law. More recently, a similar approach is evident on the privatization policies and in facing the many controversies caused by the new public policies named as the “retreat of the State”. An even clearer attitude is manifest facing the present financial and economic crisis in several countries.

However, the most influential judges – such as Chief Justice Roberts of the US Supreme Court - insist to affirm that the courts “do not consider whether the Act embodies sound policies. That judgment is entrusted to the Nation’s elected leaders” (in National Federation of Independent Business v. Sebelius 9).

In truth, in the last decade most part of political and institutional issues once reserved to politics and to legislators are handled by the courts under substantive compliance by the politicians.

This development was expected at national level and clearly foreseen in the European Community, as a supranational system which takes up some crucial competences of the member States. On the contrary, the judicialization in international law has been quite new and in part not a foreseen phenomenon. In a short time, dozens of new courts and judicial bodies have been established.

In order to understand this trend correctly, it is necessary to verify the reasons of the judicial empowerment.

3. The judicial empowerment

In the national jurisdictions the main reasons of judicial empowerment are: the complexity of public powers, not three as in the traditional view, but in reality forming a galaxy of players10; the enlarging and deepening of executive implementation, with the consequent necessity of judicial review; pluralism coming out from devolution, regionalism and the overlapping of powers between the State and other bodies; the fragmentation of the sources of law, far away from the classic and easy picture of the sources of law; the emergence of new public interests never considered in the past. Last but not least, the substantive will of politics to delegate controversial choices to the judiciary.

I believe that it would be correct to extend to the major western jurisdictions the remarks on the role of judges that Lord Woolf expressed some years ago11, based on the British experience. According to Lord Woolf, the enlarged role of judges is inevitable when checks and balances are not working properly, as in periods of governments with a strong parliamentary majority, or where, at the contrary, the political system is highly fragmented (coalition governments, devolution, etc.). In this perspective, even going beyond the model of private rights jurisprudence, the judges do not encroach upon any power, nor do they act illegally or express particular political positions. They just execute the constitutional mandate to guarantee the institutional equilibrium and the rights of citizens against a power otherwise unlimited, virtually tyrannical.

Due to these concurring elements, the judicialization of politics has resulted inevitably. Today we can see almost everywhere an “ever accelerating reliance on courts and judicial means for addressing core moral predicaments, public policy and political controversies”12 (R. Hirschl, Towards Juristocracy). Even issues of mega-politics are committed to the courts: electoral proceedings, great infrastructures, environmental protection, planning decisions, national security, migration and asylum, etc.

As said, the judicial empowerment is evident also beyond the national jurisdictions.

In the European Union, the most genuine supranational legal order, the Court of Justice (ECJ) has been assuming a creative role in developing the constitutional principles and the general principles of community law; of course, it is a role silently accepted by the member States as an effective compensation with the difficulties of a straight forward process of integration.

Also in international law the new courts are indirectly called to define the legal model, even treating particular cases (with the exception of the International Court of Justice). As demonstrated by R. Hirschl, “transnational tribunals have become the main loci for coordinating policies at the global and regional level, from trade and monetary issues to labor standards and environmental regulations”13.

Both in international law and supranational law the courts are working as a constituent power, as to give a substantive contribution to shape the main constitutional features of the legal orders14.

Then it is understandable that some commentators consider this peculiar role of judges as anomalous both under the traditional view (Hamilton doctrine) and under the democratic theory. As the latter, this role is even pathological, as carried out by persons not elected and politically unaccountable.

The most critical of commentators speak of a “Rule by Justices” (A. Bork), of a judicial tyranny. Other more benevolent critics speak of a “Juristocracy” (R. Hirschl); but about the wise judges it has been said with sarcasm that “the dictatorship of virtuous has often led to inquisitions and even witch hunts” (H. Kissinger15).

4. Legalism and its Critics

The judicialization is considered the most remarkable achievement of legalism. This term expresses the view that law and legal institutions can keep order and solve hard policy disputes16. It is a theory which considers the law as connected to moral and political issues, ordered trough legal categories whose interpretation is reserved to judges and lawyers.

Legalism does not have just a domestic scope; on the contrary it implies an evident cosmopolitanism17. Actually, there are values, principles and general rules which cannot be violated under any circumstances, as they represent a higher law. For the legalistic doctrine, therefore, it is not only possible, but necessary to extend the same ideas to the international legal dimension, where law can solve most of collective problems or improve their solution in a better way.

As we can understand easily, the passage from the critic to judicial empowerment to a harsh evaluation of legalism, and of excessive use (or abuse) of law has been rapid. The critics underline that legalism is close to a mystique of law, gives space to formalism, to an orthodox legal reasoning, to the Rule of Law as a metaphysics of law. So intended, legalism risks becoming a mere rhetoric of law as an end in itself. This is in absolute contrast with the crudity of the power of men.

However, the critic of legalism takes two rather different positions: the pragmatic one and one focused on a harsh legal realism, that is one based on mere power relations.

According to the pragmatic doctrine, “judicial action is neither a mechanic interpretation of constitutional words nor a willful assertion of judges’ values. Instead the judicial action should be the principal process of enunciating and applying enduring values embodied, even not sharply defined in the Constitution”18.

As said by Justice Richard Posner in reference to the USA, but with sound arguments also valid for many other jurisdictions, “the falsest or false dawns is the belief that our system can be placed on the path to reform by a judicial commitment to legalism - to conceive the judicial role as exhausted in applying rules laid down by statutes and constitutions or in using analytic methods that enable judges to confine their attention to orthodox materials and have no track with policy”19.

The second group of critics, who may be named as “realists”, considers that law and legal institutions have prestige only if they work in a highly effective manner; and this is possible only in a framework of legally developed jurisdictions, as the States. At the present and for some time more, international law is still lacking established and firm institutions; this prevents a serious role for legalism outside the States.

The remarks are at the same time an account (in truth not very accurate) of the international scene, but mostly grounds to prevent further enlargements of strong international organizations, in part created by the hands of the State.

Actually, the contrast between legalism and its critics is particularly strong in international law, which realists consider a simple amount of the States’ interests; a rather coordinated complex of rules deriving from the States acting in their interests, where the relations are bases on bilateral, direct agreements. Whereas the “legalists” believe that international law has a dimension which goes over the States’ interest, assuming the equality of sovereignty and the existence of universal human rights. To the legalists, law and courts are able to ensure order and solve even political issues; in particular, the courts can fill lacunas in international law and provide original occasions of cooperation among the jurisdictions.

5. The Multilevel and Multilayered Judicialization. The European “Exceptionalism”

At a distance of more than two centuries from the Federalist, when criticism of judicialization is the prevailing mood, when the judiciary are almost considered the “most dangerous branch” of powers, I believe that this is an appropriate time to take stock on these issues.

Firstly, it is necessary to distinguish between the constitutional and the political role of the courts; roles that are often confused.

Judge-made law is ‘political’ when resulting from cases which are political by nature: electoral proceedings, decisions on infrastructures of national importance, human rights, bioethical issues, etc,). Acting on these peculiar controversies, the judges de facto take part in the public discussion actively; but not necessarily with a biased attitude or ones expressing tendentious positions20.

On the other side, the jurisprudence is “constitutional” when it interprets and implements the constitution, as higher law. Also this jurisprudence is “political” in a generic meaning; but its peculiarity is that it has the Constitution and the values there embodied as a legal parameter.

Secondly, in the present world heavily manned by courts, the issue on judicialization cannot be considered as a whole without qualifications and distinctions and further detail. The main distinction is related to the three levels of jurisdiction: national, supranational and international. Of course, these levels are not sharply distinct and impermeable; it is known that the legal space is now global and interactive among the many players; it is also known that there exist various “passerelle” principles elaborated by the courts to connect different jurisdiction, as a principle of “margin of appreciation” about the ECHR for the Council of Europe. But the constitutional features of the three legal models (States, Supranational and International Organizations) remain different.

Thirdly it is necessary to clarify the true meaning of legalism: is it the law of rules and mere technicality, full judicial review of public acts or abstract rhetoric of a vague but substantive Rule of Law? Moreover, is it just a domestic legalism focused on national courts which are capable of producing an effective and consistent jurisprudence or is it, as I think, a cosmopolitan legalism which stresses the universality of human rights and does not distinguish the rules according to the scale of powers and the capacities of persons?

Fourthly, we must ascertain if the judiciary may be interpreted according to the traditional doctrine of democratic legitimacy, as for the other two main branches (legislative and executive). Also this issue must have an articulated solution, according to the three levels of judicial operation.

A last and not least question concerns the nature of the new international courts: are they full judicial bodies (as independent and impartial bodies) or are they in an ancillary position to the national chancelleries, some of their “adjuncts”21 ?

 

5.1. The new dimension of judicialization

 

In domestic legal jurisdictions, as we have seen, the judges have enlarged their role. Everywhere, besides the traditional power of private adjudication it is firmly established that judicial review supervises public action. Moreover, the courts decide cases of patent political (sometimes mega-political) character.

However, the other main branches maintain power for conditioning and limiting the judiciary. Let us think of the procedural rules, recurrently amended by the legislators under the impulse of the executive (i.e. rules on standing; access to justice); to discipline of the judges’ professional life (length of the mandate, conditions of working). But let us consider also the power to reverse and consolidate jurisprudence, surely possible in civil law countries; and that a large corpus of judgments cannot be implemented or enforced without the support of executive power.

Therefore we can say obviously that the national courts have acquired a relevant role; which sometimes is political, but in developed constitutional systems rests on the base of an implicit agreement with the other branches power. At any moment the agreement can be set aside by the legislature (and partly by the executive) which reassumes its decisional supremacy.

The national judges, moreover, are part of a wider European and international judicial network; so that on many relevant occasions their decisions are influenced or even limited by higher law declared by ultra-national judges.

The most obvious example of this kind is European Union law, trough the procedure for preliminary ruling in cases where it is argued about the applicability and/or interpretation of European law.

Also in international law there are cases where national judges are bound by the decisions taken by the new international courts. This is certainly the case, for example, of the Appellate body of WTO.

In short, even though national judges have acquired a powerful role they remain conditioned by other public powers, as in the constitutional tradition. Moreover, they are influenced by new contacts/relations (networking) with the European and international courts.

5.2. Judicialization in the EU

As proposed, the discussion about politicization of the judiciary must take into account the different models of judicial systems beyond the States; the “ultra-state” judiciaries. First of all, the judiciary of European Union whose role is different from that one of the national judges.

The European judges operate in an environment which is as legalistic and coherent as the national ones; but the constitutional model of EU law is quite original, as is well known. Even after the recent evolutions, this model is still based on the “Community method” slightly redefined, as where the law-making process involves the power of the European Council for providing the necessary impulse for the developing of the Union and the general political guidelines, then detailed by the Commission; the power of the Parliament and of the Council to approve it and - particularly relevant in our perspective - the power of ECJ to review it.

The primary task for the Court of Justice is not adjudicating, but - under art. 19, para 1, Treaty on EU (TEU) - “ensuring that in the interpretation and application of the Treaty the law is observed”. Obviously, European judges decide also on the appeals lodged by the Member States, Institutions, natural and legal persons; but first of all they must uphold the Union and fill the wide spaces that are not well defined by European law. Technically, these are not legal lacunae because the Union has just attributed competences; but grey areas where European law is developing progressively.

We must draw a further distinction between the role of ECJ and the General Court. The latter operates with a method which is close to the one used by national administrative judges, adjudicating particular cases raised mostly by private interested parties. Of course, the General Court may occasionally contribute to shape general principles - as in the Kadi case (T-315/01)22 on measures to contrast international terrorism, with a judgment then reversed by ECJ (joint cases C-402/05 e C-415/05) - but its decisions are normally very specific. Differently, the ECJ was and still remains the constitutional driving power of European law, both deciding preliminary ruling cases and appeals against judgments of first tier.

The recent developments consequent to Lisbon Treaty do not lower the role of ECJ, and neither imply a return of the European judges to their “barracks”. But the new rules should lead them to a greater self restraint on highly controversial issues.

Further occasions for strengthening ECJ role come out from the recent wave of preliminary ruling proceedings raised by some national Constitutional Courts. As we can understand, it is a special occasion for a constitutional conversation (called also an European constitutional concert) which is producing a common attitude at the higher judicial level.

Even to the most sceptical observers of the ultra-national courts, the ECJ’s experience appears a success story in the process of European integration23. A role that I consider typically “constitutional”, and in some cases also as “constituent”.

At this occasion, I shall confine myself to underline the argument that ECJ judges have been the real Masters of European law; a role that they are maintaining also today and probably one that will be maintained in the future.

To describe this model, I would like to use the expression “European exceptionalism”. “Exceptionalism“ is often used to exploit the particular position of the USA in the world, one that extends beyond the legal dimension. I believe that the same expression could be used for the European Union, even in a time of disaffection to the Union. The inspiring principles of the Union (respect of human dignity, freedom, democracy, etc., art. 2 TEU) are not just formal principles written in the Treaties as on the sands, but they are legally binding obligations (as under art. 3, para. 5, and art. 21, TEU), enforced by the Institutions and reviewed by the Court. The Union operates as a value-based supra-national player, and it shall guarantee those principles inside its borders in an Area of freedom and justice.

5.3. Judicialization in international law

The third case concerns international courts, and it is the most discussed and controversial topic.

Traditionally, international law – being elaborated, approved and executed by the States; in the whole, firmly in their hands - did not know a proper international system of remedies and courts. Disputes were treated by diplomacy, once the sword had been set aside. Only general controversies between States were considered legally relevant.

This model was followed also in 1945 when the International Court of Justice was established as part of the UN framework; even if the Court represented a real innovation at the international level, partly overcoming the bilateral diplomatic method for solving controversies, according to the largely accepted view that “International affairs are too important to be left to diplomats alone”.

The scenario has deeply changed in the recent period. Dozens of courts and similar bodies have been established: full judicial bodies, quasi judicial bodies, consultative bodies, etc. These new courts operate at global or regional level; they do not have any hierarchy, neither clear relations among them. Some time there is standing for private parties; but when this is not allowed, the States can support their claims. International courts form a judicial galaxy which conceals important differences, and which remains obscure if not clarified adequately. Let me take two examples by way of illustration: the judicial system of WTO and the European Court on Human Rights of the Council of Europe.WTO has mostly abandoned the tradition of international law, where the States are the Masters of the treaties, having many features of a supra-national organization. Also their courts are different, forming a full judicial system, articulated at two levels, which intentionally has abandoned the previous GATT model, based on optional arbitrations. The new WTO judicial model is open to the litigation brought by States, but de facto it is open also to private parties when States consider their positions as having general interest.

The evaluation on the WTO dispute settlement model is unanimously positive after two decades of experience. The commentators we have called “realist” believe that this positive view depends on the substantive consideration by the judges of the real weight of the litigant States and the strength of relations between them. Other commentators - quite negative on this experience - consider that WTO is essentially a club of developed world, which talks the language of globalization, but this is a globalization that emanates from the North and remains under its control24 . In brief, the third of an “unholy Trinity” of global economic institutions with the World Bank and the International Monetary Institute25.

The second example, the European Court of Human Rights, is quite different to the WTO courts. Under the Convention for the protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, the Strasbourg Court is a body of an international organization, but - as you know - the Council of Europe has institutional ambiguities, as it is deeply imbricated in the Member States’ jurisdictions and connected with the European Law under art. 6, para 2-3, TEU.

As regards the relations with the Member States’ jurisdictions, an illuminating case is the Italian one. The Constitutional Court has considered that the ECHR integrates the primary constitutional law of the Country as a source of second constitutional level (“norme interposte”); as such, it binds acts of Parliament, but it must respect the Constitution in the whole and not only its fundamental principles as in the case of European Union law (judgments nos. 347-348/2007)26.

It is discussed whether the Convention is directly applicable in the Member States; in that regard the Court of Justice has recently stated that the Convention will be not directly applicable until the completion of accession to the ECHR under Art 6 TEU. Therefore, at the moment the Convention can be just an inspiring source of law for national judges and a generic support for their findings; as it was the case of the Charter of Fundamental Rights before its full recognition as primary law of the Union (art. 6, para. 1 TEU).

The third relevant character of Court of Strasbourg relevant for this paper is the fact that it is open to the private parties’ appeals. Actually these appeals are the greatest part of the litigation before the Court.

Obviously, the Court is accessible also for non EU citizens, if citizens of the Convention’s member States (as Russia or Turkey). A good recent example is the appeal raised by shareholders of Yukos, a Russian Company nationalized by that State, judged by the Strasbourg Court in two cases (20.9.2011, emended on 17.1.2012, and 1.8.2014)27. The Yukos case is important because it has been treated by other courts and arbitration bodies28.

6. Ambiguities of the new international Courts

The examples we have considered show a great variety of courts at the international level29. However there is a common thread which links all these experiences: the global polity is increasingly dependent upon the courts, which secure adequate consistency to a global system not yet finished, giving systematic position to rules which are different in their origin and legal character to national ones30.

What is there that is more “constituent” or “political” about the international courts ? May we affirm that after the passage from (brutal strength) relations based on the sword to the diplomacies it is now the turn of gowns and lawyers?

The answer is positive only in part. The main international issues are still treated directly by the States, sometimes even using force. The International Court of Justice does not work adequately mostly due to the opposition of the powerful countries to maintain their oligopolitical power. Its experience expresses a crash between the ideal of a global legalism and the material reality of politics.

On the other side, the most sensible economic litigation is attributed to the courts, which, from this apparently secondary task, have been able to develop a body of common principles, part of a new global law which once was totally monopolized by politics.

Quite peculiar, as seen, is the role of the European Court of European Rights. Its competences are primarily not economic, but focused on the protection of the rights enshrinded in the Convention. In this way the Court gives a daily decisive contribution to a new set of general principles of universal value.

To sum up, we can agree with Sabino Cassese31 that the global polity is becoming increasingly dependent on the judiciary at all levels. In particular, the developing global law finds its grounds in the remedies provided at international, supranational and national level.

However, I believe that even in these fields the judges are not true law-makers, because they are not operating in a normative vacuum. Their mission is to give order to the great variety of rules, to clarify the legal relations among jurisdictions; in a few words, to help to build a system as far as they are able.

The relevance of international courts, despite their peculiarities in comparison with the national judges of the judicial tradition, may be seen from the rude reaction of some legal scholars and political scientists, mostly American.

A model position is expressed by Eric Posner in his book “The Perils of Legalism”32, the epilogue of two decades of researches. According to Posner, legalism does not fit in properly with international law because in this context strong institutions do not exist, due to the conscious will of the great powers. To Posner it is just a mirage that the new courts are allowed to elaborate a global legal order; which, moreover, is a mirage in itself, a pseudo-legal order because it is unreal that there might be legislations without legislators, enforcement without enforcers, adjudication without traditional courts.

As said this position - not unique, as demonstrated by other well known scholars as Robert Bork - unveils a precise policy of the great powers not to invest political and personal capital into strong international institutions. When these institutions are necessary, as in the case of the International Monetary Fund, they remain under strict control.

In any case, Posner and friends are more honest than those who “routinely preach the virtues of law, while exempting themselves from many of its constraints” (M. Mazower)33.

If the new courts are not appreciated by lawyers who express the interests of the major countries, the correct criticism on this experience has opposite grounds: in general international courts are not really independent as required for a full judicial body, being subject to the will of the major countries, which shape their organization, composition, members’ appointment, procedural rules and so on.

At the moment - but probably also in the future - the new courts have mostly the form, rather than the substance, of real courts. This is particularly evident for nomination and appointment of the international courts’ judges. They are selected from a homogeneous international elite, who share the same values and legal criteria. Their jurisprudence is largely predictable and never seen as a threat to the basic interests of the main countries. It is not extreme to say that the new courts are ancillary to the main States.

The legal science, so far, has been captured by the positive novelties of the courts; only giving any serious attention to the disputable issues. But “All that glistens is not gold”. My proposal stands for a more comprehensive view of the new international courts, on standards comparable to those used for the national courts.

7. Some final remarks

Let me try to put order on these reflections and to get a conclusion, if possible in times of great evolution and huge confusion.

I have five final remarks, open for the presentation.

Firstly. The doctrine of a feeble judicial branch has definitively faded away. Probably, this doctrine has never been correct; as unreal and ideological. However, today, it is undisputable that the judges have a dominant role in setting policy and taking part in all major institutional and social issues. But the size of judicial empowerment and its consequences are different according to the kinds of judges.

To date, domestic judges have assumed a clear political role; but always operating in well defined constitutional systems and observing the limits drawn by the other branches.

The peculiar judicial role is even wider in the EU due to the characters of this supranational jurisdiction, where the Court of Justice has been decisive for the European legal integration and in establishing the European Community and then Union as “a Community of Law”. They are still participating actively at the building of the European “constitution“, due to the special features of this constitution as a model of constitution in progress.

Secondly. The judges’ competence is not limited to private rights adjudication; they control public power trough the judicial review procedure, so as to perform a constitutional duty to balance the different branches of power. Again the EU model is peculiar, as indicated by art. 19 of TEU: “the Court of Justice shall ensure that in the interpretation an application of the Treaty the law is observed”.

Even if the judges’ power could be significant, it is ridiculous to speak of a judicial dictatorship, of a “Rule by Judges”. Judges are lions, but they remain lions under the throne or Parliamentary mace.

Thirdly, legalism must not be intended as a negative, pejorative notion meaning formalism, passive legal orthodoxy, the idyllic power of laws and not of men. But as the living experience on earth of the Empire of Law, which works effectively protecting democracy against the tyranny of majority rule trough constitutionalization and judicial review34. The courts are the capitals of the Empire of Law and the judges its protectors35

At least in the European legal space the principles commonly intended as forming the Rule of Law are effective, respected, taken seriously.

Courts are the fundamental watchdogs of legalism. They are developing this role at their best at national level and in the EU; only in part, for the moment, in international law where power (even brute force) mostly matters. But also in international law “islands of legality” are emerging, which represent the core of a new constitutional order36.

Legalism, even in any possible meaning, is preferable to “imperium37. Without legality there remains only imperialism, crude political and legal imperialism.

Fourthly. I feel the widespread criticism against the judicial empowerment is misguided in suggesting that the judges are neither elected nor accountable.

In truth, the judges are not part of the democratic wing of the constitutional system, based on the peoples’ will38. Instead, they form the main component of the system of guarantees. However correct this distinction would be in principle, it cannot hide the practical tension between the democratic theory and judicial review, expressed by Bickel as the “counter-minoritarian difficulty”. Only the wisdom and the self-restraint of judges can make this tension tolerable.

Fifthly. The legal nature of international courts is still controversial. They are realizing relevant achievements, but there remain unacceptable features as for selection of members, rules of procedure and the matters outlined above.

In short, are the new courts true judicial bodies or just a cosmetic adjunct to chancelleries of the greatest States? It is a question which cannot be bypassed.

In the whole, the paper has resulted as a praise for juridification and for legalism, correctly directed. But I conclude with the hope that, de facto, judges are not taken by the lure of power; in a way not to leave unjustified scope to their critics’ arguments. Sometimes it happens, unfortunately.

“Moderation”, “restraint” is my appeal for judges.

1 137 U.S. (1803).

2 557 U.S. (2001), 561.

3 Justice Breyer is manifestly influenced by the political and legal ideas of the Constitution’s Founding Fathers. We can confirm his attitude in the very recent opinion in National Labor Relations Board v, Noel Canning, US Supreme Court, 573 (2014), where he recalls literally other views of Hamilton about the need of the vigor of government to the security of liberty (even if the conclusion is against the improper use of the presidential powers).

4 R. Posner, Reflections on Judging, Harvard UP, 2013, 148 ff.

5 D. Beatty, The Ultimate Rule of Law, Oxford UP, 2004.

6 R.H. Bork, Coercing virtue: the worldwide rule of judges, American Enterprise Institute Press, 2003.

7 M. Shapiro – A. Stone Sweet, On Law, Politics and Judicialization, Oxford UP, 2002.

8 A. de Tocqueville, Democracy in America (1835), Vintage books, 1961, 102.

9 567 U.S. (2012).

10 D. Feldman, The “New Separation of Powers”, Constitutionalism, and the Regulation of Public-Private Cooperation, ERPL, vol. 25, 2013, no. 2, 597.

11 H.K. Woolf, Judicial Review. The Tensions between the Executive and the Judiciary, in Law Quarterly Review, 114, 1998, 579; rightly recalled in this discussion by T. Zwart, Overseeing the Executive. Is the Legislature reclaiming lost territory from the courts?, in Comparative Administrative Law, S. Rose-Ackerman – P.L.Lindseth (eds), Edward Elgar Publishing, 2010, 148 ff., 152.

12 R. Hirschl, Towards Juristocracy, Harvard UP, 2004, 12 ff.

13 R. Hirschl, The New Constitution and the Judicialization of Pure Politics Worldwide, 75 Fordham Law Review, 2006, 722.

14 See C.N. Tate – T. Vallinder (eds), The Global Expansion of Judicial Power, New York UP, 1995.

15 H. Kissinger, Does America Needs a Foreign Policy? Towards a Diplomacy for the XXIth Century, Simon and Schuster, 2001,273. More recently on these themes by the same Author: World Order, Penguin, 2014.

16 E. Posner, The Perils of Global Legalism, University of Chicago Press, 2009, 80 ff.

17 G. Amato, Il costituzionalismo oltre i confini dello Stato, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2013, 2; M. Kumm, The Cosmopolitan Turn in Constitutionalism, in Ruling the World. Constitutionalism, International Law and Global Governance, J. Dunoff – J . Trachman (eds), Cambridge UP, 2009.

18 A. Bickel, The least dangerous branch, 35 ff.

19 R. Posner, How Judges Think, Ibid., 15.

20 J. Bell, Policy Arguments in Judicial Decisions, Oxford UP, 1983. Quite different was Professor John Griffith’s view expressed in his controversial book The Politics of Judiciary, Harper Collins Publisher, 5th edn., 1997.

21 M. Mazower, Governing the World, Allen Lane, 2012, 343 ff.

22 Finally reversed by the Court of Justice: judgement 3.9.2008, joint cases C-402/05, C-415/05, Kadi and Al Barakaat International Foundation/Council.

23 C. Guarnieri, Judicial Independence in Europe: Threat or Resource for Democracy?, in Representation, 49, 2013, 347. of the same Author with P. Pederzoli (eds), The Power of Judges: a Comparative Study of Courts and Democracy, Oxford UP, 2002. A positive view is expressed also by a critic of legalism as E. Posner, The Perils of Legalism, Ibid., 153.

24 M. Mazower, Governing the World, Ibid., 361.

25 Again, M. Mazower, Governing the World, Ibid.., 362.

26 Corte costituzionale, 22.10.2007, n. 348 and 349.

27 Case OAO Kompaniya Yukos v. Russia, n. 14902/04.

28 Arbitral Tribunal, under the auspices of the Permanent Court of Arbitration (PCA), arbitral Judgement 18.7.2014.

29 E. Posner speaks of a fragmentation of international justice (The Perils of Global Legalism, Ibid., 150 ff.

30 S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli Editore, 2009; and Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, 2013. For a more traditional position see: M. Prata-Roque, New Challenge of Democracy, general report at the EGPL Conference 2014 (to be published in ERPL 2015).

31 S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Ibid., 92-93.

32 E. Posner, The Perils of Legalism, Ibid.

33 M. Mazower, Governing the World, Ibid, 404.

34 As expressed by R. Dworkin in many occasions. Inter alia: Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Harvard UP, 1996; A Bill of Rights for Britain, Chatto and Windus, 1990.

35 R. Dworkin, Law’s Empire, Harvard UP, 1986.

36 G. Silvestri, Costituzionalismo e crisi dello Stato-nazione. Le garanzie possibili nello spazio globalizzato, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2013, 905 ff., 914.

37 The notion of “imperium” is here used in a sharper meaning than in the well known article by Professor Daintith, The Executive Power Today: Bargaining and Economic Control, in D. Oliver – J. Jowell (eds), The Changing Constitution, 2nd edn, Oxford UP, 1989, 193.

38 S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Ibid., 103-105.

Mario P. Chiti - La giustizia nell’amministrazione. Il curioso caso degli Administrative Tribunals britannici

1. Per la pattuglia degli amministrativisti italiani interessati alle vicende dell’ordinamento britannico, gli Administrative Tribunals (AT) hanno costituito una potente calamita di interesse sin dalla loro istituzione, ed in particolare da quando per vicende diverse, ma convergenti nell’esito, si era vanificato da noi il ruolo dei ricorsi amministrativi. Coloro che non si rassegnavano al tramonto di una “giustizia nell’amministrazione” consideravano l’esperienza britannica particolarmente allettante, pur con le particolarità proprie di quell’ordinamento, composito al suo interno e di diversa tradizione rispetto al continente.

L’interesse per gli AT è stato a lungo ben giustificato. Questi organismi ogni anno riescono a trattare una grandissima quantità di casi. Le statistiche ufficiali parlano di decine di migliaia di casi; pur aggregando situazioni alquanto differenti, talune di dubbia natura, il dato è significativo. Le procedure degli AT sono celeri ed informali, ma rispettose del principio del contraddittorio; si utilizzano esperti del settore coinvolto; i costi sono limitate. La disciplina dei Tribunals consente di sollevare questioni di merito precluse alle corti, favorendo così una più ampia tutela degli interessati. Le decisioni assunte risolvono definitivamente la grandissima parte delle controversie, come dimostra il modesto numero degli appelli alle corti (peraltro limitati da varie preclusioni processuali e dagli alti costi di giustizia, senza paragone con quelli delle procedure davanti agli AT).

L’efficace funzionamento degli AT è la principale ragione per cui la Gran Bretagna ha un contenzioso pubblicistico assai limitato rispetto alle cifre continentali; ed in particolare all’Italia, che pure è Paese sostanzialmente equivalente per abitanti e problemi. Il rapporto tra il contenzioso del plesso amministrativo-contenzioso (quasi judicial) e delle corti si è solo in parte modificato verso quest’ultimo in conseguenza dell’istituzione di un organico sistema di controlli giurisdizionali (la judicial review con le relative azioni/applications) e di un giudice specializzato in cause pubblicistiche (la Administrative Court della High Court). In proporzione, i numeri continuano ad essere di uno a dieci.

L’esperienza britannica è risultata interessante, in particolare, per la caratterizzazione non giuridica di gran parte degli AT, evidente dalla loro composizione tecnico-specialistica e dal tipo di procedura, indirizzata alla piena acquisizione e valutazione del merito della controversia.

Alle motivazioni positive di carattere giuridico si sono inoltre sommate altre ragioni più generali, quali l’apprezzamento per un’esperienza che all’origine era una delle espressioni istituzionali del socialismo fabiano, e poi, dal secondo dopoguerra, dello Stato sociale, saldo anche dopo le forti evoluzioni degli ultimi due decenni del secolo passato. In breve, una considerazione degli AT come una “autoamministrazione della società” per il contenzioso quotidiano con i poteri pubblici. Una forma di “giustizia senza il diritto”.

L’interesse per gli AT perdura tuttora assai vivo; tuttavia questi organismi hanno mutato natura. Da essere parte del sistema amministrativo sono divenuti parte del machinery of justice.

Evoluzione di indubbio interesse, ma che allontana gli AT dal tema della giustizia nell’amministrazione. Il loro caso va dunque studiato quale forma originale di tutela, non più nella prospettiva dell’amministrazione giustiziale bensì in quella della funzione “aggiudicativa” più vasta che nella tradizione.


 

2. Per tutto il secolo scorso il modello degli AT non ha avuto in Italia alcuna corrispondente iniziativa riformatrice, malgrado le autorevoli proposte in tal senso; uno degli esempi più eclatanti del limitato ruolo della scienza giuridica per l’evoluzione delle istituzioni. Anche da ultimo, le nostre politiche pubbliche per razionalizzare la giurisdizione, filtrare l’accesso alle corti e aumentare l’efficienza del sistema giustizia hanno seguito strade diverse. Alcune delle maggiori novità per la giustizia civile – come lo spazio dato alle forme alternativa di tutela (le c.d. Alternative Dispute Resolutions, ADR), ed in particolare alla mediazione – traggono origine dal sistema britannico e dalla cultura di common law; ma per la parte delle alternative amministrative o quasi judicial alla giurisdizione è stato nullo il richiamo all’esperienza degli AT.

Le ragioni di queste diverse politiche pubbliche nei due Paesi sono in parte italiane; per altra parte derivanti dall’evoluzione che recentemente ha caratterizzato gli AT britannici, andati ben oltre i confini tradizionali della giustizia nell’amministrazione.

Le ragioni nazionali non sono il centro di questo intervento. Basta dunque qua indicare le due principali: il rilievo assunto dal 1990 dalla disciplina del procedimento amministrativo; la diffidenza, talora la palese ostilità, per forme di tutela affidata a organi amministrativi composti principalmente da esperti non giuristi.

Per quanto riguarda la disciplina del procedimento, è noto che il Regno Unito non ha seguito il modello della disciplina organica del procedimento, preferendo normative per settori del procedimento o discipline particolari. A differenza della Francia – ove, malgrado la diversa tradizione incentrata sul ruolo del giudice amministrativo, sta affermandosi la proposta per una disciplina generale del procedimento – nel Regno Unito non sembra prossima una riforma del genere. Coerentemente, nell’Unione europea i britannici stanno rallentando le proposte del Parlamento europeo per un regolamento sul procedimento amministrativo dell’Unione; che, ove approvato, avrebbe sicuramente influenza indiretta anche per gli Stati membri e quindi per l’ordinamento del Regno Unito.

La disciplina britannica del procedimento, pur consentendo generose forme di partecipazione attiva o di garanzia, non offre la possibilità in via preventiva per una tutela piena ed effettiva degli interessi dei soggetti coinvolti; compensata ampiamente dalle doglianze agli Ombudsman ed Ispettorati, e dai ricorsi presentabili agli AT. Il caso italiano è diverso. La legge n. 241/1990 ha consentito ampie forme di partecipazione e garanzia amministrativa nel corso del procedimento, attenuando l’esigenza per una tutela amministrativa ex post alla decisione.

I due diversi modelli, britannico ed italiano, con tutta evidenza non sono sovrapponibili e correttamente comparabili. Complessivamente, il modello britannico tutela gli interessati in un numero maggiore di casi, dato che alle non poche possibilità di tutela amministrativa previste dalle specifiche norme procedimentali somma la possibilità di adire, con facilità ed efficacia, i numerosi AT. Con l’ulteriore opportunità di adire le corti in casi di particolare rilevanza giuridica. In Italia, invece, si preferisce insistere sulla disciplina del procedimento amministrativo per trarne ogni ulteriore possibilità di partecipazione attiva e di garanzia per poi passare direttamente alla giurisdizione, valorizzando le molte possibilità che la giustizia amministrativa offre agli interessati secondo il recente Codice del processo amministrativo. Come noto, procedimenti “giustiziali” di qualche rilievo si hanno solo nel caso di alcune Autorità indipendenti o di organismi particolari come l’Autorità Nazionale Anticorruzione (già A.V.C.P.). Il ricorso straordinario è ormai vicinissimo alla giurisdizione, secondo la più recente giurisprudenza e normativa.

Circa poi la generale preferenza in Italia per la giurisdizione, evidente malgrado le diffuse critiche ai giudici di ogni giurisdizione e grado, si è di fronte ad una posizione che ha risalenti radici nella sfiducia per l’imparzialità e la qualità dell’amministrazione pubblica, anche se operante in modo giudiziale. Il tema può essere meglio trattato da colleghi di altre scienze sociali; ma a conferma diretta colpisce la scarsa attrazione che finora hanno avuto le nuove forme di tutela non giurisdizionale per le questioni civilistiche, quasi che le politiche di “degiurisdizionalizzazione” (orrendo neologismo di un legislatore che sembra non avere risciacquato la propria lingua in Arno) tramite le ADR fossero iniziative estranee al comune sentire.

Merita notare che se gli AT non hanno avuto in Italia (ed anche in molti altri Stati europei) l’influenza da molti auspicata, nel diritto dell’Unione europea si avverte un crescente interesse per soluzioni delle controversie affidate ad organismi non giudiziali, di particolare qualificazione tecnica, capaci di decidere con tempi rapidi come richiesto dall’urgenza delle questioni. Un esempio recente, importante, si rinviene nella recente disciplina dell’Unione bancaria, precisamente nel regolamento n. 806/2014 sulle risoluzione delle crisi bancarie, che prevede un Comitato di appello (Appeal Panel) assai simile agli AT (nel modello loro proprio sino al 2007). Non è al momento chiara l’origine di queste discipline, ma indubbiamente i nuovi organismi giustiziali dell’Unione bancaria somigliano molto ai Tribunals.


 

3. Passando alle vicende britanniche, si conferma che le recenti evoluzioni della disciplina degli AT hanno modificato in modo significativo i caratteri che avevano fatto di questi organismi un riferimento per possibili riforme in Italia ed in altri Paesi continentali.

Infatti, gli AT hanno progressivamente perduto il carattere di organismi amministrativi contenziosi, estranei alla giurisdizione, per divenire parte del sistema giudiziale di tutela, caratterizzata solo da alcune particolarità. Efficacemente, una studiosa britannica li ha definiti “sostituti delle corti” (C. Harlow).

Per capire l’evoluzione degli AT è necessaria una sintetica ricostruzione dei principali passaggi della loro disciplina ed esperienza.

Già nella seconda metà dell’Ottocento furono previste le prime forme di “ricorsi amministrativi”, affidate a particolari organismi, denominati Boards, composti di regola da non giuristi. Le decisioni di questi organismi non erano normalmente appellabili davanti alle corti, né a queste si poteva accedere direttamente salvo specialissime situazioni.

E’ all’inizio del Novecento – quindi con l’avvio di un primo Stato sociale voluto dai Liberali, vincitori delle elezioni del 1906 – che si creano vari AT per questioni collegate al recente sistema pensionistico, di sicurezza sociale, di disciplina del lavoro, di protezione dell’infanzia. Le nuove opportunità di tutela ebbero immediato successo, dimostrato dal numero dei ricorsi e dall’attenzione di influenti politici come Lloyd George ed i giovani Beveridge e Churchill. Fino da allora prevalse l’opinione che le questioni poste dal Welfare State fossero inappropriate per le corti, non use a trattare masse di controversie, per di più di carattere eminentemente fattuale (B. Abel-Smith e R. Stevens).

Il periodo in cui gli AT si svilupparono maggiormente fu quello tra le due guerre mondiali, specialmente negli anni trenta in conseguenza della grande crisi economica del 1929, dei movimenti sociali e della sempre maggior rilevanza del partito Laburista, supportato giuridicamente dalla Scuola del “socialismo giuridico” di Robson, Jennings e Laski. Si ricorda in particolare nel 1932 il Rapporto della Commissione presieduta da Lord Donoughmore (Committee on Ministers’ Powers), che pose le premesse per l’istituzione di nuovi AT e definì in termini generali una funzione amministrativa giustiziale, distinta dalla giurisdizione e dalla funzione “aggiudicativa”.

Nella prospettiva continentale giuspubblicistica, gli AT sono risultati il “cavallo di Troia” per l’introduzione del diritto pubblico nel Regno Unito. Infatti, malgrado il carattere poco giuridico degli AT del tempo, risultò ben presto chiara la natura pubblicistica/amministrativistica di quasi tutte le questioni attribuite alla competenza dei Tribunals e, per converso, la carenza di tutela giurisdizionale – nelle forme processuali tradizionali – degli interessi coinvolti. Gli AT colmarono così, in modo originale, la lacuna di tutela del sistema britannico per molti interessi violati dal potere pubblico.

Pur con le loro spiccate connotazioni giustiziali, gli AT sono rimasti a lungo parte del sistema amministrativo britannico. Da qui, come detto, il comprensibile interesse di alcuni studiosi italiani e continentali per un’esperienza di “tutela amministrativa” ben funzionante e satisfattiva per gli interessati. Ma si è dimenticato spesso che fino alla fine degli anni settanta del Novecento il contenzioso di diritto pubblico aveva possibilità di essere trattato dalle corti in situazioni assai particolari, senza procedure specifiche e senza un giudice “esperto”.

Al culmine dell’esperienza degli AT quali organismi parte della pubblica amministrazione si reputò matura la possibilità di una loro evoluzione verso il sistema giudiziale. La Commissione Franks, ed il conseguente Rapporto del 1957 (Report of the Committee on Administrative Tribunals and Inquiries), sostennero che i Tribunali non dovessero più essere parte del sistema amministrativo, ma del “machinery of adjudication”; con una procedura “open, fair and impartial”. Il Rapporto, ampiamente condiviso, portò all’approvazione nell’anno successivo del Tribunals and Inquiries Act, rimasto vigente sino allo scorso decennio; per quanto varie volte emendato.

I caratteri assunti dagli AT vennero così sintetizzati dal maggiore studioso del tema, J. Farmer: “the ability to make final legally enforceable decisions, subject to review and appeal; indipendence from any department of government; the holding of a public hearing judicial in nature; the possession of expertise; a requirement to give reasons; and the provisions of appeal to the High Court on points of law”.

Fu dunque definito in modo organico il sistema degli AT, che ormai superavano il numero di quaranta; ed al contempo si segnavano con nettezza i caratteri giustiziali della loro funzione: indipendenza, imparzialità, garanzia del contraddittorio, trasparenza. Aprendo così le porte alla revisione delle decisioni degli AT da parte delle corti, oltre alla tradizionale azione per violazione dei loro poteri (ultra vires). I Tribunals esaminavano il merito della controversia; le corti (la High Court e le altre superiori) gli eventuali punti di diritto e, in casi espressamente previsti, anche il merito; in tali casi potendo eventualmente modificare il giudizio dei Tribunals. La scienza giuridica inglese condivise questi sviluppi, perché è “proper for those tribunals that exercise judicial functions to be accountable to courts” (C. Harlow).


 

4. Nell’ultima parte del secolo scorso sono avvenuti sviluppi particolarmente interessanti: la piena operatività dei “nuovi” AT, come riformati dalla legge del 1957 – ormai decine e con un vastissimo contenzioso – ed, al contempo, l’avvio di una specifica azione processuale pubblicistica, la già ricordata application for judicial review. Dunque una complessiva funzione aggiudicatrice, articolata in due parallele funzioni a tutela di interessi di natura pubblicistica: l’una amministrativa giustiziale; l’altra prettamente giurisdizionale. In breve, con buona pace degli epigoni di Dicey, l’affermazione di una vera e propria “giustizia amministrativa”, pur con tutte le peculiarità britanniche.

Quando in quel sistema sembrava ben definita una duplice tutela pubblicistica – amministrativa e giurisdizionale – è avvenuta un’ulteriore evoluzione, tuttora non conclusa.

Seguendo il metodo britannico delle Commissioni indipendenti di studio e proposta (purtroppo mai veramente attecchito in Italia, con talune particolarissime eccezioni), all’inizio dello scorso decennio fu costituita una Commissione presieduta da Sir Andrew Leggat per esaminare la possibile revisione degli AT alla luce della fortunata esperienza della judicial review. Il Rapporto del 2001 (Report of the Review of Tribunals. Tribunals for Users, One System, One Service) proponeva un vero e proprio “sistema” di Tribunali indipendenti, con un Presidente nazionale nominato dal Ministro della Giustizia; articolato su due nuovi tribunali (First Tier Tribunal e Upper Tribunal) nei quali far confluire i tribunali esistenti.

Dopo molte discussioni, il Parlamento ha approvato nel 2007 il Tribunals, Courts and Enforcement Act che recepisce la sostanza del Rapporto Leggat. Molti Tribunals sono stati trasferiti nei due nuovi, ora citati; altri confermati. Rimarchevole la possibilità, ad onta della razionalizzazione in due gradi generali, di istituire nuovi tribunali specializzati in particolari campi. La garanzia del nuovo “sistema” è assicurata dall’Administrative Justice and Tribunals Council con il compito di vigilare (review) l’intero sistema di giustizia amministrativa.

Con la legge del 2007 gli AT sono formalmente e sostanzialmente usciti dal sistema amministrativo britannico, divenendo parte di quello che usualmente si definisce il machinery of justice; ovvero del sistema giustiziale, meglio definibile come machinery of adjudication. Nelle parole di Lord Carnwath, allora Presidente del Council ed oggi giudice della Supreme Court, i Tribunals sono divenuti “a vital but distinct part of the indipendent civil justice system” e i loro giudici sono “full members of the indipendent judiciary with full guarantees of indipendence”.


 

5. Il sistema dei nuovi Tribunals sta funzionando con successo, specie a seguito dell’entrata in funzione dei due tribunali generali, assicurando un coerente sistema di garanzie. L’Upper Tribunal ha così palesi tratti giudiziali che il già citato Lord Carnwath ha proposto di riconoscerlo formalmente per quello che in effetti è: una “Administrative Court in relation to public law generally”.

Per altri commentatori è comunque improbabile che la distinzione formale tra Tribunals e corti sia abolita, anche perché inutile una volta che è stata riconosciuta una generale “adjudicative function”. Nella nuova prospettiva “it will be possible to describe tribunals as a type of courts and the courts as a type of tribunal; or, more accurately, courts and tribunals as species of adjudicative institution” (P. Cane).

Pare però che il sistema britannico non riesca a fare a meno di un filtro giustiziale amministrativo. Va segnalato infatti che all’evoluzione ora ricordata degli AT si è accompagnata l’istituzione di nuovi Ispettorati interni nei dipartimenti centrali. Si tratta di organi amministrativi, privi del carattere di indipendenza, incaricati tra l’altro di esaminare gli esposti e le doglianze (complaints) nei confronti dell’amministrazione in cui sono incardinati. Gli Ispettorati sono dunque finalizzati ad assicurare buona parte della tutela amministrativa che in origine era propria dei Tribunals. Si tratta di un’esperienza che si riallaccia ad una delle più antiche forme di controllo amministrativo “interno”, nota in particolare nell’ordinamento francese; ma con le particolarità, tipiche del Regno Unito, del rispetto dei principi procedurali di natural justice, da un lato; e dell’influenza di modelli manageriali di soluzione delle questioni controverse, denominata “proportionate dispute resolution”, dall’altro. Vedremo in futuro quale sarà la loro importanza per la tutela degli interessati.

 

6. Per il giurista italiano l’evoluzione ora ricordata è di particolare interesse perché indica come il sistema di judicial review, positivamente funzionante ed effettivo (ad onta della recente istituzione), anziché essere anticipato da una fase di natura amministrativa giustiziale, ha finito per “catturare” tale fase quasi come un primo grado semi-giurisdizionale, in cui al nuovo rilievo delle questioni giuridiche si affianca l’apprezzamento del merito delle questioni controversie.

Quest’ultimo punto è rilevante in quanto nel periodo di maggiore sviluppo degli AT pareva sostenibile una funzione giustiziale “senza il diritto”, tanto il merito aveva assunto piena centralità. Oggi, evidentemente non è così per la “giuridicizzazione” dei Tribunali ed anche per questo il “judicial review of tribunal decisions is intended to become a rarity” (C. Harlow).

Ne consegue una domanda di fondo: il sistema britannico, che ha avuto la più compiuta esperienza di organi amministrativi quasi giudiziali sino a quando non si è sviluppata una particolare “giustizia amministrativa”, indica forse che ad una duplice tutela amministrativa e giurisdizionale è preferibile un perfezionamento/ampliamento della tutela giustiziale istituendo organismi particolari, specializzati, quali i nuovi AT, parte formale e sostanziale del machinery of justice, la cui differenza rispetto alle corti “is one of degree rather than kind” (P. Craig)?

Gli sviluppi considerati sono così recenti che non è possibile, al momento, dare una risposta adeguata. Gli stessi giuristi britannici sono cauti nell’interpretazione dello scenario ora delineato. Va aggiunto che altre riforme da ultimo intervenute sulla procedura di judicial review indicano una possibile ulteriore tendenza (che ancor più necessita di prossima ponderazione): si tratta dei provvedimenti per deflazionare il numeri delle applications al giudice – peraltro irrisorie rispetto ai numeri italiani – attraverso una serie di misure che sono state fortemente osteggiate, specie dal mondo scientifico e legale, in quanto ingiustamente restrittive del diritto di difesa, uno dei capisaldi del rule of law. Si è infatti inciso sulle spese di giustizia (ancora più onerose), sul sistema di autorizzazione/leave al ricorso (ristretta), sui termini per presentare i ricorsi (scorciati), sul carattere collegiale di molti procedimenti (con preferenza al monocratico), sulla forma delle sentenze (semplificate), e così via. Novità non certo estranee a politiche similari seguite dalle nostre istituzioni nell’ultimo periodo.


 

7. Nell’insieme, dunque, la tutela nei confronti del pubblico potere si articola oggi nel Regno Unito su tre vie: a) tutela amministrativa vera e propria, con le istanze (complaints) presentate ai vari commissari civici (Ombudsman) competenti per settore; oppure agli Ispettorati interni di recente istituzione; b) tutela quasi giudiziale, con i ricorsi agli AT, sostanzialmente primo grado del machinery of adjudication; c) tutela giurisdizionale, con le applications for judicial review, nei limiti alquanto ristretti in cui sono ammissibili.

Considerato che AT e corti formano ormai un insieme largamente unitario, ove gli AT rappresentano dei “sostituti delle corti”, si conferma la tesi inizialmente espressa che l’esperienza degli AT non possa più essere un punto di riferimento per riforme italiane finalizzate a recuperare una giustizia nell’amministrazione con figure e procedure distinte da quelle giurisdizionali. Ma il caso britannico indica altresì che permane importante la tutela amministrativa; non soltanto tramite la sempre vitale figura degli “ombudsman”, ma pure con i recenti Ispettorati interni.

Ragione vorrebbe che si continuasse a seguire con il giusto interesse le sempre stimolanti vicende di oltre Manica, senza però che gli “orfani” degli Administrative Tribunals tornassero a proporre le più recenti procedure e figure dell’amministrazione giustiziale, come gli Ispettorati, quale una panacea per i nostri problemi. 

The passage from banking supervision to banking resolution. Players, competences, guarantees

Mario P. Chiti

1. The banking union launched in 2012 by the European Council and the Euro Zone Summit is based, as known, on two pillars: the Single Supervisory Mechanism (SSM) and the Single Resolution Mechanism (SRM), supported by several collateral measures as the restyling of the powers of the European Bank Authority (EBA), in operation since 2010, and the establishment of the Single Bank Resolution Fund (SRF), through an Agreement among the participating Member States on the transfer and mutualisation of contributions to the SRF1

Moreover, the banking union is underpinned by a comprehensive and detailed single rulebook for financial services for the internal market as a whole. Precisely, the recent moves towards the banking union among the member States whose currency is the euro have been followed by a new Resolution Framework for credit institutions and investment firms, as a decisive step for harmonisation of bank resolution rules across the whole Union. This Resolution Framework – provided by a new directive passed in first reading by theEuropean Parliament in April) – does not lead to a full centralisation of decision making in the field of resolution, but establishes minimum harmonisation rules.

Both pillars have been established in a very short time, almost inconceivable under the usual “meditative” timing of the Union legislators, after sharp discussions and difficult trilogues among the Union institutions. The system will operate progressively according to the timetable and conditions provided by the two main Regulations (for the SSM, Regulation no. 1024/2013; for the SRM, “Regulation 2014”). The timing for the full effectiveness of the SRM, even reduced as to the initial proposal, remains too slow and remote; definitely inadequate for the needs of the market in this critical period.

The function of prudential supervision has been centralised on the European Central Bank (ECB), in order to restore trust and credibility in the banking sector, by the already quoted Regulation no. 1024/2013 (Regulation of 13.10.2013 of the European Parliament and of the Council). Strictly connected to this reform is the Regulation no. 1022/2013, again of the European Parliament and of the Council, which emendates the 2010 EBA Regulation (no. 1093/2010), establishing a link between this Authority and the ECB.

The ECB supervision scope includes the more significant European credit institutions and investment firms, listed according detailed conditions provided by Regulation no. 1024/2013. Banks of local dimension will continue to be supervised by the national competent authorities; according to rules co-adoptedwith the ECB. The supervisory mechanism is, therefore, not bipolar (national v. centralised supervision) but coordinated in order to avoid an excessive dichotomy between the two systems. To that purpose, a particular role will be played by the regulatory and implementing technical standards adopted by EBA, and mostly by the Single Rule Book which binds even the ECB (art. 4. para. 3, Regulation no. 1024/2013; art. 5, para. 4, “Regulation 2014).

The second pillar of the banking union, the SRM, has been considered an essential instrument to avoid the damages that have resulted from banks failures in the past. In the intention of European institutions the SRM will ensure that potential future bank failures are managed efficiently. The resolution procedure only applies in respect of banks whose supervisor is the ECB (at the European level). Like the SSM, also this “Mechanism” has original features centred on a body named Single Resolution Board (SRB) which represents a new kind of agency, after the waves of “European agencies” of the last decades and the three European Supervisory Authorities of 2010. The Single Resolution Mechanism is disciplined by two set of rules: a) the “Regulation 2014” of the European Parliament and of the Council establishing uniform rules and procedure for the resolution of credit institutions and certain investments firms in the framework of a Single Resolution Mechanism and a Single Resolution Fund and amending Regulation no. 1093/2010; b) the Intergovernmental Agreement on the Single Resolution Fund. The Mechanism will operate in the framework of the “Directive 2014” of the European Parliament and of the Council establishing a framework for the recovery and resolution of credit institutions and investments firms and amending some Council Directives and Regulation no. 1093/2010. As said in the preliminary explicative note, at the moment these legislative acts are not yet published in the Official Journal and will be cited in a simplified form (“Regulation 2014” and “Directive 2014”).

2.The expression “banking resolution” is used in European legislative acts in numberless sections, but curiously it is never clearly defined. However there is a general agreement that resolution means “an administrative procedure to manage bank crises out of court as to protect financial stability, preserve vital systemic functions as well as protect depositors, while minimizing any adverse impact on taxpayers”.

It is self-evident and acquired that the two functions of supervision and of resolution are strictly inter-connected. The point is expressly reaffirmed in the preamble of Regulation 2014, “Whereas” no. 6a: “the SRM is imbricated to the process of harmonization in the field of prudential supervision, brought about by the establishment of the European Banking Authority, the Single Rule Book on prudential supervision, and, in participating Member States, the establishment of a Single Supervision Mechanism to which the application of prudential supervision rules is entrusted. Supervision and resolution are two complementary aspects of the establishment of the internal market for financial services whose application at the same level is regarded as mutually dependent” (see also “Whereas” no. 8a).

The supervisory function of the ECB on the banks of European relevance is finalised to ensure all the stakeholders that the banks entering the SSM, therefore falling within the scope of SRM, are fundamentally sound and trustworthy.

3. The issue considered in this comment from a juridical point of view is the link between the outcomes of the supervisory powers and the beginning of the resolution procedure, when supervision has highlighted some critical situation for banks and financial institutions. Precisely, the comment will examin the competence to discover and assess the crisis; the first phases of the resolution procedure as the recovery plans finalised to preparation and recovery, the “early intervention” procedure in case of bank failing or next to fail; the drafting and adoption of resolution plans and schemes.

The focus of the comment will be the Europeanization of bank resolution, which is the most innovative part of the SRM. However, it must be stressed once again that the “Mechanism” neither concentrates all powers on the European institutions and agencies, nor does it operate in two separate parts, the national and the Europeans ones as demonstrated by the involvement of the national competent authorities in most cases.

Much embricated as they are, yet supervision and resolution maintain some different features. Firstly, their legal base is different: art. 127 TFEU (conferral of specific tasks) for the SSM; art. 114 TFEU (measures for the approximation of national provisions) for the SRM. Secondly, the supervisory mechanism is relatively simple, establishing a wide number of administrative powers for the ECB (while the regulative powers are limited). ECB is a “technical”/specialised institution which ensures a neutral approach in dealing with the supervised banks. Differently, the assessment and resolution Mechanism is much more complex due to the number of bodies involved and the characteristics of each phase of the procedure.

Whereas” no. 69a of Regulation 2014 makes explicit that functionally “the SRM brings together the Council, the Commission, the Board (the SRB) and the Resolution Authorities of the participating Member States”. This co-presence of supranational (Commission) and intergovernmental (Council) institutions and of a technical agency (the Board), acting as operational independent body, could imply different visions and delays in adopting the resolution schemes, just in situations where is vital to take speed and appropriate measures.

The European Parliament has for a long while contrasted the Council role because it gives space to political considerations in a procedure which should be purely technical; in principle and according to “Whereas” no. 6a: “the SRM will ensure a neutral approach in dealing with failing banks”. Inevitably, the Council’s involvement in the procedure will make the resolution less independent and more political.

In the compromise which has allowed the final approval of “Regulation 2014” the prevailing position has been that “considering that only institutions of the Union may establish the resolution policy of the Union and that a margin of discretion remains in the adoption of each specific resolution scheme, it is necessary to provide for the adequate involvement of the Council and of the exercise implementing powers”. The role of the Council is of particular relevance in order to verify whether a resolution action is “necessary in the public interest” (art. 4 and art. 16 “Regulation 2014”).

The theme here considered is a clear example that the managing bank crisis may assume a different relevance when from the first discoveries of crisis by the ECB the procedure continues with the intervention of the Board and of the Commission, in a permanent dialogue with the ECB (leaving aside, as said before, the national competent authorities).

4. The procedure for connecting supervision and resolution is so complex and formally rigid to raise scepticism on its factual working. Obviously only future implementation and experience will give precise indications, but also when the procedural timing is respected the joint participation of so many bodies implies the juridical relevance of different public interests, not easily amalgamated. There is also the serious risk that sensible information on the bank in difficulties are known by a large number of competitors and bodies interested, aggrieving the failing.

The bank crisis management and resolution is articulated in three phases: bank recovery plans for preventing the failure; early bank is failed or next to fail; resolution. The first phase is disciplined by Regulation no. 1024/2014 for the ECB powers; the early intervention and resolution phases by “Regulation 2014”.

Let us consider the first phase. The ECB supervision on “significant” banks can reveal situations of difficult or of true crisis. In such event the preparation and prevention planning is open and the interested bank is requested to draw up recovery plans detailing all the measures to be adopted to restore its viability. It is therefore the bank itself that draws up the recovery plan, at certain conditions provided by the cited disciplined and punctually detailed in BRRD 2014 (the general framework law). The Board remains in any case competent for indicating to the bank some specific initiatives to be undertaken or may assume directly the recovery plan, if appropriate. In case, the Board may also identify impediments to resolvability and adopt measures to facilitate resolvability. The entire phase is “technical” and is conferred to the interested banks and to the Board.

When the situation is seriously deteriorated, due to the unsuccessful plan or to other reasons, or when no preparation and prevention plans have been adopted, the early prevention phase starts under art. 11 of “Regulation 2014”. This is the legal and material point of connection between the two major functions of the banking union: the move from supervision and recovery towards the resolution.

Let us now examine the main steps of the procedure, focusing firstly on the “early intervention” (art. 11 “Regulation 2014”).

5. Once assessed the bank deteriorated situation– whether a credit institution is failing or likely to fail, or whether there is no reasonable forecast that an alternative private sector or supervisory action might prevent its failure within a reasonable time – the ECB informs the Board on the measures to be assumed, or alternatively, the initiatives that ECB itself intends to assume under the two cases provided in art. 16 Regulation no. 1024/2013 and in art. 23a “Directive 2014” (BRRD). If so, the Board will receive all the relevant information.

In turn, upon receipt of the note on the measures required by the ECB or by the national competent authorities, the Board informs the Commission immediately and may prepare the resolution plan of the institution or group concerned. Then the Board verifies – in cooperation with the ECB and the national competent authorities – the actual bank situation of the bank considered and if the plan fits the case. The Board assesses if there is a systematic threat (the “public interest” condition) and there is no alternative private solution. The ECB and the national competent authorities may assume additional measure; in which case the Board is informed.

The measures adopted in this phase can be of different kind and invasive of the bank powers under resolution, such as the appointment of a special manager and the order to contact potential buyers.

Following the early intervention phase, if the situation requires the formal resolution procedure, the SRM provides the drafting of the resolution plan and of the resolution scheme. The procedure must comply with the general principles on resolution indicated at art. 13 of “Regulation 2014”, as the principle of bail-in (the shareholders of the institution under resolution bear the first losses; creditors of the institution bear losses after the shareholders in accordance with the order of priority of their claims pursuant art. 15; etc.) and the principle that individuals and entities are made liable, subject to Member States law, under civil and criminal law for their responsibilities for the failure of the institution under resolution. All the procedure and the decisions adopted must respect the principle of proportionality, choosing the tools and powers that best achieve the resolution objectives that are relevant in the circumstances of the case (see art. 12, para. 1, “Regulation 2014”).

The drawing of the resolution plan is subject to the conditions provided at art. 16, para. 1, “Regulation 2014”, subdivided in two classes: the first, as the assessment of no reasonable prospect, verified by the ECB after consulting the Board; the second, as the determination that the entity is failing or likely to fail, assessed by the Board, in coordination with the ECB. In the first case, whether the ECB does not adopt the decision within three days from the information, the Board will assess. The bank conditions’ assessment is of crucial importance, as easy to guess, giving the legal and actual grounds of the following resolution procedure. As said, the bodies involved are three (ECB, Board and national competent authorities), none of them having exclusive powers.

When those conditions have been verified, the Board adopt (with a preliminary decision, not yet final) the draft resolution scheme and transmit it immediately to the Commission, which for the purpose of the procedure may be considered as the second “technical” resolution Institution. The Commission has the alternative, to solve in any case with the maximum possible speed (within twelve hours from receiving the scheme): to endorse the resolution scheme drawn by the Board, or to raise objections on existence of the public interest conditions or on the entity of the funds required. When the evaluation of public interest is involved, even the Commission’s decision is not final because the last word is for the Council, due to its “general” relevance. The Council will decide with simple majority. Whether the Council decides that the condition of public interest is not matched, the possible failing of the bank is a matter of pure national law and wound up by the domestic law and courts. The Board will watch and instruct the national competent authorities.

The resolution scheme will enter into force in twenty-four hours from its transmission to the Commission, if no objection is raised. Alternatively, in case of reasoned objections by the Commission or by the Council, the Board must comply with the reasons expressed, modifying accordingly its original scheme.

6. The discipline here summarized is in line with the principle of delegation of powers to agencies, as interpreted by the Court of Justice in the famous Meroni case (13.6.1958, case 9/56) and now reconsidered in a new perspective by the ESMA case (22.1.2014, C-270/12). In brief, as stated in the opinion of the Council legal service of 7.10.2013, no delegation can be presumed and thus an explicit decision to delegate must be taken; a delegation of powers cannot be excluded even in the absence of a specific basis for it in the Treaty; any delegation of powers where the conferred powers are broader than those of the delegating authorities is unlawful; a delegation involving discretionary powers implying a wide margin of discretion would imply an illegal transfer of responsibility, altering the balance of powers; the delegation should be subjected to precise rules.

Here the adoption of the resolution scheme drafted in most cases by the Board - as the body with the necessary operative independence – is not final, involving both the Commission and the Council. Furthermore, in the cited ESMA judgement the Court of Justice has explained that a delegation of specific powers to a body with a particular expertise does not imply a true transfer of responsibilities, where the delegate body will substitute the delegating authority.

The resolution scheme may have a wide scope, with different measures assumed according to the characteristics of the failing bank, as sale of business, establishing of a bridge-institution, bail-in, asset separation, etc. In any case the resolution scheme shall establish the details of the tools to be applied to the institution under resolution.

This phase has here a limited consideration because it goes beyond the scope of the paper, focused on the procedural connection between early intervention and beginning of resolution.

7. After the analysis of the new discipline, some general remarks on the Single Resolution Mechanism governance.

According to the initial proposal by the Commission, all the resolution procedure should have been centred on the Board, operating in coordination with the Commission and under the EBA rules. The Board has consequently been designed in a new way, in comparison with the general model of the European agencies and even with the recent three European Supervisory Authorities established in 2010 (European Banking Authority; European Securities and Markets Authority; European Insurance and Occupational Pensions Authority).

Regulation 2014” provides that the Board shall be the body responsible for the effective and consistent functioning of the SRM. Legally, “a European agency with specific structure corresponding to its tasks” (art. 38, para. 1). It should act independently and have the capacity to deal with large banking groups, to act swiftly and impartially, to ensure that appropriate account is taken of national financial stability, financial stability of the Union (“Whereas 19). As a collegiate body, the Board is composed by a full time Chair and four further full time independent members, plus a member appointed by each participating Member States, representing the national competent authorities. The Board will act in plenary and executive sessions (the Chair and the four independent members). As a rule the Board adopt decisions in plenary session, but the crucial decisions requiring expertise and independence are assumed in executive session. If a possible comparison is possible, the only body with some similarities with the Board is the ECB.

The institutional choice of the SRM confirms that, as like the States, the European Union shapes the administrative bodies according to the character of the conferred functions.

However, after the sharp discussion on the first “Regulation 2014” draft, the final compromise of March 2014 has eased the Board’s centrality in the Resolution Mechanism. The mitigation of the Board’s powers is evident both in the reduction of its autonomous initiatives and in the assessment of resolution conditions and the subsequent drawing of the resolution scheme, where, in addition to the powers of the Commission, it has been provided a final competence to the Council. This reshaping of competences is due, under the institutional compromise, to the political relevance of resolution when significant European banks are involved as well as to the evaluation of the general public interest of the case, which can be appreciated in full only by a combination of powers of expert (neutral) bodies and of the “political” institution (the Council).

A second general remark relates to the character of the resolution procedure. The legislative acts which now discipline the SRM provide a procedure so rigid and detailed to become in itself a factor of complexity. Obviously, only the next implementing experience will show whether this view is correct, but surely the wording and the length of “Regulation 2014” and of “BRRD 2014” (only the latter is more than five hundred pages long) is not compatible with the need for a “market compatible” law, easy to understand and to manage.

It is hoped that if the next implementing experience confirms the risk of rigidity it will be possible to amending and to simplify the discipline here considered. Wisely, “Regulation 2014” provides this opportunity saying that the Commission is empowered to review the application of the Regulation in order to assess its impact and to establish if any modifications or further developments are needed in order to improve the efficiency and effectiveness of the SRM.

A third and final remark relates to the risk that a discipline so complex and of difficult managing may cause unacceptable legal and economic breaches to the rights of the banks involved and of their shareholders.

The resolution mechanism is per se a procedure which makes European a function traditionally falling in the sovereignty of the States and of their laws; furthermore, it impinges on many issues of private law beyond (or perhaps in contrast with) the limits of the competences conferred to the Union. The “intrusion” of the resolution procedure can become unbearable if the many players involved in the Mechanism overlap themselves with possible delays and inconsistencies; especially in case of leaks of sensible information/data on the bank, increasing its difficulties.

An opportune balance with some of these risks is now the provision – yet assumed after much contrast – that all the acts assumed in the procedure could be reviewed by the Court of Justice (to be here considered as the EU Judiciary, including the General Court, under art. 19 TEU). The principle implies that also the acts related to the phases here considered may therefore be justiciable, even very technical.

As provides by “Whereas” 69a and art. 75 of the “Regulation 2014”, the Court of Justice should have jurisdiction to review the legality of decisions adopted by the Council, the Commission and the Board, in accordance with art. 263 TFEU (action for annulment) or art. 265 TFEU (failure to act), as well for determining their non contractual liability. Furthermore, the ECJ has, according to art. 267 TFEU, competence to give preliminary rulings upon request of national jurisdictional authorities on the validity and interpretation of acts of the institutions, bodies or agencies of the Union.

The framework of the legal guarantees is completed by an interesting system of “ administrative justice” – peculiar to the SRM – provided by art. 77b “Regulation 2014”, according to which the interested party (as a rule the bank under resolution, but also the resolution authorities) may appeal against a decision of the Board which is addressed to that person or which is of direct and individual concern to that party. The appeal shall be considered by the Appeal Panel, a quasi-judicial body(not a court) composed by five persons of high reputation.

At last, we can affirm that the European legislators on banking union have been fully consistent in providing a legal discipline for the connection between supervision and resolution. A centralised supervision, as now in operation, without a link with a new resolution mechanism at European level would have been a function deprived of any effectiveness; vanishing the banking union itself. However, the discipline here considered is very complex, as result of an institutional compromise; it can operate only if the players will act in mutual trust and spirit of cooperation.


 

1The law is as stated on the 30th April 2014. Two recent legislative acts, the Regulation on SRM and the Directive establishing a framework for the recovery and resolution (BRRD), are not yet published in the EU Official Journal. These acts are quoted in a simplified form (“Regulation 2014” and “Directive 2014”, or BRRD). When published, the official texts might present some changes with the final drafts here considered.

Nomina del Prof. Mario P. Chiti quale membro della Commissione per le riforme costituzionali

Il Prof. Avv. Mario P. Chiti  è stato nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Letta, membro della Commissione per la riforma costituzionale.

Compito della Commissione - costituita con recentissimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri - è di elaborare un progetto di riforma dell'attuale Costituzione, che sarà poi sottoposto allo speciale Comitato parlamentare composto da venti senatori e venti deputati.

La Commissione è stata insediata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 6 giugno scorso. 

Il Prof. Chiti intende approfondire specialmente, nel quadro del lavoro collegiale della Commissione, le problematiche della pubblica amministrazione e le problematiche della nostra partecipazione all'Unione europea. Infatti, la pubblica amministrazione è stata riformata con molte innovazioni a partire dal 1990, ed occorre ridefinire i principi generali in Costituzione. Per quanto riguarda poi l'Unione europea, l'Italia è l'unico dei grandi Stati membri a non avere un preciso "articolo europeo" nella propria Costituzione; ciò che accentua le nostre note difficoltà ad un'efficace partecipazione al processo di integrazione.

 

La crisi del debito sovrano e le sue influenze per la governance europea, i rapporti tra stati membri, le pubbliche amministrazioni

Mario Pilade Chiti

Sommario: 1. La crisi e la rilevanza del diritto. – 2. I limiti del Trattato di Lisbona a fronte dei problemi posti dalla crisi. – 3. Le misure assunte dalle istituzioni dell’Unione, entro ed al di fuori del quadro giuridico dell’Unione. – 4. Il Meccanismo europeo di stabilità. – 5. Le contestazioni giudiziarie al Meccanismo europeo di stabilità. – 6. Segue: il giudizio della Corte di giustizia nel caso Pringle. – 7. Il quadro attuale delle riforme e la sua disomogeneità. – 8. L’evoluzione della governance dell’Unione. 9. Il ruolo delle pubbliche amministrazioni.

1. A distanza di più di quattro anni dall’inizio della grande crisi finanziaria ed economica, e senza che ancora se ne avverta la fine, si moltiplicano gli studi giuridici che analizzano le iniziative assunte per fronteggiarla ed i principali cambiamenti istituzionali che, a cagione di essa, si sono determinati negli ordinamenti nazionali e nella dimensione sovranazionale. Si è infatti ben presto avvertita la consapevolezza che la crisi, tanto profonda ed ampia, stava determinando innovazioni giuridiche di rilievo, nuovi assetti nella governance europea e nazionale, ed una serie di effetti sull’amministrazione pubblica, cui compete principalmente la realizzazione delle misure per rispondere alle sfide poste dalla crisi.

Nella prospettiva giuridica, rispetto alla precedente grande crisi economica del 1929, l’attuale è caratterizzata da tre principali novità: un rilevante ruolo del diritto; l’ordinamento sovranazionale europeo, con le sue istituzioni subito intervenute, prima con misure emergenziali, poi con una più compiuta strategia; la stretta interrelazione, senza precedenti, tra le decisioni degli Stati e delle organizzazioni sovranazionali ed internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale1.

Le novità sono particolarmente rilevanti nell’ambito dell’Unione europea, in quanto per rispondere alle ineludibili questioni poste dalla crisi sono state assunte misure originali ed in parte anche oltre il sistema giuridico dell’Unione. Sono infatti apparse obsolete varie previsioni del Trattato di Lisbona, prima ancora che entrassero in vigore il 1° dicembre 2009. Si è così avuta un’accelerazione dell’integrazione sovranazionale sino ad allora impensabile, con caratteri originali che hanno determinato il definitivo superamento del tradizionale “metodo comunitario” di integrazione; aprendo scenari inediti, da chiarire e ricomporre nel prossimo futuro.

Questo saggio è incentrato sui profili europei, precisamente su quelli interni all’Unione europea – sia verticalmente per i rapporti Stati membri-Unione, che orizzontalmente per i rapporti tra Stati membri – e sulle conseguenze che la crisi sta producendo per l’amministrazione pubblica europea e per le amministrazioni pubbliche nazionali. L’obbiettivo è un bilancio giuridico dei molteplici eventi succedutisi dal 2008; pur nella consapevolezza che si tratta di una valutazione inevitabilmente provvisoria, considerato che ulteriori sviluppi sono in corso ed altri avverranno nel prossimo futuro; almeno sino a quando la crisi finalmente si attenuerà, per poi concludersi definitivamente.

2. Dalla dimensione bancaria-finanziaria, ovvero dal fallimento della Banca Lehman Brothers e della insolvenza di altre grandi banche, la crisi ha virato rapidamente verso l’economia generale ed ha indotto ad alzare il velo su questioni sistemiche che si erano occultate o non adeguatamente considerate. Con un ulteriore rapido passaggio, la crisi ha mostrato che il rischio non si limitava a particolari operatori finanziari o settori produttivi, ma coinvolgeva direttamente il debito sovrano di alcuni Stati membri, specialmente dell’Eurozona, con concreti pericoli di loro insolvenza.

A fronte di una situazione così drammatica, l’Unione europea ha scoperto di non essere attrezzata; neanche con alcune previsioni essenziali del proprio diritto primario. In effetti, la caratteristica dell’Unione è stata finora quella di una “Comunità di benefici”, assai diversa da una piena “Comunità dei benefici e dei rischi” in cui i soggetti partecipanti condividono non solo i benefici e le opportunità, ma anche i rischi connessi allo stare insieme nel medesimo sistema. Tanto meno esisteva, sino al Trattato di Lisbona, un principio di solidarietà verso gli Stati membri in situazioni di crisi; ora introdotto in modo timido e per particolari ipotesi, come quelle previste all’art. 122 TFUE di cui si dirà.

Il Trattato Comunità europea (TCE), inizialmente, e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), oggi, hanno previsto vari principi sul vincolo di bilancio e sulla sana amministrazione; tanto importanti da essere considerati principi costitutivi, “inerenti” al sistema dell’Unione. Ma nei Trattati nulla vi era (e neanche vi è nel recente di Lisbona) per rispondere ai problemi posti dalla crisi del debito sovrano di vari Stati.

Il vincolo di bilancio è stato definito puntualmente nel Trattato di Maastricht del 1992 con limiti percentualmente stabiliti rispetto al PIL sia per il deficit che per il debito pubblico. Il vincolo è divenuto più stringente con il Patto di stabilità e crescita del 1997, prevedendosi ulteriori limiti per il deficit annuale e la regola che i bilanci annuali devono tendere al pareggio; tuttavia, senza prevedere le condizioni di buona gestione finanziaria ed i risultati da mantenere dopo l’ingresso nell’Euro. Considerato che tali regole erano state disattese da quasi tutti gli Stati membri, si preferì passare da un metodo rigido, ma scarsamente efficace, a metodi più flessibili ispirati al Metodo definito “aperto di coordinamento”2. Anche il nuovo Metodo non ha dato, però, i frutti sperati. E’ iniziata così la lenta e controversa marcia per il superamento dei disavanzi eccessivi e per il coordinamento delle politiche economiche con regole formalizzate nel vigente TFUE all’art. 126 (già art. 104 TCE), in combinato con l’apposito Protocollo allegato3. Per quanto si tratti di uno sviluppo di grande importanza, la sua incidenza era assai lontana dalle necessità poste dalla crisi apertasi nel 2008. Da qui l’ulteriore rafforzamento con il Trattato FiscalCompact, più avanti analizzato.

L’altro elemento caratterizzante il sistema pre-crisi è stata la moneta unica, con le sue istituzioni di riferimento, principalmente la Banca centrale europea. A differenza del tema dei vincoli di bilancio, l’Euro avrebbe potuto essere l’inizio di una fase decisamente nuova per l’Unione europea – o almeno quella parte di Stati membri che vi hanno voluto partecipare, la c.d. Eurozona – tale da assicurare uno scenario appropriato per rispondere alla crisi. Ma è noto che se la scelta di dotarsi della moneta unica è risultata innovativa rispetto al Mercato unico ed al Sistema monetario europeo, rimaneva depauperata di appropriata incisività per carenza di adeguate misure di sostegno. Principalmente per la mancanza di un vero sistema di governo centralizzato dell’economia e per la formale carenza nella BCE di prerogative capaci di assicurare la gestione della politica monetaria; un governo dell’economia separato dal governo della moneta unica. Come è stato rilevato4, “si è perseguita la creazione di una moneta unica senza preoccuparsi di dotarla delle necessarie strutture di sostegno. Il governo della moneta è rimasto separato da quello dell’economia”. Pur con questi limiti, già prima del 2008 l’Eurozona si è progressivamente qualificata come un’area giuridicamente ben distinta all’interno dell’Unione, incubatrice per le innovazioni poi resesi necessarie per reagire alla crisi.

Il Trattato di Lisbona, per quanto qua interessa, ha solo perfezionato alcuni principi ed istituti precedenti, come quello sulla sorveglianza multilaterale delle politiche economiche degli Stati membri (art. 121 TFUE5, già art. 99 TCE); ma si è confermato non attrezzato all’irrompere della crisi.

L’articolo 125 TFUE6 (già art. 103 TCE) cui si era inizialmente pensato per trarne qualche opportunità si è anzi dimostrato un ostacolo alla “transfer Union”, ovvero alle esigenze di sostegno degli Stati in difficoltà, in quanto espressamente indirizzato ad escludere che per i debiti di uno Stato membro siano chiamati a rispondere l’Unione o altri Stati membri (“no Bail Out Clause”)7. Purtuttavia, come indicato dalla Corte di giustizia nella sentenza Pringle del 20128, tale disposizione ha qualche utilità, in quanto non vieta all’Unione e agli Stati membri la concessione di qualsiasi forma di assistenza finanziaria ad un altro Stato membro.

Anche l’art. 122 TFUE9 non si è dimostrato appropriato, malgrado l’esplicito riferimento – per la prima volta nel Trattato – allo “spirito di solidarietà tra Stati membri”. Il primo comma prevede possibili interventi speciali, decisi dal Consiglio, qualora in uno Stato membro sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti; in particolare nel settore dell’energia. Si tratta dunque di un’ipotesi ben definita, che riguarda la temporanea carenza di taluni approvvigionamenti. Il secondo comma prevede misure più ampie, di assistenza finanziaria dell’Unione a Stati membri che si trovino in difficoltà o siano seriamente minacciati da gravi difficoltà causate da fattori esterni (calamità naturali e circostanze eccezionali che sfuggono al controllo dello Stato interessato). In tali casi il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere misure finanziarie di sostegno, secondo un principio di solidarietà condizionato all’ottemperanza dello Stato membro alle prescrizioni impartite. Laddove la crisi faceva emergere – prima per Grecia e Irlanda, poi per Portogallo e Spagna; poi ancora per l’Italia – situazioni né eccezionali, né causate da fattori esterni; bensì prevedibili ed in larga misura dovute a politiche nazionali dello Stato interessato.

La terza disposizione del TFUE (art, 143, c. 2; già art. 119 TCE) invocata quale possibile base legale per interventi finanziari di sostegno è estranea al problema della crisi del debito sovrano degli Stati membri dell’Eurozona, perché – come confermato dalla Corte di giustizia nella citata sentenza Pringle del 2012 – riguarda solo gli Stati membri la cui moneta non è l’euro.

3. Non appena la crisi ha investito il debito sovrano di alcuni Stati membri, le istituzioni dell’Unione, specialmente il Consiglio europeo, hanno iniziato a definire una serie di interventi dentro ed al di fuori della cornice istituzionale dell’Unione e della stessa Eurozona; dapprima con decisioni alquanto estemporanee e poco incisive, poi con misure sistemiche10. Se è vero che la crisi è risultata più grave e duratura del previsto, spiazzando di volta in volta con i suoi sviluppi i tentativi di risposta dell’Unione, non si può certo dire che le istituzioni europee non abbiano preso sul serio la questione.

Le prime misure hanno riguardato la Grecia, che già nel 2009 è risultata lo Stato in maggiore difficoltà. Gli interventi sono stati inizialmente di tipo bilaterale, con particolari prestiti bancari da parte di Stati membri dell’Eurozona, con il supporto del Fondo monetario internazionale, senza attentare al principio di “divieto di salvataggio” (no Bail Out) posto dal citato art. 125 TFUE.

La palese insufficienza di queste misure rispetto alla gravità della crisi, ha indotto a creare nuovi strumenti multilaterali (noti come Facilities), che sono stati basati giuridicamente sull’art. 122, c. 2, TFUE; dunque, con tutti i limiti propri di questa disposizione palesemente estranea a situazioni di strutturale crisi del debito sovrano di Stati membri. Gli interventi sono consistiti nella costituzione nel 2010 dell’European Financial Stability Facility e, poi, dell’European Financial Stability Mechanism (EFSM)11. Lo stato di emergenza in quell’anno ha fatto inizialmente accantonare i problemi connessi alla base giuridica degli interventi; tuttavia, occorre riconoscere l’inconsistenza della tesi dell’art. 122 TFUE quale legittima base giuridica di siffatti interventi equale norma di deroga all’art. 125 TFUE; stante la stessa ratio delle due disposizioni ben colta nella sentenza del Bundesverfassungsgericht del 7 settembre 2011 sugli aiuti alla Grecia.

I due strumenti non hanno precisi precedenti nel diritto della Comunità europea e dell’Unione. L’EFSF è una società di diritto comune lussemburghese, a carattere temporaneo per tre anni, i cui soci sono gli Stati dell’Eurozona. Suo compito è assicurare prestiti agli Stati della medesima Eurozona a rischio insolvenza, con forti condizioni. La Società è finanziata dagli Stati aderenti ed ha la possibilità di emettere obbligazioni garantite dagli Stati soci. L’EFSF ha potuto operare immediatamente, grazie alla sua configurazione come società di diritto comune lussemburghese; ma palesemente il suo ruolo è stato temporaneo, nelle more di più organici interventi (come il successivo Meccanismo europeo di stabilità). Anche l’EFSM è un organismo emergenziale, ma costituisce un Fondo dell’Unione che attinge risorse nel suo bilancio e ha rappresentato l’avvio di una configurazione giuridica più stabile di intervento straordinario, con la rimarchevole particolarità – considerando le misure successive – di rimanere ancora all’interno dell’Unione, attuando le indicazioni del Consiglio europeo.

Al di là della limitata incidenza finanziaria di questi interventi, le prime iniziative hanno confermato la carenza nei Trattati di previsioni appropriate per un’efficace politica di interventi dell’Unione in sostegno a Stati membri in difficoltà. In particolare, si è mostrata inconsistente la base giuridica delle misure per costituire le Facilities, atteso che l’art. 122 TFUE consente – come già accennato – di accordare sostegno a Stati membri in condizioni speciali per circostanze eccezionali che sfuggono al loro controllo; condizione che certo non poteva configurarsi per gli Stati interessati (al tempo, Grecia, Portogallo, Irlanda).

Alle iniziative del Consiglio europeo e della Commissione si sono affiancate altre – del tutto originali – della Banca centrale europea. Basti per ora richiamare il c.d. Securities Market Programme; insieme di misure per tenere sotto controllo il debito sovrano di alcuni Stati tramite acquisti di loro titoli di debito pubblico anche sui mercati secondari ed il finanziamento di alcune banche “strategiche” ai fini della stabilità dei mercati.

Parallelamente a queste iniziative emergenziali per contenere il dilagare della crisi, efficacemente definite nel gergo comunitario come “Firewalls”, si è acquisita la consapevolezza che solo un intervento organico dell’Unione avrebbe potuto efficacemente contrastare la situazione. A tal fine, l’iniziativa è stata assunta dal Consiglio europeo che ha dato all’Unione “gli impulsi necessari al suo sviluppo”, definendone “le priorità politiche generali” (così suona l’art. 15 TUE), ed ha assunto direttamente decisioni e misure operative, poi sviluppate dalla Commissione. Così, il Consiglio europeo ha avviato nel marzo 2010 un progetto di iniziative strategiche, creando una Task Force di carattere intergovernativo, coordinata dallo stesso Presidente Van Rompuy, incaricata di individuare un pacchetto organico di misure ed una riforma generale della governance economica europea.

Merita notare per questa fase un avvio parallelo di progetti da parte del Consiglio e della Commissione, che poi si incontrano sinergicamente nel c.d. Six Pack; un pacchetto di sei atti normativi, cinque regolamenti ed una direttiva, finalizzato al rafforzamento della vigilanza preventiva sulle politiche economiche nazionali ed a sanzionare eventuali squilibri eccessivi di carattere macroeconomico.

Per quanto anomala sia risultata l’iniziativa delle proposte per il ruolo determinante del Consiglio europeo, gli atti normativi utilizzati a tal fine sono stati quelli tipizzati nel TFUE (regolamenti e direttive), come pure tipizzati sono stati i procedimenti legislativi seguiti dopo l’anomalo avvio. L’utilizzo di ben cinque regolamenti indica la volontà delle istituzioni di vincolare il più possibile gli Stati membri a regole comuni in aree particolarmente sensibili per le politiche economiche, quali la sorveglianza delle posizioni di bilancio, della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche (regolamento UE n. 1175/2011); la prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici (regolamento UE n. 1176/2011); le modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (regolamento UE n. 1177/2011). Rilevante anche la circostanza che l’uso della procedura ordinaria di approvazione dei regolamenti ha comportato la codecisione del Parlamento europeo; così che tutte le istituzioni politiche (Commissione, Parlamento e Consiglio) hanno concorso all’approvazione del Six Pack.

Una seconda iniziativa legislativa è stata avviata e definita in tempi rapidissimi. Si tratta della costituzione di tre nuove Autorità europee di vigilanza bancaria (Autorità bancaria europea, nota con l’acronimo inglese di EBA), assicurativa (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali, EIOPA) e finanziaria (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, ESMA), istituite con regolamenti (nn. 1093, 1094 e 1095 del 24 novembre 2011) approvati con la procedura ordinaria in codecisione con il Parlamento europeo. Le tre Autorità hanno caratteri omogenei, con funzioni di governo dei rispettivi settori per assicurarne la stabilità e l’efficienza, nonché funzioni di coordinamento delle autorità nazionali. Precisamente, le Autorità dispongono di funzioni normative, di indirizzo e di vigilanza; oltre ad altre funzioni specifiche come la consulenza nei confronti delle istituzioni; la gestione della crisi e del rischio sistemico; la soluzione delle controversie tra autorità nazionali.

Per quanto affini per taluni aspetti alle agenzie europee che sono state istituite negli ultimi decenni, le nuove Autorità hanno caratteri originali quali organi dell’Unione e come vertice dei sistemi delle autorità nazionali di settore; con poteri di regolazione12 e di coordinamento, tanto rilevanti da far dubitare sulla compatibilità con il sistema organizzativo previsto dal Trattato di Lisbona, che ancora riflette la sostanza della c.d. “dottrina Meroni” sull’equilibrio istituzionale nell’ambito dell’Unione (Corte di giustizia, sentenza 13 giungo 1958, Meroni/Alta Autorità, causa 9/56). Non per caso, la Commissione il Regno Unito hanno presentato alla Corte di giustizia un ricorso su un punto chiave del regolamento operativo dell’ESMA (n. 236/2012) che parrebbe mettere a rischio il principio.

Nello stesso periodo è stato approvato il Patto Euro Plus ed avviata la procedura per l’adozione del “Semestre europeo di bilancio”.

Il Patto Euro Plus è un accordo internazionale per coordinare le politiche degli Stati aderenti, finalizzato ad assicurare una loro maggiore competitività, accrescere l’occupazione e rendere sostenibili le finanze pubbliche. A differenza delle misure prima esaminate, il Patto è atipico rispetto al diritto dell’Unione; ma non estraneo. Infatti, pur essendo – come detto – formalmente un accordo internazionale, è richiamato nel diritto dell’UE quale atto allegato alle conclusioni del Consiglio europeo del marzo 2011. E’ stato sottoscritto da 24 Stati, ovvero da un numero assai maggiore di quelli dell’Eurozona. Le previsioni sui vincoli di bilancio sono rifluite nel citato Trattato di Bruxelles del febbraio 2012.

Il Semestre europeo è una procedura che mira a realizzare un efficace coordinamento preliminare delle politiche di bilancio ed economiche degli Stati aderenti e ad assicurare un’adeguata sorveglianza delle loro politiche economiche e di bilancio. A tal fine, sulla base di raccomandazioni del Consiglio e della Commissione, gli Stati presentano alla Commissione europea, entro il mese di aprile di ciascun anno i propri programmi di stabilità e convergenza; nonché i piani nazionale delle riforme. I documenti nazionali sono vagliati dalle istituzioni europee, in contraddittorio con lo Stato membro, e poi finalmente presentati ai parlamenti nazionali nel secondo semestre per la definitiva approvazione13.

Significativamente, a fianco delle iniziative promosse dal Consiglio europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, è intervenuta la BCE con un programma straordinario di misure per tentare di mettere in sicurezza l’euro. Oltre al già citato Securities Market Programme, va ricordato l’acquisto di titoli pubblici degli Stati europei più in difficoltà e rilevanti finanziamenti alle loro banche. Gli interventi della BCE non hanno avuto una precisa base giuridica ed anzi sono apparsi ultronei rispetto alle sue competenze per assicurare la stabilità dei prezzi, in sostanziale violazione della regola generale del “no Bail Out”. Tuttavia, è prevalsa la tesi – oltre all’ovvio rilievo della straordinarietà del momento – che la stabilità dei prezzi, missione principale della BCE, non può certo essere garantita in una situazione di grande instabilità monetaria.

4. Nel breve volgere di due anni il continuo aggravarsi della crisi ha manifestato l’insufficienza della base giuridica cui sino a quel momento avevano fatto ricorso le istituzioni europee; come detto, principalmente l’art. 122 TFUE. Da qui la decisione del Consiglio europeo, nelle riunioni del dicembre 2010 e del marzo 2011, di avviare la procedura semplificata di revisione – prevista dall’art. 46, c. 6, TUE – per aggiungere all’art. 136 TFUE un nuovo comma con cui, per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, si autorizza la creazione di un Meccanismo permanente a tutela della stabilità monetaria, da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme.

Con questa riforma del TFUE – per cui vi erano i necessari presupposti giuridici e le connesse condizioni; in particolare, il limite della non estensione delle competenze dell’Unione, come chiarito dalla Corte di giustizia nella citata sentenza Pringle – è stato possibile superare il sistema, assai gracile giuridicamente e quasi inesistente nei risultati concreti, delle precedenti Facilities di cui il Meccanismo europeo di stabilità assume il ruolo, sostituendole. Ma la creazione del MES è avvenuta con un atto internazionale, al di fuori del sistema dell’Unione14, per quanto connesso ad esso in vario modo: il Trattato concluso a Bruxelles il 2 febbraio 2012 dagli Stati della zona euro15; senza una vera giustificazione giuridica, vista l’intervenuta modifica dell’art. 136 TFUE.

Il MES è qualificato (art. 1 Trattato) quale istituzione finanziaria internazionale dotata di personalità giuridica16. Per un verso, con molti tratti che l’avvicinano al sistema giuridico dell’Unione europea; per l’altro, con talune caratteristiche originali che solo la prossima esperienza attuativa farà meglio comprendere, come la regola delle decisioni non all’unanimità, ma a maggioranza qualificata. Possono aderirvi solo gli Stati membri dell’Unione; la sua operatività è strettamente funzionalizzata alla politica economica e monetaria comune; i suoi atti sono giustiziabili davanti alla Corte di giustizia (art. 37, c. 3, Trattato) in caso di contestazioni di uno Stato membro, dopo una procedura interna di ricorso decisa dal Consiglio dei Governatori (art. 37, c. 2, Trattato). La presidenza del Consiglio dei Governatori può essere affidata al Presidente dell’Eurogruppo; alle sedute del Consiglio partecipano il Commissario europeo per gli affari economici e monetari e il Presidente della BCE.

Per quanto il MES sia istituzione internazionale collegata all’UE, ha caratteristiche originali che la prossima esperienza attuativa farà meglio comprendere, esempio, come detto, la regola delle decisioni non all’unanimità, ma a maggioranza qualificata. Missione principale del MES è, per l’art. 3 del Trattato istitutivo, di “mobilizzare risorse finanziaria e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabili per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri”.

La capacità di finanziamento del MES è largamente superiore a quella delle precedenti Facilities, in quanto il MES ha un rilevante capitale sottoscritto dagli Stati membri17, con una corrispondente capacità di prestito. Inoltre, il MES può raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi. Gli interventi possono consistere in prestiti di vario tipo, sempre condizionati, o in acquisto di titoli di debito sovrano sul mercato primario e su quello secondario. Le condizioni dei prestiti sono particolarmente rigorose e possono giungere alla definizione di un programma di condizioni macroeconomiche.

5. Le caratteristiche “forti” ed originali del MES hanno sollecitato ricorsi in alcuni Stati membri avverso il Trattato di Bruxelles, per asserite incostituzionalità nazionali e/o per violazioni del diritto dell’Unione18; talora unendo nelle contestazioni anche il successivo Trattato Fiscal Compact19, di cui si parlerà. Il contenzioso era potenzialmente devastante, per l’ampiezza dei motivi addotti; in particolare, il ricorso al Bundesverfassungsgericht tedesco sulla legge di ratifica del Trattato istitutivo del MES e del Trattato Fiscal Compact, ove accolto, avrebbe minato l’intera costruzione elaborata dalle istituzioni dell’Unione per rispondere alla crisi; oltre che bloccare ogni altra incisiva iniziativa. L’attesa per la decisione del BVerfG era dunque particolare, vista la recente giurisprudenza dei Giudici di Karlsruhe sul Trattato di Lisbona e le prime iniziative dell’Unione per gli aiuti agli Stati membri in difficoltà20, in cui si è progressivamente attenuato il carattere “Europafreundlich” della Corte tedesca21.

Con il giudizio del 12 settembre 2012 – interlocutorio, ma egualmente assai articolato (oltre 50 pagine) e sostanzialmente decisorio – il BVerfG ha rigettato le richieste interinali dei ricorrenti con un giudizio che conferma l’impianto complessivo del MES. Ma, da una parte, ribadendo il carattere dell’Unione quale organizzazione internazionale; dall’altra, accentuando il ruolo del Bundestag, per cui non basta l’approvazione degli aiuti dell’Unione agli Stati membri in crisi, ed è necessaria una diretta vigilanza sulla gestione di tali fondi da parte degli Stati beneficiari.

La stessa sentenza ha trattato anche la questione collaterale, formalmente diversa dalle questioni sull’istituzione del MES, della legittimità di talune iniziative assunte dalla Banca centrale europea in difesa dell’Euro, nel contesto del Securities Market Programme. Era in particolare contestata l’iniziativa della BCE di acquistare sul mercato secondario titoli di debito pubblico degli Stati in crisi, in quanto priva di base giuridica e non giustificabile con il mero richiamo della straordinarietà della situazione quale fonte del diritto. Al riguardo, il BVerfG, pur rinviando una completa motivazione alla sentenza di merito, è stato particolarmente rigido ed ha negato “licenza bancaria” alla Banca centrale perché il finanziamento al di fuori dei mercati primari aggirerebbe il divieto di finanziamento monetario dei bilanci degli Stati in crisi (art. 123 TFUE).

La sentenza del BVerfGè stata apprezzata negli ambienti europei per il “salvataggio” del MES, ma è apparsa oltremodo discutibile22 per non essersi limitata alle verifiche di costituzionalità degli atti nazionali necessari per assicurare l’operatività del nuovo organismo, tracimando su questioni di puro diritto europeo – tanto sul MES che sulla BCE – che sono riservate alla Corte di giustizia. In particolare, risulta ultra vires il giudizio di compatibilità del Trattato istitutivo del MES con l’art. 123 TFUE.

6. La contestazione più forte sulla modifica al TFUE e sulla conseguente istituzione del MES è venuta dal ricorso di un parlamentare irlandese – Thomas Pringle – con un ricorso ai giudici del suo Paese, nel cui procedimento la Corte suprema irlandese ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, decisa con la già citata sentenza 27 novembre 2011, C-370/12.

La questione pregiudiziale posta alla Corte di giustizia si articolava in due punti: la validità della citata decisione del Consiglio per asserita violazione del sistema di competenze dell’Unione; il possibile contrasto del Trattato MES con varie disposizioni del TUE e del TFUE. Circa la prima questione, la controversia verteva sull’illegittimo uso della procedura semplificata di revisione del TFUE, in quanto questa varrebbe solo per le politiche ed azioni interne dell’Unione e non può essere estesa alle competenze dell’Unione attribuite dai Trattati. Sulla seconda questione, poi, si è sostenuto che il Trattato MES avrebbe attentato alla competenza esclusiva dell’Unione in materia di politica monetaria; nonché alle competenze dell’Unione per il coordinamento della politica economica e per la conclusioni di accordi internazionali, quando tale conclusione può influire sulle norme comuni o modificarne la portata.

L’interpretazione della Corte di giustizia è stata contraria alla prospettazione sostenuta dal ricorrente davanti alla Corte irlandese23. Circa la competenza degli Stati membri a concludere accordi come quello per il MES, la Corte di giustizia ha ribadito il generale principio – scaturente dal diritto internazionale e dal diritto europeo – secondo cui la competenza degli Stati membri dell’Unione a concludere accordi internazionali sussiste alla condizione che gli impegni così assunti rispettino il diritto dell’Unione. Nel caso, il MES non attenta alle competenze dell’Unione in materia di politica monetaria in quanto il suo obbiettivo è la tutela della zona euro nel suo complesso. Così si distingue dall’obbiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi, carattere principale della politica monetaria dell’Unione; e rientra nel coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Precisamente, il MES rappresenta un elemento complementare del nuovo quadro normativo per il rafforzamento della governance economica dell’Unione; senza al contempo estendere le competenze attribuite all’Unione dai Trattati.

L’art. 136 TFUE, come modificato, su cui si basa la decisione istitutiva del MES “non crea alcuna base giuridica che consenta all’Unione di avviare un’azione che non era possibile prima dell’entrata in vigore delle modifiche al TFUE” (para. 73). Il MES è organismo di finanziamento degli Stati membri, non di coordinamento delle loro politiche economiche. Inoltre, la sua istituzione non viola alcuna norma del TFUE ed in particolare la clausola di “divieto di salvataggio” (no Bail Out) posta dall’art. 125 TFUE, perché questa disposizione non vieta la concessione di assistenza finanziaria da parte di uno o più Stati membri ad un altro Stato membro che resta responsabile dei propri impegni nei confronti dei suoi creditori; purché le condizioni collegate a siffatta assistenza siano tali da stimolarlo all’attuazione di una politica di bilancio virtuosa. Per quanto attiene alle pretese alterazioni nelle competenze delle istituzioni, la Corte di giustizia ritiene che l’attribuzione da parte del Trattato MES di nuovi compiti alla Commissione, alla BCE ed alla Corte è compatibile con le loro attribuzioni definite nei Trattati. Essendo il MES fuori dall’ambito dell’Unione, tali nuovi compiti attribuiti alle istituzioni sono compatibili con il diritto dell’Unione a condizione che non snaturino le loro competenze previste nel TFUE. Come nel caso avviene, secondo la Corte di giustizia, perché dal Trattato MES risulta che la Commissione e la BCE non ricevono alcun potere decisionale proprio; ma poteri prodromici/strumentali a quelli del nuovo organismo. Le competenze attribuite alla Corte, invece, sono ammesse dal principio generale posto dall’art. 273 TFUE secondo cui può esserle attribuita ogni controversia in virtù di una clausola compromissoria tra gli Stati membri.

La sentenza della Corte si conclude con l’asserzione che il MES non contraddice il principio generale di tutela giurisdizionale effettiva, in quanto il MES non attribuisce alcuna competenza specifica all’Unione e gli Stati membri non attuano il diritto dell’Unione; così che “non trova applicazione la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che garantisce a tutti una tutela giurisdizionale effettiva”. Si tratta di una conclusione formalmente ineccepibile e coerente con l’impostazione seguita dalla Corte di giustizia, ma che porta al risultato sorprendente di lasciare da parte uno dei maggiori diritti riconosciuti nella Carta dei diritti fondamentali (e dalla CEDU, cui ormai il TUE – art. 6, c. 2 e 3 – si richiama espressamente). Questo più che discutibile passaggio della sentenza ha almeno il pregio di indicare che è indilazionabile assicurare piena tutela giurisdizionale anche nei confronti delle misure assunte dal MES.

7. Al momento la situazione è lungi da un definitivo assetto24, ma egualmente si rinvengono coordinate abbastanza definite, tutte principalmente o esclusivamente riguardanti gli Stati dell’Eurozona, anche se in certi casi aperte ad una partecipazione ulteriore: a) riforme “interne” al sistema istituzionale dell’Unione, assunte con il tradizionale metodo comunitario (o con varianti non significative); b) riforme deliberate con atti internazionali, ma con un impianto strettamente connesso all’UE; c) riforme deliberate con atti internazionali e con caratteri nuovi, solo in parte connesse all’UE.

Gli esempi più chiari del primo tipo di riforme sono le Autorità europee di vigilanza, il complesso di misure del c.d. “Six Pack” e il “Semestre europeo”.

Delle nuove Autorità europee già si è sottolineata la novità anche rispetto alle più recenti agenzie europee, con un modello di funzioni accentrate e di forte impatto sui rispettivi settori. Per quanto assai originali, le Autorità sono state istituite con atti normativi tipici e si inseriscono senza traumi nell’assetto istituzione e funzionale dell’UE. Talune lacune, come per la giustiziabilità dei loro atti, dovrebbero trovare soluzione nella prima giurisprudenza dei giudici dell’Unione o con una rapida integrazione dei tre regolamenti istitutivi.

Del Six Pack approvato dal Consiglio europeo del settembre 2011 si è già pure indicato il carattere “interno” al sistema UE, perché complesso di misure (assunte con cinque regolamenti ed una direttiva), basato sull’art. 136 TFUE, volto ad integrare l’originario Patto di stabilità e crescita del 1997. Alcuni elementi originali del nuovo sistema – principalmente la nuova procedura di sorveglianza multilaterale e il reverse majority voting, che rafforza il potere decisionale della Commissione rispetto al Consiglio – non ne mettono certo in discussione la piena compatibilità con i principi e le regole dell’UE.

Il “Semestre europeo” approvato dal Consiglio europeo nel settembre 2011 su proposta della Commissione, a sua volta, configura una nuova procedura di bilancio per realizzare nell’Unione un miglior coordinamento preventivo delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri. Il Semestre europeo limita fortemente la tradizionale “sovranità nazionale di bilancio”25, in quanto per il primo periodo di ciascun anno si ha una procedura dialettica tra Commissione e Stato membro che inizia con iniziali raccomandazioni della Commissione, cui seguono la presentazione del programma nazionale di stabilità e convergenza – comprensivo della politica di bilancio e delle riforme e degli interventi strutturali – poi la verifica da parte della Commissione (in certi casi con il coinvolgimento anche del Consiglio). Solo dopo questa fase, più o meno di durata semestrale, inizia la fase nazionale del bilancio con la presentazione della proposta al parlamento nazionale.

Per l’effettiva realizzazione del nuovo quadro di governance economica, specie ai fini delle procedure di sorveglianza, sono essenziali i “quadri di bilancio” (Budgetary Frameworks) operanti dal 2013. Si tratta dell’insieme di strumenti, procedure ed istituzioni che regolano le politiche di bilancio, nelle fasi di preparazione, approvazione e gestione del bilancio26.

Per il secondo tipo di misure vale anzitutto ribadire il rilievo – già accennato in relazione alla sentenza del BVerfG – che per gli Stati membri dell’Unione non è precluso concludere trattati internazionali tra di loro, a condizione che tali trattati non mettano a repentaglio le obbligazioni scaturenti per gli Stati membri dal diritto dell’Unione. L’esperienza dell’integrazione europea ha già visto vari esempi di trattati internazionali conclusi tra Stati membri su temi non ancora comunitarizzati, come il controllo del traffico aereo (Eurocontrol del 1960) e la circolazione delle persone (Accordo e Convenzione di Schengen del 1985 e 1990). La seconda condizione è che tali trattati non riguardino materie di competenza esclusiva dell’Unione europea. E’ inoltre non controverso che in caso di contrasto con il diritto dell’Unione questo prevalga, anche quando il punto non è espressamente previsto (come invece all’art. 2, c. 2, del trattato Fiscal Compact).

E’ esempio di questo tipo di misure il Patto Euro Plus (o Patto per l’euro), adottato dal Consiglio europeo del marzo 201127 e poi formalizzato quale accordo internazionale concluso in forma semplificata e sottoscritto da 17 Stati dell’Eurozona e da 6 altri, mirato a rafforzare la competitività dei Paesi aderenti con maggiori impegni rispetto al Patto di stabilità. Si tratta di un accordo che prevede strumenti “leggeri” di intervento, senza carattere vincolante, sviluppando la politica di coordinamento avviata nel 2000 al Consiglio europeo di Lisbona, nota come Metodo aperto di coordinamento. I principali obiettivi del Patto sono lo stimolo alla competitività, la crescita dell’occupazione, la sostenibilità della finanza pubblica.

Tra le recenti misure del terzo modello la più importante è certamente il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance sull’unione economica e monetaria, noto come Fiscal Compact, con cui le parti contraenti si sono impegnate ad introdurre la regola del bilancio in pareggio nelle proprie costituzioni o in atti equipollenti28. Il Consiglio europeo del dicembre 2011 aveva deciso di procedere alla preparazione del Trattato, che è stato poi sottoscritto nel marzo 2012 da 25 Stati membri (con l’eccezione solo del Regno Unito29e della Repubblica Ceca), in vigore dal 2013 dopo la ratifica dei primi dodici Stati della zona euro o, altrimenti, quando tale circostanza si avvererà30.

Il modello istituzionale previsto dal Trattato è al di fuori del sistema dell’UE31, perché sottoscritto tra gli Stati nella loro veste di soggetti dell’ordinamento internazionale e non come Stati membri dell’Unione europea; ma ha una serie di previsioni “passarella” verso l’Unione e, in generale, è impostato in modo da essere assorbito nello stesso una volta risolto il periodo di adeguamento degli Stati contraenti ai maggiori impegni previsti. Per di più, all’art. 2, c. 2, del Trattato istitutivo si riconosce espressamente il primato del diritto dell’Unione.

La decisione di addivenire ad un nuovo trattato internazionale fu assunta, come detto, nel Consiglio europeo del dicembre 2011 per rafforzare gli impegni degli Stati dell’Eurogruppo per il raggiungimento degli obbiettivi comuni del “patto di bilancio”: riduzione progressiva del debito pubblico, pareggio di bilancio, convergenza verso gli obbiettivi di medio e lungo termine, e così via. Tutti finalizzati ad assicurare il pilastro economico dell’Unione economica e monetaria, ora consolidato negli artt. 121, 126 e 197 TFUE. Si tratta, con tutta evidenza, di una sistemazione generale delle particolari decisioni assunte nel biennio precedente per l’Eurozona; con la particolarità dell’uso di un trattato internazionale, anziché di uno strumento di diritto UE.

La prima parte del Trattato Fiscal Compact è dedicata alle regole di bilancio ed al coordinamento preventivo delle politiche economiche degli Stati; la seconda alla governance del nuovo sistema. Per quanto riguarda le regole di bilancio, si prevede la regola fondamentale di introdurre nelle costituzioni nazionali o in atti di equipollente valore il principio vincolante del pareggio di bilancio (in Italia è avvenuto con la legge cost. n. 1/201232), seguito da impegni per la riduzione automatica del debito. Questa parte del Trattato vale per tutti gli Stati membri firmatari, anche della zona non euro; a differenza della seconda che impegna solo gli Stati dell’Eurozona. Il programma di convergenza verso gli obbiettivi di medio termine è fissato dalla Commissione, che poi provvede anche a controllarne l’effettiva realizzazione. L’impegno assunto dagli Stati contraenti ad introdurre nei propri atti costituzionali la regola “aurea” del bilancio in pareggio è vincolante e giustiziabile; ogni Stato può ricorrere alla Corte di giustizia in caso di inosservanza del principio. Egualmente, sono giustiziabili gli atti o le omissioni connesse all’attuazione delle politiche economiche. La “sana finanza pubblica” diviene dunque questione di interesse comune.

Circa la governance, si dà veste formale al Vertice – denominato EuroSummit – degli Stati dell’Eurozona, che già operava informalmente dal 2008, composto dai capi di Stato o di governo dei Paesi dell’Eurozona, più il Presidente della Commissione; ma aperto all’eventuale partecipazione di altri Stati membri dell’UE, ove di comune interesse. Dopo la fase di avvio, in cui la Presidenza del Vertice è stata affidata al Presidente del Consiglio europeo, il Presidente del Vertice sarà eletto tra i suoi membri a maggioranza semplice. Il Vertice si riunisce almeno due volte l’anno, secondo lo schema del Consiglio europeo; potendo dunque essere convocato anche per ulteriori occasioni particolari. Da notare che l’EuroSummit non sostituisce l’Eurogruppo, organo collegiale che opera in modo relativamente informale, sin dall’istituzione dell’euro rimanendo nell’ambito del sistema dell’UE. Vi è dunque il concreto rischio di sovrapposizioni e contrasti tra i due organismi, destinato a risolversi quando il sistema del Fiscal Compact sarà incorporato dal diritto dell’UE. Per il momento, a parte il dualismo ora richiamato EuroSummit/Eurogruppo e quello, meno diretto, tra EuroSummit e Consiglio europeo, il trattato non pone a rischio – né avrebbe legittimamente potuto, secondo i principi sopra esaminati – le competenze delle istituzioni. La Commissione partecipa, come detto, alle riunioni del Vertice, con il suo presidente; istruisce la procedura di contestazione sullo sforamento dei vincoli e propone al Consiglio la decisione. Per il Parlamento europeo non vi sono modifiche alle sue competenze, del resto già non particolarmente rilevanti per misure finanziarie di carattere eminentemente amministrativo.

Per quanto il Trattato non sia incompatibile con il diritto dell’UE, è stato criticato per la frammentazione che produce nel sistema istituzionale dell’Unione, già assai articolato e complesso, e per il rafforzamento dei caratteri intergovernativi del sistema. Tuttavia, come si vedrà meglio più avanti, la novità principale – rappresentata dal ruolo centrale assunto dal Consiglio europeo – non può essere ascritta alla mera dimensione intergovernativa; né la frammentazione del sistema previsto dai Trattati pare per adesso giunta al punto di rottura. Del resto, vista l’impossibilità politica di ottenere l’assenso di due Stati membri (tra cui il Regno Unito), il Fiscal Compact era l’unico modo per assicurare rapidamente una più cogente disciplina di bilancio e per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche.

Il Trattato Fiscal Compact prevede esplicitamente all’art. 16 un suo possibile futuro assorbimento nel diritto dell’UE, con l’impegno ad incorporare in questo le maggiori disposizioni, se necessario. Vi sono precedenti esperienze nello stesso senso, come per l’accordo di Schengen.

Gli impegni che per gli Stati contraenti derivano dal Fiscal Compact sono particolarmente rilevanti, tanto da far discutere sulla compatibilità con talune costituzioni nazionali. Si dimentica però che il principio di pareggio di bilancio non è una novità del Fiscal Compact, che solo lo rafforza in quanto era già presente nel diritto dell’Unione, e così vincolava il diritto degli Stati in virtù del principio del primato del diritto europeo su quello nazionale.

8. Dalle principali innovazioni che l’Unione europea – nel suo insieme e come Eurozona, talora in formazione più ampia come per l’Euro Plus e il Fiscal Compact) – ha assunto per rispondere alla crisi economica apertasi nel 2008 risulta un quadro disomogeneo, significativamente diverso dal modello organizzativo e funzionale previsto dal Trattato di Lisbona, e da talune parti considerato addirittura con esso non compatibile. E’ certo, comunque, che quanto avvenuto per effetto della crisi ha segnato la definitiva conclusione del “metodo comunitario” come sviluppatosi per oltre un cinquantennio, basato sul ruolo centrale delle istituzioni europee sovranazionali e sulla progressiva limitazione della sovranità degli Stati membri.

Se è indubbio che siamo in presenza di una situazione istituzionale originale, plasmata dalle circostanze fattuali più che frutto di un razionale disegno riformatore33, non per questo in una prospettiva giuridica si deve concludere che le relative decisioni rappresentino di per sé violazioni del diritto dell’UE. Anzitutto, come si è visto, i nuovi trattati internazionali non risultano in contrasto con il diritto dell’Unione in quanto non pregiudicano gli impegni di fondo del TUE e del TFUE ed i diritti degli altri contraenti. Neanche si può affermare che gli Stati membri che sono addivenuti ai nuovi accordi abbiano violato il principio di leale collaborazione (ora ribadito nell’art. 4, c. 3, TUE), dato che gli accordi sono finalizzati a garantire la sopravvivenza stessa dell’Unione, ancorché con procedure e misure originali. Inoltre, nelle misure recentemente assunte “extra Unione”, non sono sinora risultate specifiche disposizioni in contrasto con il diritto dell’UE; anzi, sono molte le previsioni che intendono assicurare la compatibilità o la permeabilità tra i due sistemi (c.d. norme passerella). Merita citare il caso esemplare della Corte di giustizia che varie disposizioni dei recenti accordi – come l’art. 8 del Fiscal Compact, l’art. 37 dell’ ESM e l’art. 16 dell’ EFSM – richiamano per fondarne la competenza sull’eventuale futuro contenzioso tra gli Stati dell’Eurozona, sulla base dell’art. 273 TFUE che autorizza la Corte di giustizia a conoscere di qualsiasi controversia tra Stati membri quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso.

Non si può nemmeno affermare che le nuove misure abbiano sconvolto il complessivo sistema di governance dell’Unione. Ne è invece derivato lo sviluppo – con rapidità ed incisività neanche prevedibile prima della crisi – del ruolo del Consiglio europeo, quale motore reale del processo di integrazione e quale istituzione che assume direttamente, oltre alle principali decisioni politiche, anche talune rilevanti decisioni esecutive. Il risultato è apparentemente un diverso equilibrio tra istituzioni sovranazionali ed intergovernative rispetto al precedente metodo comunitario.

Ma è corretto qualificare il Consiglio europeo come istituzione intergovernativa? E’ poi corretto qualificare il Consiglio europeo quale nuovo “esecutivo” europeo, che si affianca, anzi si sovrappone, alla Commissione? Usando le categorie tradizionali la prima domanda è retorica, perché il Consiglio europeo è il più manifesto esempio di istituzione dell’Unione espressione degli Stati membri. Tuttavia il ruolo effettivo esercitato negli anni della crisi dal Consiglio europeo è stato quello di istituzione che “promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine”34, duplicando ad un livello prettamente politico le funzioni tipiche della Commissione. Uno sviluppo istituzionale del genere poteva determinarsi solo in periodi eccezionali come l’attuale; infatti il Consiglio europeo, assunto solo da ultimo tra le istituzioni dell’Unione, è stato configurato dal vigente TUE come l’organo di indirizzo politico dell’Unione, non quale organo delle decisioni; tanto meno come secondo esecutivo dell’Unione assieme alla Commissione. L’art. 15 TUE è chiarissimo: “il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali”. Tale previsione è stata tuttavia superata dai fatti prima ancora di entrare in vigore il 1° dicembre 2009. A partire dall’inizio della crisi nel 2008, il Consiglio europeo – con un Presidente che ha svolto un ruolo sostanzialmente sovranazionale, nell’interesse primario dell’Unione – ha assunto il rango di organo “straordinario” dell’Unione, con poteri decisionali utilizzando strumenti propri del diritto dell’Unione europea ed assumendo misure nuove al di fuori dei Trattati, finalizzate alla tutela dell’Unione europea nel suo insieme35. Si tratta di uno sviluppo che con ogni probabilità non si esaurirà con la fine del periodo di crisi36. Ove così fosse ne deriverebbero rilevanti effetti specialmente nei rapporti con la Commissione e con il Parlamento europeo37.

Per quanto riguarda la questione del possibile instaurarsi di un modello di “esecutivo duale”, quanto sinora avvenuto mostra che il Consiglio europeo si sovrappone alla Commissione per la funzione di indirizzo generale, che nel nostro lessico costituzionale si usa definire “funzione di indirizzo politico”, ma non tocca il suo ruolo “esecutivo”38 che, anzi, viene rafforzato anche rispetto agli Stati membri. Si ha dunque, più che un esecutivo duale, un’articolazione funzionale – senza chiari precedenti nei modelli costituzionali conosciuti – del complessivo “governo” europeo nell’organo prettamente politico, il Consiglio europeo, e nell’organo politico-amministrativo, la Commissione. Novità che dovrà essere definita compiutamente nei Trattati, di per sé non incompatibile con il sistema dell’Unione europea, ma che determina alcune rilevanti questioni; in particolare, l’asimmetria con la Commissione quale istituzione responsabile nei confronti del Parlamento europeo e così legittimata; ed una lacuna di garanzie giurisdizionali sugli atti del Consiglio europeo, allo stato giustiziabili solo in particolari casi malgrado il carattere sempre più decisorio e concreto.

Non sussistono invece tensioni con il ruolo del Consiglio. Quanto avvenuto nel periodo considerato indica infatti che il Consiglio ha confermato la sua posizione istituzionale e politica, come configurata all’art. 16 TUE. Anzitutto perché, a differenza del Consiglio europeo, è istituzione genuinamente intergovernativa, con proprie competenze ben definite (legislative, di bilancio e di coordinamento). In secondo luogo, perché la composizione variabile ne fa un organismo decisionale funzionale alle diverse e più specifiche problematiche.

Al di là dell’impetuoso sviluppo del ruolo del Consiglio europeo, l’assetto complessivo del sistema istituzionale dell’Unione ha resistito alle novità indotte dalla crisi. Già si è detto del Consiglio; per quanto riguarda la Commissione, assunta decisamente dal Consiglio europeo la funzione di indirizzo politico, ha mantenuto i poteri previsti all’art. 17 TUE ed ha svolto appropriatamente il potere di iniziativa legislativa; tanto quello autonomo quanto quello in attuazione degli indirizzi del Consiglio europeo. Basti considerare che la Commissione partecipa direttamente ai nuovi organismi, anche se composti da un numero parziale di Stati membri dell’Unione, e si rafforza nei confronti del Consiglio per effetto del metodo di reverse majority voting previsto dal Six Pack, secondo cui le proposte della Commissione si intendono adottate se non sono state respinte a maggioranza qualificata dal Consiglio. Dalla probabile stabilizzazione definitiva della Commissione quale “esecutivo” dell’Unione, in senso proprio, si avrà il rafforzamento del dato già oggi evidente della Commissione quale “pubblica amministrazione sovranazionale”; con un ulteriore sviluppo dell’integrazione amministrativa nel quadro dell’Unione. Il consolidamento di questi caratteri imporrà una revisione dei criteri di selezione dei commissari europei, maggiormente orientati su esperienza e tecnicità.

La Corte di giustizia ha visto ampliate le sue competenze, come detto, sulla base dell’art. 273 TFUE secondo cui la Corte di giustizia è competente a conoscere su tutte le controversie che le vengano sottoposte sulla base di un compromesso39. Non si tratta del resto di una novità, considerato che già accordi risalenti hanno ampliato pattiziamente le competenze della Corte di giustizia, come per la ben nota Convenzione di Bruxelles sulla giurisdizione ed il riconoscimento delle sentenze straniere, tematica in buona parte poi comunitarizzata con il Regolamento n. 44/2001, ora sostituito dal Regolamento n. 1215/2012.

Per quanto riguarda il Parlamento europeo, le sue competenze formali non sono state intaccate; tuttavia, il ruolo del Parlamento appare sostanzialmente messo in discussione da quanto avvenuto a seguito della crisi e tanto più ove si avesse il consolidamento definitivo dell’attuale posizione del Consiglio europeo; proprio quando con il Trattato di Lisbona il Parlamento era giunto all’apice del successo istituzionale, con una evidente “parlamentarizzazione” del sistema dell’Unione40.

I recenti sviluppi inducono a riconsiderare il ruolo del Parlamento europeo per almeno due ragioni: in primo luogo, il Parlamento europeo, che rappresenta unitariamente i cittadini europei (artt. 10 e 14 TUE), si trova a trattare molte misure che riguardano solo l’Eurozona, con un’evidente asimmetria tra rappresentanza ed interessi disciplinati. Tale circostanza rafforza la tensione tra la rappresentanza generale dell’Unione e quella nazionale, da sempre latente, anche per la difficoltà dei partiti politici a superare effettivamente la dimensione nazionale a favore di un’aggregazione europea. In secondo luogo, il ruolo assunto dal Consiglio europeo – quale istituzione sinora avulsa da qualsiasi legittimazione del Parlamento europeo, anche per quanto riguarda il suo Presidente – pone in discussione l’assetto parlamentare che il sistema istituzionale dell’Unione aveva assunto sin dal Trattato di Maastricht, di seguito coerentemente sviluppato. Tale cruciale questione non può certo essere risolta in via di prassi, ma necessita di una nuova definizione nel diritto primario dell’Unione europea. Quanto sta avvenendo porta ad un’alternativa che, con tutta evidenza, ha sempre carattere intrinsecamente federalistico, ma una diversa legittimazione. L’affermazione del Consiglio europeo quale organo di governo dell’Unione pone in discussione il sistema istituzionale di tipo parlamentare, oggi configurato nel Trattato di Lisbona per il rapporto Parlamento europeo-Commissione, a favore di un diverso modello, simile a quello statunitense, con il Parlamento europeo che controlla e limita l’azione del Consiglio europeo, quale governo “federale” dell’Unione, cui compete il potere decisionale.

La grande crisi non poteva lasciare inalterato il ruolo della Banca centrale europea, l’istituzione funzionalmente più prossima alle problematiche economiche e finanziarie. In effetti, la BCE ha fortemente aumentato i propri poteri41 sia in via di fatto, con una “supplenza istituzionale” legittimata dallo stato di necessità, sia in via formale; tanto da sollevare le obbiezioni della Corte costituzionale tedesca nella già citata sentenza del 12 settembre 2012. Si consideri che nelle more dell’Unione bancaria alcune delle misure recenti hanno avviato procedure di rilievo, come il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1092/2010 sulla vigilanza macroprudenziale del sistema finanziario nell’Unione europea che ha istituito il Comitato europeo per il rischio sistematico, nel cui ambito la Banca centrale europea ha un ruolo assai rilevante42. Particolarmente incisivo è l’impegno ad interventi illimitati di sostegno del debito pubblico degli Stati membri che accedono al MES e ne accettano le condizioni.

In sostanza, le misure sinora assunte per rispondere alla crisi non hanno demolito le fondamenta dell’Unione43, ma, per un verso, rafforzato alcune tendenze già in atto prima del 2008; per l’altro, avviato una dinamica istituzionale che appare destinata a consolidarsi, andando oltre la crisi da cui trae origine. Quattro sono le principali indicazioni: a) la messa in discussione del quadro unitario dell’Unione, con un forte rilievo dell’Eurozona; b) la centralità del Consiglio europeo, con un ruolo originale che non si inquadra in modo appropriato né nel modello sovranazionale, né in quello intergovernativo; c) l’affievolirsi del “metodo comunitario” su cui si è fondato per oltre cinquanta anni il processo di integrazione europea; d) la realizzazione rapida di misure sostanzialmente federali per l’Eurozona, neanche ipotizzabili sino alla crisi.

Le tendenze ora richiamate sono tra di loro disomogenee, esprimendo una fase di grande incertezza istituzionale, segnata sinora più da risposte specifiche e provvisorie che da un disegno complessivo coerente. Non stupisce che un interessante studio sul tema sia titolato “The Messy Rebuilding of Europe44. Ma, per quanto il processo sia confuso, si tratta appunto di una ricostruzione dell’Unione, non del suo affossamento.

Protagonista principale di questa nuova fase è, come detto, il Consiglio europeo per cui – a parte la questione già esaminata della compatibilità con il sistema istituzionale dell’Unione – va rilevata negativamente la tendenza ad un metodo decisionale “per direttorio”, che, alquanto sfacciatamente, pone da parte il classico modello intergovernativo ove i Signori dei Trattati sono gli Stati, paritariamente considerati. Nel modello “per direttorio” contano solo pochi Stati, che finiscono per assumere un ruolo – talora anche formale – di “primi non tra pari”. Questa sembra essere la sostanza del c.d. “metodo dell’Unione”45, che la Cancelliera Merkel sta propugnando dalla fine del 2010; pur se reso cosmetico dal richiamo ad un’azione congiunta delle istituzioni europee e degli Stati membri. Un rafforzamento della tendenza in atto potrebbe presto portare ad una situazione che, usando nozioni politologiche, non sarebbe più di governance condivisa, ma di government o, altrimenti detto, di imperium. Conclusione inaccettabile una volta verificato come sia divenuto irreversibile il movimento accentratore verso l’Unione – per una sorta di sussidiarietà invertita – con il condizionamento decisivo dei poteri nazionali di bilancio, l’abbandono del criterio dell’unanimità delle decisioni in materie cruciali come le misure di stabilità, i controlli macroeconomici su gli Stati in difficoltà.

9. Rimane da trattare la questione della capacità delle pubbliche amministrazioni nazionali di assicurare un’attuazione effettiva delle nuove misure in tutti gli Stati membri. Il quadro delle nuove misure adottate per rispondere alla crisi vede una parte di competenze esecutive attribuita agli organismi dell’UE ed un’altra parte – ben più ampia – demandata alle pubbliche amministrazioni degli Stati membri, o ad azioni comuni in cui è comunque determinante il ruolo delle pubbliche amministrazioni nazionali. L’inevitabile rilevanza dell’esecuzione “locale”46, tipica del resto anche delle amministrazioni federali, comporta che per realizzare appieno gli obbiettivi comuni le pubbliche amministrazioni nazionali siano in grado esercitare le loro competenze in modo omogeneo ed efficace. Questo risultato non è attualmente assicurato a causa delle forti differenze nella qualità amministrativa degli Stati membri, e rischia dunque di attentare significativamente alla realizzazione effettiva degli obbiettivi assunti dall’UE a fronte della crisi47.

Con il Trattato di Lisbona i problemi amministrativi sono stati finalmente considerati nella “costituzione” dell’Unione europea, precisamente nel TFUE, che vi dedica varie previsioni assai interessanti sull’assunto che “l’attuazione effettiva del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri, essenziale per il buon funzionamento dell’Unione, è considerata una questione di interesse comune” (art. 197, para. 1, TFUE). Da sottolineare la qualificazione dell’esecuzione come effettiva, visto che non bastano buone regole per assicurare la qualità dell’azione amministrativa.

L’Unione si è perciò assunta il nuovo impegno (caso di competenza detta di “coordinamento”, art. 6 TFUE) di “sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri” per assicurare la qualità dell’azione amministrativa. In definitiva, per garantire “la capacità amministrativa (degli Stati) di attuare il diritto dell’Unione” (art. 197, c. 2, TFUE).

La seconda novità del Trattato di Lisbona è l’esplicito riconoscimento dell’amministrazione diretta dell’Unione, con la previsione di regole generali per il suo funzionamento: “nell’assolvere i loro compiti le istituzioni, organi ed organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione europea aperta, efficace e indipendente” (art. 298, c. 1, TFUE).

La disposizione ora citata del TFUE impegna le istituzioni, dando loro all’uopo una precisa base giuridica, a disciplinare l’organizzazione e l’azione di queste amministrazioni con regolamenti approvati con la procedura legislativa ordinaria (in codecisione tra Consiglio e Commissione).

I principi generali della prossima disciplina sono esplicitamente considerati dalla disposizione citata (apertura dell’amministrazione, efficienza ed indipendenza), con riferimento sia a principi già definiti dalla giurisprudenza comunitaria, ed in parte “codificati” nei Trattati, sia a nuovi principi che meritano particolare attenzione, come il principio di “indipendenza amministrativa”. Di particolare interesse quest’ultimo principio che pare esprimere un’accezione forte di “indipendenza”, sul modello della Banca centrale europea e delle nuove Autorità europee di vigilanza. La circostanza che l’indipendenza diventi carattere generale dell’amministrazione dell’Unione farà sì che lo stesso carattere valga progressivamente anche per le amministrazioni degli Stati, essendo impensabile che rimanga delimitato all’amministrazione dell’Unione. A stretto rigore, quanto previsto dall’art. 298 TFUE vale soltanto per l’amministrazione dell’Unione; ma sappiamo che i principi europei hanno un’inarrestabile forza espansiva verso il diritto degli Stati membri, ponendosi come parametro anche nei loro confronti e diventando poi parte del loro stesso diritto. Del resto, in un ordinamento sovranazionale, privo del dualismo del tradizionale sistema internazionale, i principi dell’Unione non possono comunque essere considerati diversi e distinti da quelli nazionali.

Le prime iniziative assunte dall’Unione su questa nuova base giuridica “costituzionale” denotano quante innovazioni potranno essere apportate al quadro tradizionale dei sistemi amministrativi nazionali. Esemplare la proposta del Parlamento europeo alla Commissione per una regolamentazione del procedimento amministrativo per l’azione amministrativa di competenza delle istituzioni, agenzie, organi ed organismi dell’Unione europea. La proposta – che significativamente è stata approvata dal Parlamento europeo all’unanimità – si riferisce ad un regolamento organico sul procedimento amministrativo, sulla falsariga della nostra legge n. 241, comprensivo tanto dei principi generali del procedimento amministrativo quanto della disciplina dei provvedimenti conclusivi.

Erano certamente maturi i tempi per una disciplina dell’azione amministrativa dell’Unione, ma non per niente scontato che si procedesse verso una disciplina organica; considerato che in importanti Stati membri – come Francia e Regno Unito – non esiste ancora, né sembra prossima, una disciplina del genere. Il rilievo della proposta riguarda indirettamente anche gli Stati membri; infatti, il nuovo regolamento diverrebbe sostanziale parametro anche per la disciplina nazionale del procedimento, contribuendo alla formazione di principi generali della materia48.

Il terzo importante sviluppo previsto dal Trattato di Lisbona per la questione amministrativa è il riconoscimento della piena vigenza della Carta dei diritti fondamentali – cui viene riconosciuto valore primario nel sistema delle fonti, equiparato ai Trattati – che qua rileva per il nucleo dei diritti connessi alla “cittadinanza” (Titolo V, art. 39 e segg.), tra cui spiccano il diritto ad una buona amministrazione (art. 41), il diritto di accesso ai documenti (art. 42), il diritto a sottoporre al Mediatore europeo casi di cattiva amministrazione (art. 43). Ad essi si erano riferite alcune sentenze dei giudici comunitari; anche se in modo inevitabilmente timido, in considerazione dell’allora incerto valore giuridico della Carta. Era rimasto discusso se questi diritti valessero solo per i rapporti con le istituzioni ed i soggetti dell’Unione, e per i rapporti con gli Stati quando operano nell’attuazione del diritto dell’Unione (come letteralmente risulta dalla Carta, art. 51), oppure quali diritti “amministrativi” di generale valenza anche negli Stati membri.

La vigenza della Carta ha oggi due conseguenze di rilievo: il rafforzamento dei diritti dei singoli nei confronti delle istituzioni e dei soggetti dell’Unione; l’accentuazione nel diritto amministrativo europeo dei profili di libertà, che alterano l’equilibrio tradizionale “autorità/libertà” a favore di queste ultime.

Dal complesso di queste innovazioni scaturiscono le premesse istituzionali per parlare dello “Spazio amministrativo europeo” come modello di diritto positivo; come già dal Trattato di Maastricht del 1992 si era determinato lo Spazio giuridico europeo, quale “ordinamento di ordinamenti” tramite la composizione unitaria nell’ambito dell’Unione dell’ordinamento giuridico di questa e degli ordinamenti degli Stati membri. Un peculiare “sistema di sistemi giuridici” senza precedenti; espressione primaria del carattere sovranazionale dell’Unione.

L’implicazione maggiore dello Spazio amministrativo europeo è la piena integrazione di tutte le pubbliche amministrazioni che operano nell’ambito dell’Unione, accentuando la distinzione tra l’incardinamento organizzativo delle amministrazioni (che rimane particolare per ogni Stato membro e per l’Unione) e la loro funzionalizzazione verso l’Unione, quando operano, in tutto o in parte, per interessi comunitari. Non si tratta di un’assoluta novità, dato che da tempo era acquisito che le amministrazioni nazionali operanti in funzione comunitaria dovevano essere considerate “amministrazioni comuni dell’Unione”; sulla falsariga di quanto già così definito per i giudici nazionali. Tuttavia, il Trattato di Lisbona accentua questo carattere unitario, poiché considerando l’amministrazione quale “questione di interesse comune” implica che le regole sull’azione amministrativa, sulla responsabilità relativa, e implicitamente anche sulla giustiziabilità, divengano progressivamente comuni.

La realizzazione di un effettivo “Spazio amministrativo europeo” sarà fondamentale anche per assicurare la piena attuazione delle molte misure, considerate in questo studio, assunte dall’Unione per contenere e superare la crisi economico-finanziaria e dei debiti sovrani.

1 Nella vastissima letteratura sul tema, cfr. in particolare C.V. Gortsos, Fundamentals of Public International Financial Law, Baden-Baden, 2012; G. Napolitano, The Two Ways of Global Governance After the Financial Crisis, Multilateralism versus Cooperation amongst Governments, in International Journal of Constitutional Law, 2001, n.4.

2 M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011, 340.

3 Divieto di superare i valori di indebitamento e di debito pubblico (rispettivamente il 3% e il 60% del PIL), accompagnato da misure di controllo e sanzione per garantire l’osservanza del divieto. Cfr. il Protocollo 13; nonché il Protocollo 14.

4 G. Tosato, …1.

5 Le politiche nazionali sono una questione di interesse comune, da coordinarsi nell’ambito del Consiglio e, se necessario, da coordinarsi con raccomandazioni assunte a maggioranza qualificata senza tener conto del membro del Consiglio che rappresenta lo Stato membro in questione. Sulle questioni della regolamentazione il testo di riferimento è ora M. De Bellis, La regolazione dei mercati finanziari, Milano, spec. 102 e segg.

6 “L’Unione non risponde, né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali (… ) fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico (…)”.

7 J.V. Louis, The No Bail Out Clause and Rescue Packages, in Common Market Law Review, 2010, 971.

8 Sentenza del 27 novembre 2012, nella causa C-370/12, para. 130.

9 Il Consiglio, su proposta della Commissione, può decidere, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate.

10 La vicenda è analizzata da G.L. Tosato, L’integrazione europea ai tempi della crisi dell’euro, in Rivista di Diritto Internazionale, 2012, 681; A. Viterbo-R. Crisotta, La crisi del debito sovrano e gli interventi dell’UE: dai primi strumenti finanziari al Fiscal Compact, in Dir. Un. Eur., 2012, 325. Per una prospettiva comparatistica, G. Cerina Ferroni-G.F. Ferrari, a cura di, Crisi economica e interessi dello Stato, Modelli comparati e prospettive, Torino, 2012.

11 Regolamento del Consiglio n. 407/2010, dell’11 maggio 2010.

12 Su questa funzione: M. Busnioc, Rule-making by the European Financial Supervisory Authorities: walking a tight rope, in European Law Journal, 2013, 111.

13 Il Semestre europeo è esaminato più in dettaglio al successivo para. 7.

14 Il punto peraltro è discusso: M. Ruffert, The European Debt Crisis and EU Law, in Common Market Law Review, 2011, 1777.

15 Puntuali commenti in G. Napolitano, Il Meccanismo europeo di stabilità e la nuova frontiera costituzionale dell’Unione, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2012, 461; R. Perez, Il Trattato di Bruxelles e il Fiscal Compact, ivi, 2012, 469.

16 Cfr. C. Ohler, The European Stability Mechanism: the long road to Financial Stability in the Euro Area, in German Yearbook of International Law, 2011, 47.

17 A regime, per 700 mld di euro; che ne fa l’organizzazione finanziaria più capitalizzata al mondo.

18 C. Pinelli, Le Corti europee, in Prove di Europa unita, cit., 325. Per il quadro della giurisprudenza di diverse corti costituzionali nazionali, modificatosi nel periodo recente: O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle corti costituzionali dell’est vis à vis il processo di integrazione europea, in Diritto dell’Unione Europea, 2012, 765.

19 Così il ricorso al Conseil Constitutionnel francese (sentenza n. 2012/653 del 9 agosto 2012) ed i ricorsi alle Corti costituzionali di Portogallo ed Estonia nello stesso anno.

20 Sentenza 30 giugno 2009, la celebre Lissabon Urteil; la sentenza 26 agosto 2010, Mangold; la sentenza 7 settembre 2011; la sentenza 28 febbraio 2012.

21 Cfr. J. Ziller, Solange III, ovvero la Europarechtsfreundlichkeit del Bundesverfassungsgericht. A proposito della sentenza della Corte costituzionale federale tedesca sulla ratifica del Trattato di Lisbona, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2009, 973; R. Caponi, Democrazia, integrazione europea, circuito delle corti costituzionali (dopo il Lissabon Urteil), in ivi, 2010, 387.

22 Un quadro delle questioni è tracciato da M. Bonini, Dai “Signori dei Trattati” al “Dominus del bilancio”: principio democratico, Meccanismo europeo di stabilità e forma di governo parlamentare nella recente giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht tedesco, in AIC, n. 4/2011; Id., Status dei parlamentari e EFSF: controllo democratico e indebitamento pubblico nella giurisprudenza del BVerG, in AIC, n. 1/2012.

23 La sentenza è commentata da E. Chiti, Il Meccanismo europeo di stabilità al vaglio della Corte di giustizia, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2013, 148.

24 Rimangono infatti ancora aperte iniziative di notevole importanza come l’unione bancaria, il meccanismo unico di vigilanza, l’attuazione del “Two Pack”, l’accordo per la crescita ed il lavoro. Le prospettive dell’unione bancaria hanno ovviamente sollecitato grande interesse; una sintesi in S. Micossi, L’unione bancaria in costruzione, in Prove di Europa unita, cit., 113.

25 G. D’Auria, Bilancio, controlli comunitari e controlli nazionali, in M.P. Chiti-A. Natalini, a cura di, Lo Spazio amministrativo europeo. Le pubbliche amministrazioni dopo il Trattato di Lisbona, Bologna, 2012, 291; A. Brancasi, Le nuove regole di bilancio, ivi, 273; R. Perez, Cessioni di sovranità e poteri di bilancio, Relazione al 58° Convegno di Studi amministrativi, in corso di pubblicazione. La correlazione tra la nuova disciplina europea e nazionale di bilancio è analizzata da M.T. Salvemini, Il nuovo bilancio dell’Unione, Relazione al 58° Convegno di Studi amministrativi, in corso di pubblicazione; G.L. Tosato, I vincoli europei sulle politiche di bilancio, Convegno ARAE/LUISS, maggio 2012, in corso di pubblicazione.

26 I quadri di bilancio si riferiscono dunque ai criteri contabili, ai criteri di previsione per la programmazione di bilancio, alle regole numeriche, alla programmazione di medio periodo, agli strumenti analitici per assicurare la trasparenza di bilancio. Su questi problemi cfr. l’accurato dossier del Servizio Bilancio del Senato, Un’analisi preliminare della riforma della governance economica europea, Dossier n. 36/2010.

27 Allegato 1 alle Conclusioni del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011.

28 Cfr. A. Baratta, Legal Issues of the Fiscal Compact. Searching for a mature democratic governance of the Euro, in Diritto dell’Unione Europea, 2012, 647; G.L. Tosato, Il Fiscal Compact, in Prove di Europa unita, cit. 27.

29 Nel Regno Unito è comunque massima l’attenzione per il nuovo Trattato e le sue implicazioni (anche per il rischio dell’emarginazione rispetto all’Eurozona), come dimostra – oltre alla vivace dottrina – il Rapporto della House of Commons del 3.4.2012, HC 1817.

30 Oltre alle precedenti indicazioni, cfr. L.S. Rossi, “Fiscal Compact” e Trattato sul Meccanismo di stabilità: aspetti istituzionali e conseguenze dell’integrazione differenziata nell’UE, in Diritto dell’Unione Europea, 2012, 293.

31 Sulla base giuridica e politica della decisione è viva la discussione; per tutti J. Ziller, The Reform of the Political and Economic Architecture of the Eurozone’s Governance: a legal Perspective, in Governance for the Eurozone: Integration or Disgregation, a cura di F. Allen, E. Carletti, S. Simonetti, Philadelphia, 2012, 115.

32 La legge costituzionale n. 1/2012, oltre alla completa riformulazione dell’art. 81 Cost., aggiunge due importanti riferimenti al diritto dell’Unione europea nella nuova premessa all’art. 97 e nella modifica dell’art. 119. In tema, di rilevante importanza è la precedente legge 7.4.2009, n. 39, sul coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri (modificata dalla legge 31.12.2009, n. 196).

33 La valutazione della mancanza di un chiaro disegno è variamente condivisa: G. Napolitano, L’incerto futuro della nuova governance europea, in Quaderni costituzionali, 2012, 123; E. Chiti, Le risposte alla crisi della finanza pubblica e il riequilibrio dei poteri nell’Unione, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2011, 311.

34 E’ ovvio che la citazione si riferisce alle competenze della Commissione, come prevista all’art. 17 TFUE, di fatto ora condivise dal Consiglio europeo.

35 I caratteri nuovi del metodo intergovernativo sono analizzati da E. Chiti-A.J. Menendez-P.G. Texeira, The European Rescue of the European Union, nel volume a cura dei medesimi Autori, The European Rescue of the European Union? The Existential Crisis of the European Political Project, Arena Report n. 3/12 e Recon Report n. 19/2012, 391.

36 La previsione, per quanto discusso ne sia l’esito nel merito, è condivisa da vari Autori, come P. de Schoutheete, The European Council and the Community Method, Notre Europe Policy Paper, no. 56, 2012; S. Fabbrini-S. Micossi, Una proposta istituzionale per l’Europa: legittimazione ed efficienza, in Aspenia on line, 2012.

37 Il tema è ovviamente assai dibattuto, con interpretazioni e soluzioni diverse. I più convinti europeisti (ad esempio lo “Spinelli Group”) sono critici sul ruolo assunto dal Consiglio europeo e, nella prospettiva di un nuovo trattato costituzionale, propongono che la Commissione sia formalmente qualificata come il governo dell’Unione; il potere legislativo confermato al Parlamento ed al Consiglio; il Consiglio europeo riportato a quanto previsto dall’attuale art. 15 TUE.

38 La funzione “esecutiva” è nel diritto europeo ancora di più sfuggente definizione che nei diritti nazionali. Per tutti: D. Curtin, Executive Power of the European Union, Oxford, 2009; D. Curtin-H- Hofmann-J. Mendes, Constitutionalising EU Executive Rule Making Procedures: a Research Agenda, in European Law Journal, 2013, 1.

39 In verità l’art. 273 TFUE sembra delimitare tale opportunità alle controversie “in connessione all’oggetto dei Trattati”, ovvero del TUE e del TFUE.

40 Anche grazie all’ingresso dei parlamenti nazionali nei processi decisionali europei: A. Manzella, I parlamenti nazionali nella via dell’Unione europea, in L’Unione europea nel XXI secolo. “Nel dubbio per l’Europa”, a cura di S. Micossi-G.L. Tosato, Bologna, 2008, 333. Dello stesso A., da ultimo: Dinamiche istituzionali e democrazia nell’Unione europea, in Prove di Europa unita, cit., 349.

41 Oltre al ricordato Securities Market Programme vanno richiamate le Outright Monetary Transactions e le Longterm Refinancing Operations su cui G. Napolitano-M. Perassi, La BCE e gli interventi per la stabilizzazione finanziaria: una nuova frontiera per la politica monetaria?, in Prove di Europa unita, cit., 41.

42 La cruciale rilevanza della vigilanza finanziaria è esaminato da F. Merusi, Il ruolo della BCE nella vigilanza bancaria europea, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2013, n. 2 (in corso di pubblicazione); G. Napolitano, La risposta europea alla crisi del debito sovrano: il rafforzamento dell’Unione economica e monetaria, in Banca, borsa, titoli di credito, 2012, 747; E. Chiti, Le architetture istituzionali della vigilanza finanziaria, in G. Napolitano, a cura di, Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, Bologna, 2012, 157.

43 Questione peraltro discussa, come risulta da E. Chiti, Le istituzioni europee, la crisi e la trasformazione costituzionale dell’Unione, in Giornale di Diritto Amministrativo, 2012, 783.

44 J. Pisani-Ferry, A. Sapir, G.B. Wolff, in Bruegel Policy Bref, 2012, no. 1.

45 Discusso da R. Perissich, Dal “metodo comunitario” al “metodo dell’Unione”, in Prove di Europa unita, cit., 267; P. Ponzano, Un nuovo metodo per l’Europa?, ivi, 281.

46 L’espressione è preferibile a quella di esecuzione “indiretta”, stanti i forti condizionamenti dell’Unione.

47 Per un’ampia disamina di queste problematiche si rinvia a M.P. Chiti, Lo Spazio amministrativo europeo, in M.P. Chiti-A. Natalini, Lo Spazio amministrativo europeo. Le pubbliche amministrazioni dopo il Trattato di Lisbona, Bologna, 2012, 19 segg..

48 Le questioni poste dalla proposta sono esaminate da M.P. Chiti, Towards an EU Regulation on Administrative Procedure? in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2011, 1; P. Craig, Administrative Law. The Acquis, ivi, 2011, 699; B.G. Mattarella, The concrete options for a Law on Administrative Procedure bearing on direct EU Administration, ivi, 2012, 537.