Verso l’implosione dei riti speciali e delle forme di tutela differenziata?

MARIO P. CHITI
È dal 1999 che non si tiene un convegno di studi di ampio respiro sul tema dei riti speciali nel processo amministrativo e nelle altre procedure pubblicistiche; precisamente, dall’incontro di studi in Consiglio di Stato, ove furono analizzate – già allora criticamente – le molte procedure speciali emerse nel recente periodo.

Va dunque espresso vivo plauso ai colleghi della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro che hanno avvertito la necessità di riprendere l’esame del tema, in questo caso esteso pressoché a tutti i riti speciali pubblicistici, con l’apporto di alcuni tra i nostri maggiori giuristi e di qualificati specialisti dell’argomento.

L’opportunità di un nuovo convegno di studi deriva anche da tre circostanze ora meglio avvertibili che nel 1999: nel decennio intercorso si è intensificata la tendenza a prevedere normativamente nuovi riti; si è verificato un analogo fiorire di riti negli ordinamenti giuridici al nostro più prossimi; anche nel diritto processuale dell’Unione europea si sta manifestando un largo favore per procedure ad hoc e per la costituzione di giudici “speciali”.

Le relazioni sono state assai dense e il dibattito vivacissimo, sì da rendere quanto mai arduo il ruolo del relatore di sintesi. Provo comunque a definire le principali indicazioni emerse, che mi paiono cinque: il dilagare quasi inarrestabile dei riti speciali; l’estensione del fenomeno a tutti i campi del processo; la varietà delle motivazioni che sono alla base del fenomeno; la incipiente tensione tra la specialità dei riti ed i principi dell’effettività della tutela e del giusto processo; l’atteggiamento sinora assai cauto della Corte costituzionale.

Mi preme precisare che le conclusioni saranno incentrate sul diritto processuale amministrativo, perché è del tutto particolare la situazione del processo costituzionale rispetto ad ogni altro tipo di processo; e perché il processo amministrativo più di ogni altro ramo processuale ha reso evidenti le luci e le ombre dei riti speciali.  

Esaminando partitamene queste maggiori indicazioni che il Convegno ha offerto, per quanto riguarda la sempre più diffusa previsione di riti speciali vi è da chiedersi se ha ancora senso parlare di “specialità”. Il concetto di specialità implica infatti l’esistenza di un parametro generale e la limitata incidenza dei casi speciali rispetto a tale parametro. Tuttavia, nel nostro caso è ben noto che non esiste un vero e proprio corpo di processo amministrativo “ordinario”, ma solo una disciplina di alcuni punti fondamentali; senza carattere di completezza, almeno per quanto comparabile con il processo civile ed il processo penale.

In principio appare allora più corretto parlare, anziché di specialità dei riti, di forme differenziate di tutela. Il rito già “ordinario” diviene quello per il momento ancora più utilizzato, ma con sempre maggiore spazio per altri riti che esprimono con varietà di moduli la diversa rilevanza dei dati sostanziali in gioco, a partire dalla differenziazione dell’organizzazione e del modo di funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Emblematico il dibattito parlamentare sulla proposta di abolire gli arbitrati con le pubbliche amministrazioni, ove l’alternativa alle procedure arbitrali è stata vista dal Governo nell’istituzione di sezioni speciali dei tribunali civili e dalla previsione di nuovi riti processuali ad hoc.    

Il punto è direttamente connesso a quello delle motivazioni del fenomeno del dilagare delle specialità dei riti. È noto che a base dei riti speciali vi sono varie ragioni; principalmente: la necessità di assicurare una procedura assai rapida per determinati temi; la conformazione particolare del regime processuale in relazione alle caratteristiche delle situazioni giuridiche coinvolte; la diversità delle amministrazioni pubbliche e della disciplina delle forme di azione.

Al di là di qualche specificità, tali motivazioni rappresentano complessivamente la risposta nel processo amministrativo alle questioni poste dal principio dell’effettività della tutela. Questo principio, forgiato nella sua veste più nota dalla Corte di giustizia, ma strettamente legato anche alla CEDU ed alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, ha avuto rilievo costituzionale con la riforma dell’art. 111 Cost. e la previsione sul giusto processo.

L’effettività è comunemente intesa come garanzia di processo celere, per certo una delle accezioni fondamentali del principio; specie in un ordinamento come quello italiano in cui i tempi di giustizia sono notoriamente lunghissimi. Ma l’effettività della tutela va oltre alla garanzia di celerità del giudizio, perché richiede un processo funzionale ai caratteri sostanziali del contenzioso; anche, quando necessario, con moduli processuali diversificati. I riti speciali sono appunto una delle risposte – ovviamente, non l’unica possibile – alle esigenze sottese al principio dell’effettività della tutela.

Le relazioni ed il dibattito hanno però confermato il rischio, già adombrato dalla dottrina che ha studiato il tema, che il proliferare dei riti speciali rappresenti un paradossale attentato all’effettività della tutela. In particolare, le diversità di ciascun procedimento determinano specialità nelle specialità, aggravando la posizione degli interessati con regole processuali particolari, assai spesso criptiche e comunque non sufficientemente sviluppate (i riti speciali non hanno infatti, di regola, un’adeguata disciplina perché frutto di iniziative occasionali e di scarso spessore). Basti considerare, a conferma di questo assunto, che si è sviluppato un vasto contenzioso sul rispetto della disciplina di questi riti; i quali così divengono essi stessi un problema, neanche il minore, anziché la panacea promessa.

Molte delle criticità che i riti speciali stanno evidenziando sono però solitamente accantonate per una pretesa copertura che loro deriverebbe sia dal diritto comunitario che dal diritto del Consiglio d’Europa. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo che ormai martella sistematicamente sulle nostre carenze ordinamentali, tanto della parte sostanziale quanto di quella processuale.

Effettivamente, il diritto europeo (inteso qui, con voluta sommarietà, nella somma dei due diversi diritti sopra ricordati) non è di per sé pregiudizialmente ostile ai riti speciali. Anzitutto, perché la materia del processo è ancora – nello stesso diritto dell’Unione europea – lasciato in principio (nei fatti è alquanto diverso) all’autonomia degli Stati membri.

In secondo luogo perché la specialità corrisponde, in giusta misura, ad oggettive necessità proprie di qualsiasi ordinamento. Non per caso, lo stesso diritto dell’Unione conosce per la propria parte dei riti speciali, accompagnati dal proliferare di nuovi giudici (come da ultimo il Tribunale della funzione pubblica), con discipline processuali che sono differenziate rispetto al modello “generale” della procedura della Corte di giustizia.

Tuttavia, esaminando la giurisprudenza sul tema dell’effettività e anche le “direttive ricorsi” in materia di appalti[1] (archetipo di un generale diritto processuale comune), è facile scorgere l’attenzione acché la specialità sia effettivamente uno strumento per aumentare il grado di tutela degli interessati, anche a costo di mettere in crisi l’applicazione del diritto comunitario. Di conseguenza, sconsigliandone implicitamente l’uso ogni volta che i riti speciali virino in senso opposto, tanto per difetti della disciplina quanto per l’applicazione che ne viene fatta.

Si tratta di una conclusione comunque cauta, che mostra un self-restraint del giudice comunitario rispetto alle scelte nazionali su temi assai sensibili.

Non casualmente, la stessa conclusione è fatta propria nell’ordinamento italiano dalla Corte costituzionale che, pur variamente sollecitata a valutare i profili di criticità dei riti speciali, finora ha sempre validato le scelte del legislatore. Già ai primordi di questa tendenza la Corte aveva affermato (sentenza n. 543/1973) che “la previsione di un rito speciale non è di per sé in contrasto con il diritto di azione e di difesa, in quanto quest’ultimo è variamente configurato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari processi”. In termini più generali, per la Corte “è da escludere che ogni rito processuale diverso da quello ordinario possa essere considerato in contrasto con l’art. 24 Cost., e ciò perché quest’ultimo rito non costituisce l’unico ed esclusivo strumento di attuazione delle garanzie costituzionali”.

Successivamente alla riforma dell’art. 111 Cost., la Corte ha mostrato una nuova sensibilità per il diritto di difesa inteso nella pienezza delle sue articolazioni, e non solo incentrato sul profilo della celerità del giudizio. Trattando del processo penale, ma con argomentazioni di carattere generale, la Corte ha sottolineato giustamente che il prius è il diritto di difesa; la celerità ha un ruolo servente (sent. n. 148/2005); spetta al giudice assicurare in concreto il bilanciamento dell’interesse alla celerità delle decisioni con le garanzie adeguate per i singoli (sent. n. 427/1999).

Diversa è la posizione della Cassazione, che ha mostrato un più diretto favore per le esigenze della difesa; arrivando a collegarsi al diritto di difesa come previsto all’art. 6, c. 1, della CEDU. A tale riguardo, recenti sentenze della Cassazione (es. SS.UU., 23.12.2005, n. 28507) hanno addirittura sostenuto che vi sia un obbligo di disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con la citata previsione della CEDU; oltre all’obbligo di interpretazione del diritto nazionale conforme ai canoni ermeneutici della Corte dei diritti dell’uomo.

Per quanto le conclusioni della Cassazione appaiano generose nella strenua tutela dei diritti di difesa, non si può condividere la tesi della disapplicazione del diritto nazionale per contrasto con le norme CEDU. L’istituto della disapplicazione è infatti utilizzabile solo nel quadro dei rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario; e, per la sua eccezionalità, non può essere utilizzato al di fuori di tale specifico contesto giuridico, segnato dal principio della supremazia del diritto comunitario. Al riguardo si attende la pubblicazione di due sentenze della Corte costituzionale sull’interpretazione dell’art. 117, c.1., Cost. in riferimento agli “obblighi internazionali”, ed alla differente posizione del diritto comunitario e del diritto internazionale (anche della particolare specie del diritto del Consiglio d’Europa)[2].

Celerità significa – o può significare in concreto – eccessiva semplificazione delle questione controverse; o, peggio, diminuzione delle garanzie di difesa. Il Convegno ha consentito, tra gli altri meriti, di discutere con franchezza lo scadimento – verrebbe da dire, la banalizzazione – della giustizia quale effetto non remoto dei riti speciali.

Il processo amministrativo è un ottimo esempio di questi effetti negativi; bastino alcuni casi di “specialità”: la decisione in forma semplificata; la pubblicazione quasi immediata del dispositivo della sentenza nei casi di cui all’art. 23 bis legge n. 1034/1971, tra i quali il più noto è quello degli appalti pubblici; gli adempimenti conseguenti alla trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale.

Il primo caso è espressione delle concomitanti esigenze di semplificazione ed accelerazione in circostanze processuali che, per il giudice, non necessitano di particolari approfondimenti. L’effetto qua è la “banalizzazione” della giustizia. Il secondo caso, invece, è tutto incentrato sulla celerità della pronuncia, ritenuta essenziale per definire la causa nel comune interesse, pubblico e privato.

Ebbene, l’esperienza attuativa di queste innovazioni mostra che la decisione in forma semplificata è stata assunta spesso in casi che avrebbero meritato un più completo ed approfondito giudizio; mentre il deposito anticipato del dispositivo rispetto alla motivazione della sentenza è quasi sempre segnato da un inaccettabile ritardo nella pubblicazione della motivazione, paradossalmente accentuato rispetto ai tempi usuali. Ciò comporta gravi incertezze – talora insuperabili – sul significato e sulla portata dei dispositivi subito pubblicati; con l’effetto di paralizzare l’azione amministrativa proprio là dove si intendeva definire immediatamente il giudizio. Ma anche con l’ulteriore effetto di paralizzare l’eventuale fase cautelare di secondo grado, perché il giudice di appello non ha elementi per decidere seriamente sui ricorsi delle parti.

Circa poi le questioni connesse alla trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, come rileva la più recente giurisprudenza amministrativa (Cons. St., V, 24.7.2007, n. 4136), mentre il termine per la notifica dell’atto con cui il ricorrente in via straordinaria dichiara di insistere nel ricorso davanti al TAR rimane sottratto alla regola del dimezzamento dei termini, perché riconducile alla categoria dei termini per la proposizione del ricorso, non è così per il successivo termine per il deposito dell’atto che, pur essendo termine processuale, non è compreso nel quadro delle attività di proposizione di ricorso; e dunque non sfugge alla regola del dimezzamento posto dall’art. 23 bis.

Anche da questi casi particolari, si conferma così che è necessario ripensare profondamente l’intero sistema dei riti speciali al fine di trovare un appropriato punto di equilibrio tra le esigenze di celerità e di semplificazione, da un lato; e di piena tutela di diritto di difesa, dall’altro.

Più in generale, sembra giunto il momento per porre termine alla stagione della continua creazione di riti speciali e per ripensare sulla necessità e/o sui risultati di quelli esistenti. Considerando seriamente la possibilità di un loro drastico sfoltimento.

Un’idea guida consigliabile è quella di prevedere un “rito speciale ordinario”, del tipo conosciuto nel diritto processuale civile nel Libro IV del codice. I pregi di questa opportunità – da non rigettare semplicisticamente quale ossimoro concettuale - sarebbero principalmente: a) la ricostruzione in termini tendenzialmente unitari dei riti speciali attuali, troppo vari e mal disciplinati; b) la possibilità di non allontanare eccessivamente il processo amministrativo da quello civile, in uno scenario generale di differenziazione e non di contrapposizione tra diritto civile e diritto amministrativo; c) una maggiore certezza del diritto, con conseguente migliore gestibilità del nuovo modello da parte dei difensori.

Altrimenti, diverrà presto una questione ineludibile la compatibilità dei riti speciali con il principio costituzionale del giusto processo, anche alla luce della CEDU e del principio comunitario di effettività della tutela.

Le relazioni ed il dibattito hanno poi posto in evidenza come il problema della specialità dei riti (qui tanto nel processo amministrativo che in quello civile) se in generale si inserisce in un contesto comune agli Stati europei, è tuttavia anche molto “domestico” rappresentando una variante della crisi della giustizia in Italia. La loro recente moltiplicazione denota infatti la difficoltà di addivenire ad una riforma generale della giustizia nel nostro Paese; ad iniziare dai tempi del giudizio. Se si vuole riportare ordine nel tema che nel Convegno abbiamo affrontato, non basta dunque razionalizzare il sistema dei riti speciali, ma occorre anche affrontare decisamente il tema della riforma della giustizia nella sua interezza.

C’è da chiedersi, infine, la ragione per la quale in Italia non hanno finora avuto reale sviluppo i c.d. riti alternativi alla giurisdizione; noti recentemente con l’acronimo inglese di ADR (Alternative Dispute Resolutions). I riti alternativi non hanno caratteri comuni, se non per risultare strumenti di prevenzione del contenzioso giurisdizionale o di soluzione transattiva e stragiudiziale per cause già insorte. Ma per le materie da cui si originano e per i caratteri che li ispirano hanno evidenti similitudini con i riti speciali. Pertanto, ove le ADR trovassero adeguata utilizzazione si ridurrebbe di conseguenza la spinta per i riti speciali.

Effettivamente, tanto nel diritto amministrativo che nel diritto civile, i riti alternativi non hanno finora avuto il successo che invece tali riti riscuotono in altri ordinamenti, soprattutto quelli angloamericani e del nord Europa. A tale risultato ha concorso certamente una nostra tradizione giuridica tutta incentrata sulla giurisdizione e sul processo; e, per il diritto amministrativo, la pessima prova data nel passato dai vari tipi di ricorsi amministrativi (lasciando da parte il ricorso straordinario, che ha caratteri del tutto particolari).

In un contesto giuridico sempre più integrato, però, la forza delle tradizioni dovrebbe progressivamente attenuarsi; così come dovrebbero rilevare positivamente i nuovi caratteri di riti alternativi “amministrativi”, come nel settore degli appalti pubblici. Ma è un fatto che, a tutt’oggi, questa riconsiderazione non è avvenuta e, malgrado le acerrime critiche alla giurisdizione, si continua a preferire pressoché esclusivamente la classica tutela giurisdizionale.

Concludendo, al di fuori di ogni ambizione di aver dato conto di un dibattito ricco e stimolante, posso affermare con certezza che i riti speciali hanno ormai raggiunto l’estensione massima compatibile con la Costituzione ed i principi europei; forse (a mio avviso, probabilmente) hanno anzi superato il punto di compatibilità. Si pone dunque il problema di una loro revisione, che per il diritto amministrativo non può che passare da una riforma sistemica del processo amministrativo. La riforma è stata anticipata da molte riforme particolari e dall’importantissima legge n. 205/2000, ma vi sono adesso le condizioni per una legge delega che consenta, con qualità di redazione e sistematicità di approccio, di ordinare l’intera materia; anche in riferimento ai profili di diritto comunitario.

A tale riguardo, un’ottima occasione è rappresentata dalla prossima riforma della “direttiva ricorsi” in materia di appalti pubblici[3], i cui principi vanno ben oltre la materia specifica dei contratti pubblici. Come è avvenuto per la riforma della parte sostanziale di tale disciplina (direttive 17 e 18 del 2004) - da cui si è originato il Codice dei contratti pubblici del 2006 - anche per la parte processuale, l’occasione dell’attuazione della direttiva consentirà un intervento organico di riforma sul processo amministrativo. Il legislatore nazionale è comunque libero, ovviamente, di affrontare direttamente il problema, senza prendere a spunto il diritto comunitario (talora in passato utilizzato strumentalmente quando non vi erano le condizioni politiche per un intervento diretto).

In sostanza, solo una riforma organica del processo amministrativo (ma la conclusione vale anche per il processo civile, qua non direttamente considerato) può dare risposta ai molti profili particolari di tutela che sono sintetizzati dall’espressione costituzionale del “giusto processo” e da quella comunitaria di “tutela effettiva”. I riti speciali sono invece una risposta parziale, scoordinata e non esaustiva rispetto alle medesime esigenze. Una scorciatoia fittizia che, anziché semplificare il percorso lo rende nella realtà più accidentato.

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[1] Nelle more della pubblicazione del volume è stata approvata la direttiva 07/66/CE dell’11.12.2007, che modifica ed integra le precedenti 89/66 e 92/13.
[2] Dopo il Convegno sono state pubblicate le attese sentenze della Corte costituzionale in materia: le nn. 348 e 349/2007. La Corte ha confermato quanto sostenute nelle presenti Conclusioni, ovvero che la disapplicazione giurisprudenziale del diritto nazionale per contrasto con norme giuridiche extrastatuali non è istituto applicabile nei rapporti con la CEDU ed il diritto del Consiglio d’Europa.
[3]  Si tratta della nuova direttiva 07/66, già citata.

Le forme di tutela non giurisdizionale panacea o utopia?

MARIO P. CHITI 

1. L’occasione della pubblicazione del libro di Michele Giovannini (“Amministrazioni pubbliche e risoluzione alternativa delle controversie”) propizia una nuova discussione sulle tecniche di tutela “alternative” alla giurisdizione, usualmente note secondo l’acronimo inglese ADR (Alternative Dispute Resolutions), con riferimento primario alla tutela nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Precisazione, quest’ultima, necessaria dato che il ruolo delle forme di tutela “alternative” è potenzialmente rilevante in tutti i settori del diritto; ed in particolare nel diritto civile.

A prima impressione, si potrebbe pensare che su questa tematica sia già stato detto pressoché tutto, sì da rendere un nuovo dibattito forse superfluo. Ora, non è dubbio che pochi altri temi hanno avuto nell’ultimo decennio la stessa fortuna scientifica delle ADR. Le forme di tutela “alternative” sono state costantemente al centro dell’attenzione giuridica e politica, ottenendo in prevalenza un consenso convinto; non comune nelle questioni che riguardano i diritti di difesa e le questioni amministrative. Gli studi in materia, anche con ampi saggi e monografie, si sono moltiplicati pure in Italia; dopo il profluvio di pubblicazioni nei sistemi giuridici anglo-americani. Le riforme normative recenti hanno in parte tenuto conto del movimento a favore di nuovi strumenti di tutela, anche se per lo più nelle tematiche civilistiche o di confine con il diritto pubblico. In alcune Autorità amministrative indipendenti si stanno sviluppando esperienze originali, ascrivibili alla tematica in esame anche se con molte peculiarità.

Tuttavia, malgrado il molto interesse scientifico e talune esperienze attuative di indubbia rilevanza, dopo tre lustri dall’inizio di questo fermento riformatore dobbiamo constatare che il fenomeno della tutela “alternativa” non è decollato; quanto meno, nella misura attesa. Anzi, alcuni recenti sviluppi nazionali (specie il dibattito sulla delega per la riforma del processo amministrativo) e comunitari (come l’attuazione della direttiva 66/07, in tema di ricorsi per gli appalti pubblici), indicano un precoce appassirsi del tema; prima ancora che avesse avuto modo di sbocciare appieno.

Il pendolo delle ADR è girato dunque in fretta dall’entusiasmo per queste nuove tecniche (si parlò di una loro “panacea” giuridica) alla delusione, con il ritorno alla giurisdizione. Pur in tempi di mutazioni giuridiche ed istituzionali veloci, non è detto che il tempo delle ADR si sia già concluso, e merita riflettere ancora sulle ragioni degli eventi accaduti e delle ulteriori prospettive che si aprono. Grazie a contributi scientifici approfonditi, come il libro di Giovannini, che esaminano il tema nella sua interezza e complessità abbiamo la possibilità di riconsiderare le ragioni di fondo del dibattito e le prospettive di questi istituti, sia “tecniche” che di tipo ordinamentale.

2. I motivi che in diritto amministrativo hanno determinato un grande interesse per le forme di tutela “alternativa” sono principalmente due, uno generale ed uno prettamente italiano.

La prima ragione sta nella dilatazione del contenzioso amministrativo ovunque manifestatasi dagli anni settanta dello scorso secolo. Il dilagare di questo contenzioso è dipeso da nuove organizzazioni giudiziarie che hanno reso la giustizia amministrativa (nozione per ora usata in modo ampio e non tecnico) più vicina ed accessibile agli interessati; dalla nuova consapevolezza dei propri diritti ed interessi nei confronti delle pubbliche amministrazioni; dall’emergere di nuovi interessi (ambientali, culturali, ecc.) e di nuove soggettività portatrici di tali interessi. In generale, è poi tipico di tutte le società avanzate il fenomeno dell’esplosione del contenzioso amministrativo, cui evidentemente non fa da argine significativo il corrispondente sviluppo del procedimento amministrativo (pur con le sue opportunità di tutela endoprocedimentale).

La dilatazione del contenzioso amministrativo non è poi solo un fenomeno settoriale del diritto pubblico, ma corrisponde alla tendenza generale della “giurisdizionalizzazione” delle controversie. La tendenza è avvertita in tutte le società in cui si è saldamente affermato il principio dello Stato di diritto (o, all’inglese, del rule of law); del quale uno degli esiti, quasi inaspettato, è risultata la causidicità.

La ragione di carattere nazionale sta nella crisi (o, vista da altro angolo, la mancata crescita) dei ricorsi amministrativi e delle altre forme di tutela preliminare o alternativa alla giurisdizione. Sin dall’unificazione amministrativa dell’Italia non sono mancate disposizioni a tale riguardo, ma l’esperienza è stata così deludente da portare in breve tempo all’esaurimento di ogni interesse per i ricorsi amministrativi; considerati niente più che passaggio necessario prima della giurisdizione, quando obbligatori; altrimenti obliati. A nulla è valsa la riforma del 1971, pur salutata all’epoca dall’interesse della scienza giuridica. Non è questa l’occasione per riprendere la discussione sui motivi del declino dei ricorsi amministrativi, salvo sottolineare ancora una volta lo stretto legame tra qualità dell’amministrazione ed effettività della tutela amministrativa. In breve, pur se i ricorsi amministrativi non hanno avuto in genere grandi risultati, è nel nostro ordinamento che i risultati sono stati tra i peggiori a causa della mancata acquisizione di uno spirito quasi judicial da parte delle amministrazioni contenziose.

I ricorsi amministrativi cui ci si è riferiti non comprendono il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, che mantiene una sua evidente vitalità. Le ragioni sono, come noto, essenzialmente pratiche per il termine di presentazione dei ricorsi doppio rispetto a quelli giurisdizionali; nonché per i costi ridotti. Ma non va sottovalutato il carattere squisitamente judicial di questo ricorso, ormai pienamente affidato alle cure del Consiglio di Stato e processualmente pressoché assimilato ai ricorsi giurisdizionali per garanzie e opportunità tecniche (es. eccezione di incostituzionalità), che giustificano con rinnovato vigore il tradizionale principio dell’alternatività rispetto ai ricorsi giurisdizionali. Proprio per tali motivi, il ricorso straordinario è sui generis e sfugge alla ricomprensione tra i tipici ricorsi amministrativi o le più recenti ADR, malgrado l’assonanza, più lessicale che sostanziale, dell’alternatività.

3. Il richiamo alla situazione così determinatasi consente di apprezzare facilmente perché in Italia, ed in genere in Europa (precisamente, nelle famiglie giuridiche di civil law), destò grande interesse l’arrivo dal mondo del common law delle forme di tutela “alternative”. Rilevarono in tal senso anche la tradizionale esterofilia del nostro mondo istituzionale giuridico, e l’apparente novità dei vari istituti comunemente riassunti nel novero delle ADR. Peraltro, avrebbe dovuto essere nota l’accesissima discussione sulle ADR nel mondo giuridico anglo-americano, ove importanti voci critiche avevano evidenziato la carica distruttiva di queste forme di tutela per una giustizia terza, imparziale ed autorevole (come i fenomeni di “giustizia in affitto” e, in genere, di privatizzazione di un’inalienabile funzione pubblica).

Da un punto di vista più tecnico, le ADR nel diritto amministrativo manifestano due principali criticità: in generale, non è pacifico che le principali forme (la mediazione, la transazione, la conciliazione) siano compatibili con il diritto applicabile alle pubbliche amministrazioni; soprattutto negli ordinamenti organizzati secondo il modello a “diritto amministrativo”. Le ADR risentono con tutta evidenza dell’essere state elaborate in contesti a “diritto comune”, ove le specificità giuridiche riconosciute all’amministrazione sono limitate. In secondo luogo, è improprio affermare che si tratti di forme “alternative” di tutela, in quanto se si intendesse tale principio in modo puntuale saremmo in presenza di previsioni probabilmente incostituzionali (es. art. 113).

4. Malgrado tutto, negli ultimi due decenni anche da noi si è molto parlato di ADR. Oltre che quali riforme originali che potevano superare le difficoltà dei tradizionali ricorsi amministrativi, le ADR sono apparse in linea con la “scoperta” della nozione di cattiva amministrazione ( la maladministration) e dei suoi possibili antidoti, come il mediatore e l’ombudsman. Erano poi in linea con altre innovazioni del diritto europeo, ad esempio negli appalti pubblici e nelle relative forme di tutela (cfr. i cenni contenuti nella prima direttiva “ricorsi” 89/665, ma soprattutto gli istituti previsti nella direttiva 92/13, appalti nei “settori esclusi”) che riconoscevano spazi nuovi ad istituti originali come l’attestazione, il meccanismo correttore e la conciliazione. Non per caso, a tali strumenti si dette credito in tutta l’Unione europea; ricordo in Italia un’importante iniziativa di approfondimento promossa dal Consiglio di Stato e dall’Istituto Internazionale di Scienze Amministrative. Ma anche un Rapporto di ampio respiro predisposto dal Conseil d’Etat (“Regolare altrimenti i conflitti” del 1993).

Alle vive discussioni scientifiche non hanno però fatto riscontro sviluppi significativi sul piano dell’effettività della tutela. È noto che la figura del mediatore (alias difensore civico, ombudsman e simili) in Italia non sta avendo il medesimo successo che in altri ordinamenti; l’incidenza degli accertamenti dei difensori civici sulle forme di cattiva amministrazione è quanto mai labile, sì che gli interessati devono di regola rivolgersi al giudice anche nei casi di accertata cattiva amministrazione (ed anche di vera e propria illegittimità amministrata, così constatata). L’esperienza dimostra che la politica dei “trapianti” giuridici non funziona quando l’ordinamento ricevente ha caratteri e tradizioni diverse. Nel caso, non si tratta di una delle manifestazioni della (in parte perdurante) diversità tra sistemi continentali e sistemi del nord Europa ed anglo-americani; dato che in un paese ad ordinamento latino come la Spagna il defensor del pueblo svolge con successo i suoi compiti. Quanto della nostra tradizione che considera la tutela essenzialmente una questione riservata alla giurisdizione, pur nella diffusissima critica all’operatività delle due giurisdizioni, civile ed amministrativa.  

Anche le originali forme di tutela previste dalla direttiva comunitaria sui ricorsi per gli appalti pubblici non hanno avuto alcun esito rilevante. Il dato questa volta non è solo italiano, ma comune a tutta Europa; come confermato dall’abbandono di questa parte della direttiva 89/665 in occasione dell’approvazione della seconda direttiva “ricorsi” (07/66), che rappresenta un ritorno alla linea della tradizione. E’ ivi previsto (art. 1, c.5) che “gli Stati membri possono esigere che il soggetto interessato proponga in primo luogo un ricorso presso l’amministrazione aggiudicatrice …”, così rivalutando la tradizione dei ricorsi amministrativi; mentre viene esplicitamente abbandonata la serie di novità “alternative” previste dalla citata direttiva 92/13, per asserita manifesta inutilità.

5. In parallelo al dibattito sulle ADR si sono avuti due sviluppi di diretta incidenza sul tema: nuove forme di tutela da parte delle Autorità amministrative indipendenti; una particolare attenzione del legislatore per il processo amministrativo, con significative riforme.

Il ruolo “giustiziale” delle Autorità indipendenti è ben noto, per quanto assai recente. In forme diverse tra le varie Autorità, queste assicurano procedimenti decisionali assai garantistici ed occasioni di tutela pregiurisdizionale (non alternativa alla giurisdizione) di carattere specializzato e con tempi di regola assai contenuti. Il Codice degli appalti pubblici (art. 6, c. 7, lett. n) ha previsto un nuovo procedimento davanti all’Autorità di vigilanza - poi disciplinato con regolamento dell’Autorità del 10.1.2008 – che sta dando buona prova. Lo stesso avviene, in forme diverse, anche presso le altre Autorità; in particolare presso l’AGCOM. Per tali caratteri si è addirittura discusso se per i provvedimenti delle Autorità non fosse opportuno limitare la tutela giurisdizionale ad un solo grado di giudizio, “catturando” le Autorità nel novero dei giudici; non in conseguenza della loro posizione istituzionale, ma per la qualità delle loro decisioni contenziose. La proposta è rimasta per ora senza esito, ma è espressiva della particolare considerazione che si riserva alle Autorità ed alle loro decisioni assunte in sede contenziosa. Tale conclusione non è smentita dalla circostanza che i maggiori provvedimenti delle Autorità finiscano all’esame giudice (nel caso, di regola, amministrativo), in quanto gli interessi in gioco sono così da alti da richiedere almeno una verifica giurisdizionale.  

L’ambito delle competenze delle Autorità, per quanto assai ampio in talune materie, è ovviamente lungi dall’essere generale; da qui la limitatezza quantitativa della loro esperienza, che vale invece specialmente sul piano qualitativo e di indirizzo. Pertanto, non è in contrasto con la loro esperienza che varie leggi sul processo amministrativo abbiano cercato, con successo, di razionalizzare e rendere più efficace la giustizia amministrativa: in particolare, la legge n. 205/2000 e le molte disposizioni sui riti processuali amministrativi “speciali”. Trattasi di leggi che, pur esprimendo una politica del diritto assai moderna ed interessante, risultano opposte (e davvero “alternative”, verrebbe da dire) alle forme di tutela amministrativa ed alle ADR. Migliorando la giurisdizione se ne accentua l’attrattività, a tutto scapito delle altre forme di tutela; con il paradossale effetto di un nuovo aumento del contenzioso che pure la velocizzazione e vari strumenti particolari hanno ridimensionato.

In particolare, la legge n. 205/2000 e le successive “minori” hanno migliorato sensibilmente la fase cautelare, anche con nuovi istituti – come la tutela ante causam – sino ad allora conosciuti solo nel diritto processuale amministrativo; ed ha rafforzato la possibilità per decisioni di merito assai rapide in materie “sensibili” per entrambe le parti del giudizio. Si conferma così che la possibilità di una tutela rapida ed efficace supera le principali motivazioni delle ADR, e l’idea di fondo che le ADR rappresentano un parziale rimedio alle situazioni di “giustizia giurisdizionale” inefficienti e gravose.

Nello stesso periodo si sono avuti ripetuti interventi su procedure speciali già previste normativamente e per istituirne di nuovi. Si è cercato così di modulare la giustizia amministrativa in funzione specifica degli interessi coinvolti dai diversi tipi di procedure – obbiettivo di grande civiltà giuridica – ma l’eccesso di procedure giurisdizionali speciali ha determinato esiti paradossali: crisi del modello generale di processo amministrativo (ammesso che davvero vi fosse), difficoltà di un’efficace difesa a fronte dei molti rischi e difficoltà delle nuove procedure, sommarietà delle decisioni per il prevalere della speditezza rispetto alla pienezza del contraddittorio e del giusto processo (inteso nel lato del diritto al pieno dispiegamento delle proprie ragioni).

Si può dunque molto discutere sulla bontà della valorizzazione dei riti speciali, ma ciò che ai presenti fini importa è che gli interessati hanno dovuto seguire queste procedure (o le hanno scelte, quando appropriate), lasciando da parte eventuali procedure “alternative”.                                                                                                                 

7. Insostanza, varie motivazioni convergenti, anche se di origine diversa, portano a riportare il pendolo della tutela sul versante della giurisdizione. Oltre a quanto già rilevato, è significativo di questo indirizzo di fondo quanto previsto all’art. 9F del Trattato di Lisbona che privilegia chiaramente la tutela giurisdizionale.

La stessa direzione è indicata anche da un’esperienza britannica, sinora ritenuta esemplare dell’utilità di forme diverse o alternative di tutela rispetto alla giurisdizione. E’ il caso degli Administrative Tribunals, istituiti a partire dagli anni trenta dello scorso secolo e fortemente irrobustiti con la riforma del 1957-58. Si tratta, ad onta del nome “Tribunali”, di organi amministrativi contenziosi, composti da funzionari ed esperti della materia, che esaminano ricorsi di merito più che di legittimità (i confini sono, come sempre, labili) delle pubbliche amministrazioni e dei vari soggetti ad esse assimilati perché holders of power. Per quanto esaminino la gran parte del complessivo contenzioso amministrativo (decine di migliaia di ricorsi), non erano considerati parte del giudiziario, ma dell’amministrazione. Una serie di riforme aveva progressivamente accentuato le garanzie di autonomia ed assicurato il rispetto del due process of law; ma, al più, si parlava gergalmente di mini-courts. I loro pregi (speditezza, specializzazione dei giudicanti, costi, assai ridotti) avevano sollecitato l’attenzione dei giuristi “continentali”, che parlavano dei Tribunals come della forma realizzata dell’amministrazione giustiziale.

È avvenuta però nel 2007 una riforma profonda che ha inserito i Tribunali nel sistema giudiziario britannico, pur con talune particolarità. Sono questi Tribunali – organizzati su due livelli e garantiti complessivamente da un Council – che trattano quasi esclusivamente le applications (o claims) for judicial review, e loro decisioni sono rivedibili dalle Corti. In sostanza, i Tribunals sono stati catturati dal sistema giudiziario e dai giuristi; con l’effetto, tra i tanti, di aver fatto venire meno un modello di amministrazione giustiziale che per decenni aveva incantato molti giuristi europei. I Tribunals continuano a chiamarsi “amministrativi”, ma tale qualificazione sembra più alludere, come da noi, alla competenza che alla loro posizione. 

8. Malgrado questi sviluppi, sarebbe profondamente sbagliato abbandonare la tematica della tutela non giurisdizionale, dato che, almeno in una prospettiva di medio-lungo periodo è necessario elaborare un modello di garanzie più ampie ed articolate per situazioni che siano peculiari rispetto al modello tipo di contenzioso amministrativo.

Se le ADR appaiono oggi un tema precocemente appassito è perché sono state per lo più trattate unitariamente, con un entusiasmo acritico che finiva per celarne le profonde differenze tipologiche e finalistiche. Il libro di Giovannini è una felice eccezione, perché aiuta ad evidenziare le differenze tra le varie tutele non giurisdizionali e le loro prospettive, conseguentemente diverse.

Occorre tornare a delimitare con precisione quali tra le svariate tecniche di tutela non giurisdizionale siano compatibili con il diritto delle pubbliche amministrazioni. Sinora si è molto parlato delle ADR e di consimili forme di tutela in termini funzionali, ponendo l’accento sui benefici che ne potevano discendere tanto per i privati che la stessa pubblica amministrazione. E’ giunto il momento di considerare invece l’ammissibilità di ciascuna di tale tecnica con il diritto delle pubbliche amministrazioni (non necessariamente il diritto amministrativo). Ciò che supererà tale vaglio si porrà probabilmente in modo più forte come effettivo strumento “alternativo” alla giurisdizione. A sua volta, la giurisdizione non ha, di per sé, nulla da temere dalle tecniche alternative perché queste non possono non rimanere in uno spazio limitato, utilizzate per questioni non centrali nel rapporto pubbliche amministrazioni-cittadini e società.

La responsabilità dell’amministrazione nel diritto comunitario

MARIO P. CHITI

Sommario: 1. La responsabilità extracontrattuale nel diritto comunitario come portato necessario della natura della Comunità europea come “comunità di diritto”. 2.  Miti e realtà della tutela dei diritti nell’ordinamento comunitario.  3.  La responsabilità extracontrattuale della Comunità e taluni suoi caratteri originali.  4.  La responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Base giuridica ed altre questioni generali. 5. Segue: il carattere comunitario della responsabilità degli Stati membri e le peculiari conseguenze.  6. Cenni sull’incidenza nella problematica nazionale.    

1. La responsabilità extracontrattuale nel diritto comunitario come portato necessario della natura della Comunità europea come “comunità di diritto”

1.1.  La Comunità europea (CE) è un’organizzazione sovranazionale tanto caratterizzata dal ruolo del diritto da essere considerata una “comunità di diritto”. Lo stesso vale ovviamente per l’Unione europea (UE); sino a quando rimarrà la distinzione tra UE e CE, ovvero sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che prevede che “l’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea”.[1] Questo implica principalmente che “né i suoi Stati membri né le sue istituzioni sono sottratti al controllo di conformità dei loro atti alla carta costituzionale fondamentale costituita dal Trattato CE; e che quest’ultimo ha istituito un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti inteso ad affidare alla Corte il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni” (giurisprudenza consolidata; da ultimo, riassuntivamente, Corte di giustizia, sentenza 3.9.2008, cause riunite C-402/05 e C-415/05, Kadi, para. 281 e segg.). Inoltre, i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l’osservanza.Il rispetto del diritto rappresenta dunque la condizione di legittimità degli atti comunitari, e nel sistema comunitario non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto di questi ultimi (Corte di giustizia, 12.6.2003, causa C-112/00).La qualificazione della CE come “comunità di diritto” è risalente ed affermata sia nelle istituzioni politiche (così, nel Parlamento europeo, da Walter Hallstein cui si deve la felice espressione), sia dalla scienza giuridica (specialmente da Jean-Victor Louis nel suo libro seminale sui caratteri dell’ordinamento comunitario), che nella giurisprudenza della Corte (specialmente a partire dalla sentenza 23.4.1986, causa 294/83, Les Verts/Parlamento europeo). Ciò che ai presenti fini maggiormente interessa è la sottolineatura dell’autonomia del sistema giuridico comunitario, del quale la Corte di giustizia assicura il rispetto in forza della competenza esclusiva di cui essa è investita a norma dell’art. 220 TCE; competenza che la Corte ha considerato come facente parte dei fondamenti stessi della Comunità (parere 14.12.1991, n. 1/91). In coerenza con questo assunto generale, il tema della tutela dei diritti fondamentali e delle garanzie è stato svolto sin dal 1969 (Stauder, sentenza 12.11.1969, causa C-29/69), con un’originale giurisprudenza della Corte di giustizia (tramite la categoria dei “principi generali di diritto comunitario”, a partire dal caso Nold, sentenza 14.5.1974, causa 4/73) e con un uso sapiente della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), promossa dal Consiglio d’Europa (a partire dalla sentenza 13.12.1979, Hauer, causa 44/79). La CEDU è stata così progressivamente “comunitarizzata”, senza che la CE divenisse parte della stessa (parere n. 2/94). Il principio divenuto definitivo è dunque che “i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma” (sentenza 26.6.2007, C-305/05).La Carta dei diritti fondamentali dell’UE - “proclamata” a Nizza nel dicembre 2000, approvata dal Parlamento europeo con grandissima maggioranza nel novembre 2007, ed indi “riproclamata” dai presidenti delle tre istituzioni – pareva la logica conclusione del percorso per la piena costituzionalizzazione comunitaria dei diritti fondamentali. Ma è ben noto che al valore oggettivamente costituzionale della Carta non ha corrisposto finora un suo formale riconoscimento giuridico. Ciò avverrà solamente con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ove si chiarisce che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (punto 8 del preambolo, che sostituisce l’art. 6 TUE), pur rimanendo un testo giuridico a sé stante.Comunque, la Carta ha esercitato un ruolo di rilievo nelle argomentazioni dei giudici comunitari – che ne hanno parlato come “fonte di ispirazione” - e degli avvocati generali, che hanno arricchito le loro “conclusioni” con vari riferimenti ad essa; la stessa Corte costituzionale ne ha riconosciuto il rilievo interpretativo (sentenza n. 349/2007)[3].

1.2.  Tra le molte articolazioni della nozione di “comunità di diritto” vi è quella della responsabilità extracontrattuale quale istituto giuridico necessario del diritto comunitario, vuoi per il versante propriamente comunitario (vale a dire per i comportamenti delle istituzioni e degli organismi comunitari), vuoi per le competenze a rilevanza comunitaria esercitate dagli Stati membri[4].Come molti altri caratteri generali del diritto comunitario, il punto era già implicitamente previsto nella fondamentale sentenza del 1963 Van Gend & Loos[5], che, nel riconoscere i cittadini degli Stati membri come soggetti dell’ordinamento comunitario, affermò che questo comportava anche dei diritti che divenivano parte del loro patrimonio legale (punto 30 della sentenza). Non fu pertanto sorprendente – almeno per i più attenti osservatori – che nella sentenza Francovich la Corte affermasse che l’effettività del diritto comunitario e della tutela dei singoli sarebbe stata invalidata se i singoli non avessero legittimazione ad agire anche nei confronti degli Stati per violazioni di diritto comunitario.Il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale nel sistema comunitario – inteso come sistema integrato con quello degli Stati membri – deriva anche da una serie di concomitanti principi, tra cui in particolare quelli di primato del diritto comunitario e di effettività della tutela.Tali principi saranno meglio analizzati più avanti, relativamente alla discussione sulla base giuridica della responsabilità degli Stati membri; ma sin d’ora merita rilevare che a partire dal caso Francovich la Corte ha tenuto fermo il punto che la responsabilità extracontrattuale degli Stati membri nei confronti dei singoli per violazione del diritto comunitario “è inerente al sistema giuridico dei Trattati” (punto 32 della sentenza).  Un corollario di tale impostazione, sviluppato sin dalle prime sentenze in materia (Plaumann, causa 25/62; Luetticke, causa 4/69; Schoeppenstedt, causa 5/71), è che l’azione di annullamento sia azione primaria ed autonoma; nel senso di non essere condizionata da precise e concomitanti azioni di annullamento o di altro natura[6] 

1.3.  Il tema della tutela dei diritti era stato sinora sviluppato all’interno dell’ordinamento comunitario e del sistema complesso formato dal diritto CE e dalla CEDU; ma di recente ha avuto modo di espandersi verso il versante internazionale, specie per le sollecitazioni poste dalle nuove organizzazioni internazionali di ultima generazione (come l’Organizzazione mondiale del commercio), più simili al modello di organizzazione sovranazionale che non a quello delle tradizionali “unioni internazionali amministrative”. Nonchè per le incisive misure per combattere il terrorismo internazionale, come le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (NU), assunte ai sensi degli artt. 24 e 25 della Carta delle NU del 1945.La giurisprudenza comunitaria ha avuto inizialmente alcune incertezze di impostazione, ben evidenziate dalle sentenze del Tribunale di primo grado 21.9.2005, cause T-315/01 e T-306/01, Yusuf, ove si è accolta un’interpretazione di tipo internazionalistico per cui gli Stati membri delle NU sono tenuti a rispettare prima di tutto gli obblighi loro derivanti dalla Carta delle NU; anche rispetto a qualsiasi altro obbligo convenzionale da essi assunto. Addirittura, il Tribunale ne ha tratto l’obbligo per gli Stati membri di disapplicare qualsiasi norma di diritto comunitario che ostacoli la buona esecuzione degli obblighi assunti in base alla Carta NU; tramite un istituto che già di per sé è dubbio, quale la “disapplicazione internazionalistica.Opportunamente, la Corte di giustizia ha rimesso l’accento sul carattere prettamente europeo della tutela dei diritti; in particolare, affermando (punto 308 e segg. della citata sentenza Kadi) che la prevalenza del diritto NU sul diritto comunitario non si estende al diritto primario (Trattati) ed ai principi generali, nel cui novero vi sono i diritti fondamentali. Di conseguenza ha avuto “l’ardire” di filtrare le misure del Consiglio di sicurezza, come attuate dalle istituzioni comunitarie, in relazione alle garanzie dei diritti fondamentali. La sentenza di riferimento è la già citata, recente, del 3 settembre 2008; assunta in Grande sezione sul caso Kadi, secondo cui i principi che disciplinano il concatenarsi dei rapporti tra l’ordinamento giuridico internazionale creato dalle Nazioni Unite e l’ordinamento giuridico comunitario  non escludono un controllo giurisdizionale della “legittimità interna” di un regolamento comunitario sotto il profilo dei diritti fondamentali; anche per essere tale controllo una garanzia costituzionale che fa parte dei fondamenti stessi della Comunità (punto 290 della sentenza).

1.4.  Gli atti internazionali conclusi dalla Comunità, per le materie di sua competenza, rilevano anche nel quadro della problematica della responsabilità extracontrattuale. E’ stato infatti sostenuto[7] che gli Accordi OMC implicano una responsabilità extracontrattuale, in caso di violazione da parte delle istituzioni comunitarie di decisioni assunte su tale base, in quanto gli accordi OMC rientrano tra le normative alla luce delle quali il giudice comunitario controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie.La conclusione della Corte di giustizia (sentenza già citata del 9.9.2008[8]) è risultata negativa perché, in generale, l’esame della validità di una normativa comunitaria derivata alla luce di un trattato internazionale può avvenire “solo ove ciò non sia escluso né dalla natura né dalla struttura di esso e, inoltre, le sue disposizioni appaiano, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise”; nello specifico, perché gli Accordi OMC non rientrano tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie (punto 110 e segg. della sentenza). 

2.  Miti e realtà della tutela dei diritti nell’ordinamento comunitario. 

2.1. Dopo questa introduzione si potrebbe pensare alla CE ed all’UE come al paradiso dei diritti e delle garanzie, ove il tema della responsabilità è uno dei filoni ancillari e necessari del diritto di difesa e del diritto alla piena protezione dei propri interessi giuridicamente rilevanti. In realtà, possiamo constatare una forte differenza tra i principi affermati e la realtà del livello di protezione effettivamente garantitoSi consideri che le procedure di tutela offerte agli interessati dal diritto comunitario sono, a prima lettura, molteplici: azione di annullamento (art. 230, comma 4, TCE), eccezione di invalidità (art. 241 TCE), rinvio pregiudiziale sulla validità degli atti compiuti dalle istituzione e dalla BCE (art. 234, comma 1, TCE), ricorso in carenza (art. 232 TCE), azione di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, della Comunità (art. 288 TCE). Ma, salvo l’azione di annullamento, le altre azioni sono assai raramente usate vuoi per l’applicazione da parte dei giudici comunitari di criteri di ammissibilità assai rigidi; vuoi per la sfiducia sul loro esito positivo. Non ingiustificata, considerando che le conclusioni raggiunte dai giudici comunitari sono normalmente di rigetto delle richieste degli attori privati; anche  quando le sentenze si dilungano in premessa sul ruolo qualificante dei diritti fondamentali.La stessa azione di annullamento non si è manifestata come la migliore procedura per gli interessati, a causa di una giurisprudenza restrittiva della Corte di giustizia; più che per la formulazione del richiamato art. 230 TCE. Basti qua ricordare che sin dalle prime decisioni la Corte ha dato una lettura limitativa della legittimazione processuale, in relazione ai requisiti dell’azione come l’individualità dell’interesse (Plaumann, 15.7.1963, causa 25/62, che ha posto un criterio sostanzialmente seguito sino ad oggi: sentenza 25.7.2002, C-50/00, Union de Pequenos Agricultores; sentenza 1.4.2004, C-263/02, Jego-Quere) ed al carattere diretto della violazione (causa C-104/00). Di più, la Corte ha previsto pretoriamente altri criteri, come l’interesse ad agire, con scelta di merito condivisibile, ma senza espressa base giuridica (per una sintesi recente sui requisiti della legittimazione, cfr. la sentenza 13.3.2008, C-125/06, Infront AG). Per gli attori “non privilegiati” (si chiamano così gli attori diversi dalle istituzioni comunitarie e dagli Stati membri) si può dire – parafrasando l’espressione usata nel secolo scorso da un giudice inglese circa la legittimazione ad adire l’High Court inglese – che le porte della Corte di giustizia sono aperte come quelle dell’Hotel Ritz per la persona comune[9]

2.2.      Ma, e qui si arriva finalmente al nostro tema, lo stesso atteggiamento limitativo non è stato seguito dalla Corte in relazione all’azione di danno; specie per il lato della responsabilità extracontrattuale. Infatti, la giurisprudenza comunitaria ha sviluppato un interessante complesso di principi; in parte ricavati dai diritti nazionali, per altre parte sua propria creazione. Soprattutto, ha letteralmente “inventato” – quale problema comunitario – il tema della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto comunitario; senza base diretta nel TCE, se si esclude il riferimento – di limitato rilievo – nell’art. 228 alla eventuale sanzionabilità degli Stati membri che non si siano pienamente conformati alle sentenze della Corte pronunciate nei loro confrontiL’attivismo della Corte sulla tematica della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri è oggetto di vivaci critiche, come meglio si dirà. Merita chiedersi sin d’ora la ragione di questa apparentemente strana differenza di considerazione dell’azione di responsabilità rispetto a tutti gli altri rimedi. Anticipando la meglio ragionata conclusione, pare corretto affermare che la Corte abbia voluto in un colpo solo perseguire una serie di obbiettivi di rilevante interesse: a) allontanare da sé e in genere dalla Comunità l’azione di responsabilità, valorizzando il rapporto diretto dei singoli con gli Stati membri e le loro corti/tribunali; b) strumentalizzare i singoli quali indiretti guardiani della correttezza comunitaria delle proprie amministrazioni nazionali; c) condizionare i giudici nazionali, ad onta dell’affermato principio dell’autonomia procedurale degli Stati membriCerto, i ragionamenti della Corte – per quanto impregnati di considerazioni di politica del diritto, qua finalizzate a valorizzare la tutela in sede nazionale per arginare azioni dirette davanti ai giudici comunitari – sono sempre eleganti e basati su considerazioni di per sé ineccepibili. Nel caso, essendo prevalente l’attività/inattività degli Stati, sia nel tradizionale (ma ormai raro) modello dell’amministrazione indiretta, sia in quello (oggi predominate della coamministrazione e dei procedimenti composti), è corretto ritenere che formalmente la contestazione riguarda il comportamento degli Stati. Malgrado che le amministrazioni statali siano, in queste circostanze, “amministrazioni comuni” dell’ordinamento comunitario; se non addirittura, come affermato dalla Cassazione in una recente sentenza (SS.UU., 19.5.2008, n. 12641), “longa manus della Comunità”. Così come è certamente corretta l’affermazione che l’azione di responsabilità è anzitutto finalizzata alla piena garanzia delle posizioni degli interessati; e che gli effetti “funzionali” agli interessi comunitari – apprezzatissimi dalle istituzioni comunitarie – sono solo collaterali alla ratio primaria dell’azioneSono rimaste isolate talune conclusioni della Corte (come nella sentenza Krohn, causa 175/84) sull’esistenza di una responsabilità della Commissione per i danni subiti dai singoli per cattiva attuazione del diritto comunitario da parte delle amministrazioni nazionali, in base al criterio che la Commissione ha l’obbligo di vigilare attentamente sul rispetto del diritto comunitario, incluso la corretta applicazione in sede nazionale. Ma si tratta di un’indicazione da rirendere, anche per meglio finalizzare l’operato della Commissione.

2.3.  È estraneo a questo saggio il tema della possibile responsabilità non contrattuale dei singoli (probabilmente persone giuridiche, nella maggior parte dei casi, come nel quadro del diritto della concorrenza) per violazione di diritti che il diritto comunitario ha assicurato ad altre parti. La questione è di grande portata considerando l’incremento delle controversie di carattere “orizzontale” (privato-privato) a base comunitaria, e merita adeguata considerazione in una prossima occasione; anche per sviluppare le caute aperture sinora espresse dalla Corte di giustizia che, in principio, afferma che il diritto comunitario non preclude ai giudici nazionali di accertare tale forma di responsabilità, ma indica onerose condizioni di difficile verifica[10]. Per il momento basti dire che il tema ha caratteristiche simili a quelle più risalenti e sviluppate – come l’effetto diretto - ove le aperture della giurisprudenza comunitaria erano ispirate alla garanzia dell’effettività del diritto comunitario, più che dei diritti dei singoli; per poi assettarsi (con conferma nel diritto comunitario primario e derivato) principalmente sulle posizioni di questi ultimi. 

3.  La responsabilità extracontrattuale della Comunità e taluni suoi caratteri originali

La base giuridica della responsabilità comunitaria è, come anticipato, l’art. 288 TCE, che tratta della responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale. Riferimenti al tema si ritrovano anche negli artt. 233 e 235. Non esiste invece alcuna disposizione espressa nei Trattati sulla responsabilità extracontrattuale degli Stati membri; significativamente neanche nel nuovo Trattato di Lisbona, che lascia invariato l’attuale art. 288 TCE (che diviene l’art. 340 TFUE), e nella Carta dei diritti fondamentali che, nella disposizione sul diritto ad una buona amministrazione, ribadisce il diritto al risarcimento del danno ingiusto solo nei confronti della Comunità. La ragione è presumibilmente che le risultanze della giurisprudenza della Corte di giustizia sono ormai considerate parte dell’ acquis comunitario; così da non necessitare di una “consolidazione” nel diritto primario dell’Unione.La responsabilità extracontrattuale della Comunità era stata, sino a tempi recenti, oggetto di un limitato contenzioso, senza esiti particolarmente significativi. Si ricorda solo, oltre a qualche peculiarità procedurale prevista dallo Statuto della Corte, l’apertura (non ancora consolidata) al riconoscimento della responsabilità per fatto lecito (sentenza TPG 14.12.2004, T-69/00, Fiamm). Da ultimo, invece, vi sono indicazioni di una svolta giurisprudenziale verso un controllo penetrante sull’operato della Commissione (esecuzione “diretta”), che in alcuni casi – come la concorrenza – è particolarmente rilevante per i soggetti interessati. Emblematica la sentenza del TPG dell’11.7.2007, T-351/03, Schneider, ove è stata accertata la responsabilità della Commissione per la (grave) violazione del diritto comunitario sulla concentrazione di società, specie per la violazione dei diritti di difesa della Società interessata. La sentenza è interessante per il “coraggio” nell’incidere su una funzione essenziale della Commissione in tema di concorrenza (altrettanto non può dirsi per la situazione delle nostre Autorità amministrative), ed anche nella parte in cui ribadisce in modo articolato l’irrilevanza, almeno in modo diretto, dell’elemento psicologico della colpa. Le conclusioni dell’Avvocato generale nel giudizio di appello paiono però virare nuovamente verso la tradizione; sì che prima di trarre definitive valutazioni dal caso Schneider è opportuno attendere la sentenza della Corte di giustizia.In ogni caso, la giurisprudenza sul tema andrà sempre seguita con attenzione, dato che i principi affermati per la responsabilità della Comunità rifluiscono direttamente anche nel tema, assai più vasto, della responsabilità degli Stati membri. Il punto è stato chiaramente affermato dalla sentenza Brasserie du Pécheur (5.3.1996, cit.) nei para. 29 e 42.

3.2.  Indicazioni più consolidate scaturenti dalla giurisprudenza comunitaria riguardano due tematiche dove la posizione degli Stati membri appare assai conservativa: le questioni della possibile responsabilità extracontrattuale da atto legittimo/lecito e da atto legislativo.La prima questione è, come noto, dibattuta nel quadro degli ordinamenti nazionali; con esiti prevalentemente negativi, sia in termini di principio che, soprattutto, di risultanze concrete. Pertanto non può seriamente parlarsi, al riguardo, di un principio generale comune agli Stati membri. Anche la Corte di giustizia è stata assai riluttante – come accennato – ad aprire la via per una siffatta responsabilità, e, semmai, con particolari limitazioni rispetto alle usuali condizioni: come il “danno speciale e rilevante” arrecato all’interessato[11]. Con la nota sentenza Dorsch[12] il Tribunale ha poi arricchito la motivazione, affermando che la proponibilità dell’azione di responsabilità da atto legittimo può configurarsi solo quando il danno asserito riguarda un particolare gruppo di persone, trattato in modo sproporzionatamente diverso rispetto agli altri interessati; con una combinazione del principio di proporzionalità e della nozione di “danno inusuale”.Il problema è stato sistemato in modo più organico dalla Grande sezione della Corte di giustizia, con l’importante sentenza 9.9.2008, cause riuniti C-120/06 e 121/06 (ove si tratta anche della responsabilità extracontrattuale della Comunità in caso di asserita violazione di decisioni dell’organo di risoluzione delle controversie dell’OMC; questione che si analizzerà più avanti in questo testo).Il ricorso incidentale del Consiglio e della Commissione avverso la sentenza del Tribunale del 14.12.2005, causa T-69/00, ha riguardato la parte che ha affermato il principio generale della responsabilità della Comunità anche in mancanza di un comportamento illegittimo imputabile alle sue istituzioni.La Corte di giustizia ha accolto il ricorso incidentale delle istituzioni con un’articolata motivazione, la cui premessa è che la propria precedente giurisprudenza non ha per niente consacrato il principio di un regime di responsabilità extracontrattuale in mancanza di un comportamento illegittimo/illecito. E’ stato poi constatato, correttamente, che dall’esame comparativo degli ordinamenti degli Stati membri non emerge alcuna convergenza in tal senso. Anche ammettendo che in diritto comunitario il principio della responsabilità per atto legittimo sia astrattamente ammissibile, per la Corte occorre sempre verificare “almeno che siano riunite tre condizioni cumulative costituite dall’effettività del danno, dall’esistenza di un nesso di causalità tra esso e l’atto in questione, nonché dal carattere anormale e speciale del danno”.Nel caso in esame (FIAMM e Fedon, cit.), neanche poteva porsi il problema dato che la norma giuridica la cui violazione andava constatata (accordi OMC) non era preordinata a conferire diritti ai singoli. La sentenza precisa poi che la questione della responsabilità per atto legittimo/lecito non cambia neanche quando rilevano diritti fondamentali (punto 181 e segg.). Questi infatti non costituiscono “prerogative assolute”, ma “vanno considerati alla luce della loro funzione sociale”; sì che la loro violazione può essere fonte di responsabilità solo quando si tratti di interventi sproporzionati ed inaccettabili, “tali da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti”.  Occorre prendere atto della conclusione generale della Corte (punto 179 della sentenza), che non esiste un regime di responsabilità extracontrattuale della Comunità derivante dall’esercizio legittimo di attività rientranti nella sfera normativa; sì che eventuali responsabilità potranno configurarsi solo in speciali circostanze. Ma non si può non dissentire dalla motivazione, ove si confondono le questioni sulla responsabilità per atto legittimo/lecito con le questioni della responsabilità derivante dall’attività legislativa per violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli.Ai fini dell’interazione tra il regime comunitario ed il regime nazionale si può comunque sottolineare che, pur nei limiti ora detti, il diritto comunitario ammette forme di responsabilità da atto legittimo/lecito; con aperture maggiori, almeno in punto di principio, rispetto al diritto nazionale.

3.3.  Circa poi la questione della responsabilità derivante da attività legislativa, si può constatare una non rara asimmetria di giudizio della Corte di giustizia  che è severa nei confronti degli Stati membri, ma assai più indulgente per il legislatore comunitario. Rinviando ai paragrafi successivi l’esame della prima questione, per quanto riguarda la responsabilità della Comunità si è affermato che essa può configurarsi solo in caso di violazione grave di una norma superiore (sentenze Grands Moulins, cause riunite 9/71 e 11/71; Bayerische HNL, cause riunite C-46/93 e 48/93; AERPO, causa C-119/88).Quasi didatticamente la Corte ha spiegato che “la concezione restrittiva della responsabilità della Comunità derivante dall’esercizio delle proprie attività normative si spiega con la considerazione che l’esercizio del potere legislativo, anche nei casi in cui esiste un controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti, non deve essere ostacolato dalla prospettiva di azioni risarcitorie ogni volta che esso deve adottare, nell’interesse generale della Comunità, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli e che, per altro verso, in un contesto normativo caratterizzato dall’esistenza di un ampio potere discrezionale, indispensabile per l’attuazione di una politica comunitaria, la responsabilità della Comunità può sussistere solo se l’istituizone di cui trattasi ha disconosciuto, in modo palese e grave, i limiti che si impongono all’esercizio dei suoi poteri” (sentenze Brasserie du pècheur e Factortame, cit., punto 45; FIAMM e Fedon, cit., punto 174). Si tratta di considerazioni condivisibili, ma che non corrispondono a quanto deciso più restrittivamente dalla Corte nei casi di responsabilità degli Stati membri.     

4.  La responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario. Base giuridica ed altre questioni generali 

4.1.  In ordine alla responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario, i temi principali sono i seguenti: a) la base giuridica di tale responsabilità; b) l’ambito del diritto comunitario che può essere parametro della legalità/illegalità del comportamento degli Stati; c) la nozione di Stato che qua è richiamata; d) le condizioni dell’azione di responsabilità; e) il ruolo dell’elemento soggettivo per la configurabilità della responsabilità; f) i condizionamenti per l’ordinamento degli Stati membri.Prima di esaminare questi punti è opportuno notare che, fino alla storica sentenza Francovich del 1991, le sentenze del giudice comunitario erano state assai rare e poco significative. La ragione di quella situazione è discussa, ma la più convincente è che per garantire i diritti degli interessati inizialmente sia stato sufficiente l’utilizzo effettivo del criterio di interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto comunitario, e il pieno utilizzo del principio di effetto diretto. L’attivismo giurisprudenziale del successivo periodo è invece la risposta della Corte all’eccesso di violazioni del diritto comunitario – inevitabile, si potrebbe dire, per l’espansione di quest’ultimo. Da ultimo, per il riequilibrarsi della situazione e per un migliore rapporto tra giudici nazionali e giudici comunitari, la Corte di giustizia interviene più selettivamente  

4.2.  Il primo dei temi generali è la base giuridica del principio della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri. Non essendovi nei Trattati - come ormai più volte detto – alcun riferimento al tema (con la sola esclusione della previsione “trasversale” dell’art. 228 TCE), la Corte ha affermato (nella sentenza Francovich, 19.11.1991, cause riunite C-6 e C-9/90) che il principio di responsabilità è “inerente” al sistema comunitario, e che, in ogni caso, si può richiamare l’impegno alla leale collaborazione degli Stati membri con le istituzioni comunitarie nell’esecuzione dei loro obblighi e per la facilitazione della Comunità nell’adempimento dei propri compiti, previsto dall’art. 10 TCE. Su tale base, la Corte si è considerata tenuta ad assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato, conformemente all’art. 220 TCEIl criterio dell’“inerenza” non è in genere convincente in una discussione giuridica, poiché troppo vago. Tanto più questo carattere vale a fronte di un istituto, quale la responsabilità, che può comportare effetti assai negativi per il soggetto che ha visto contestato il suo comportamento. Anche il richiamo al principio di leale collaborazione non appare decisivo, dato che l’art. 10 TCE non può considerarsi principio grimaldello, applicabile in tutte le circostanze; specie a fronte di un sistema che ancora è basato su criteri di attribuzione e su principi generali quali il principio di legalità e di certezza del dirittoTuttavia, pur essendo certo preferibile una diretta e chiara base legale per il principio di responsabilità, non sembra che nel caso in esame il criterio dell’“inerenza” sia richiamato a sproposito. Infatti, la giurisprudenza della Corte appare una necessaria conseguenza dei principi di supremazia del diritto comunitario rispetto ai diritti nazionali e del principio di effetto diretto del diritto comunitario, in determinate condizioni. La relazione tra questi principi è stata proposta inizialmente dalla dottrina, e si ritrova poi anche nelle conclusioni di Avvocati generali e nelle motivazioni di sentenze che hanno fatto proprie tali posizioni.Emblematiche le conclusioni dell’Avvocato generale Léger nella causa Lomas (C-5/94), su cui torneremo in seguito perché di particolare interesse per la responsabilità dell’amministrazione. Per Léger un’azione di danno contro lo Stato per violazione del diritto comunitario costituisce uno sviluppo indispensabile al principio posto dalla sentenza Simmenthal sulla non applicazione del diritto nazionale contrario al diritto comunitario. In tale caso, può non essere sufficiente la disapplicazione della norma nazionale, e gli interessati devono aver riconosciuto il diritto ad agire per il risarcimento dei danni loro causati dall’applicazione della normativa interna che, in osservanza del sistema europeo, avrebbe dovuto rimanere lettera morta.La Corte ha fatto propria tale posizione nel modo più netto con la sentenza Brasserie du Pécheur e Factortame, per cui il diritto al risarcimento è “il necessario corollario” del diretto effetto della previsione comunitaria dalla violazione della quale è dipeso il danno. Altrimenti, sarebbe vanificata la piena effettività del diritto comunitario.Occorre poi aggiungere che nel sistema giuridico integrato CE/UE-Stati membri appare  inammissibile che la responsabilità per violazione del diritto comunitario valga solo per le istituzioni e gli organismi comunitari; specie quando le attività a rilevanza comunitaria sono svolte sempre più spesso secondo il criterio dei procedimenti composti.La ragione maggiore per il riconoscimento comunitario della responsabilità extracontrattuale sta comunque nel rilievo dei singoli come soggetti dell’ordinamento comunitario, secondo quanto affermato dalla Corte sin dalla sentenza Van Gend & Loos del 5.2.1963, causa 26/62. I singoli di cui parla la Corte non possono non avere diritti nei rispetti della Comunità e degli Stati membri, a fronte dei rispettivi comportamenti; diritti che sono “giustiziabili” secondo il principio dell’effetto diretto, altra creazione della giurisprudenza comunitaria.Per concludere, il criterio della configurabilità del principio di responsabilità per “inerenza” non è, per una volta, contestabile. Non per caso, oggi, il principio di responsabilità degli Stati membri è così affermato da non essere stato considerato – come detto – degno di un’espressa menzione nell’ultimo Trattato; laddove gli Stati membri avrebbero ben potuto modificare l’attuale sistemazione giurisprudenziale.

4.3.  Circa poi l’ambito del “diritto comunitario”, quale parametro dell’antigiuridicità dei comportamenti contestati, la risposta è stata data da tempo dalla Corte di giustizia a favore dell’interpretazione più lata. Pertanto, vi si ricomprendono il diritto primario e il diritto derivato, ogni altro tipo di norma, i principi generali, nonché le statuizioni giurisprudenziale della Corte di giustizia. Ma sempre alla condizione che tale “diritto” sia finalizzato (anche solo indirettamente) alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive degli interessati.Con il moltiplicarsi di accordi internazionali conclusi dalla Comunità europea per le materie di sua competenza, si sono avuti casi in cui gli interessati hanno attivato azioni di responsabilità nei confronti della Comunità per comportamenti illeciti per contrasto con atti e decisioni scaturenti da tali accordi. Il parametro normativo che basa l’azione di responsabilità è dunque direttamente un atto “esterno” al diritto comunitario.Un caso esemplare è quello da ultimo deciso in secondo grado dalla Grande sezione della Corte di giustizia con la già citata sentenza del 9.9.2008, cause riunite C-120 e 121/06 (FIAMM e Fedon). Le due imprese avevano impugnato la sentenza del Tribunale che aveva respinto i loro ricorsi diretti ad ottenere il risarcimenti del danno asseritamene causato da una sovrattassa doganale applicata dagli Stati Uniti sull’importazione dei loro prodotti, autorizzata da un organo dell’OMC, a seguito dell’accertamento da parte dell’Organo per la risoluzione delle controversie dell’OMC dell’incompatibilità del regime comunitario di importazione delle banane. Il punto di diritto verteva dunque sull’asserito comportamento illecito delle istituzioni comunitarie per mancato adeguamento alle decisioni scaturenti dagli accordi OMC.La Corte ha confermato la sentenza del Tribunale, dato che è possibile procedere all’esame della validità di una normativa comunitaria derivata alla luce di un trattato internazionale “solo ove ciò non sia escluso né dalla natura né dalla struttura di esso e, inoltre, le sue disposizioni appaiano, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e suffcientemente precise” (punto 110). Tali non sono gli accordi OMC, salve eccezionali circostanze. In particolare, circa gli impegni della Comunità di conformarsi alle norme dell’OMC, la Corte ha ritenuto che nulla giustifica la possibilità di invocare norme dell’OMC davanti al giudice comunitario e di permettere a quest’ultimo di controllare alla luce di queste la legittimità di regolamenti comunitari. Oltre al rilievo generale, la Corte ha ritenuto decisivo che la soluzione delle controversie sia aperta a soluzioni diverse; sì che anche da questo punto di vista le decisioni OMC non sono idonee ad attribuire ai singoli un diritto di farle valere dinanzi al giudice comunitario per ottenere un controllo sulla liceità dei comportamenti delle istituzioni comunitarie.

4.4. Relativamente alla nozione di “Stato”, la Corte è ferma nel riferirsi ai Governi anche quando sia fuori discussione che i fatti illeciti siano addebitabili ad altri enti pubblici, come i Laender (caso austriaco del Land Tirol, Konle, 1.6.1999, C-302/97) oppure enti previdenziali (caso Haim, 7.4.2000, C-424/97). Si avverte qua la perdurante ambiguità internazionalistica di certe questioni comunitarie (riflessa anche dal mancato riconoscimento delle regioni quali “attori privilegiati” nell’azione di annullamento, e quindi dall’equiparazione della loro posizione a quella dei privati; con tutti i conseguenti limiti sopra detti), visto che in varie occasioni gli stessi Avvocati generali tendono a liquidare il problema richiamando il principio dell’unità dello Stato in diritto internazionale; quando invece si tratta di questione non di diritto internazionale, bensì prettamente comunitaria. La posizione esprime poi l’irrilevanza per la Comunità dell’elemento soggettivo dell’illecito, cui si premette il dato oggettivo della violazione grave e manifesta.Ferma tuttora la posizione dello “Stato” come sopra inteso, si avverte un crescente imbarazzo della Corte a fronte di un sempre maggiore rilievo delle amministrazioni regionali e locali. Il fenomeno dell’autonomismo istituzionale non è, come noto, solo italiano; ma accomuna tutta l’Europa. Nella prospettiva della responsabilità una recente sentenza della Corte di giustizia (11.9.2008, cause riunite da C-428 a 434/06, Union general de Trabajodores de la Rioja), trattando di aiuti di Stato, si è impegolata in una complessa definizione di come debba intendersi l’”ente infrastatuale sufficientemente autonomo”, che mostra la progressiva insostenibilità di un’esclusiva relazione Comunità-Stati membri a fronte di un modello pressoché generale in tutta Europa di forti autonomie regionali e locali. La questione ha un’ovvia ripercussione sulla questione in esame.

4.5.  È naturale a questo punto passare alle condizioni dell’azione di responsabilità. Al riguardo, a prima lettura sembra esservi una sostanziale identità con le condizioni proprie del diritto italiano; comuni anche a molti altri Stati membri. Infatti, tali condizioni sono state individuate nell’antigiuridicità del comportamento dannoso; l’esistenza di un pregiudizio effettivo e giuridicamente rilevante; il nesso causale tra il comportamento tenuto dal soggetto comunitario e il pregiudizio lamentato (tra le tante sentenze della Corte, Oleifici Mediterranei, 29.9.1982, causa 26/81; KYDEP, 15.9.1984, causa C-146/91). Sono comunque proprie del diritto comunitario le seguenti due precisazioni: la norma violata deve essere la base diretta di diritti dei singoli; la violazione di detta norma deve essere “seria”, nel senso che l’autorità ha travalicato i limiti della sua discrezionalità in modo grave e manifesto. Una rilevante differenza sta, come meglio dopo si dirà, nell’obbiettivizzazione della responsabilità; in diretta conseguenza dei caratteri del sistema europeo. Merita anche rilevare, sul piano procedurale, che il giudice comunitario è particolarmente rigoroso nel richiedere all’attore una piena dimostrazione della sussistenza delle condizioni suddette.Relativamente alla rilevanza dell’elemento psicologico della colpa (il dolo qua non interessa), è ben noto che nel nostro diritto la colpa rappresenta una componente essenziale della fattispecie di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. Il principio è stato ribadito dalle SS.UU. della Cassazione anche in occasione della storica svolta rappresentata dalla sentenza n. 500/1999. Al contrario, nel diritto comunitario ciò che rileva – sostanzialmente in modo assorbente – è il dato obbiettivo dell’illegittimità dell’azione pubblica.La diversa considerazione dell’elemento della colpa manifesta i limiti della tesi che la Corte di giustizia si sia rifatta ai principi comuni agli Stati membri per costruire il sistema comunitario di responsabilità. Infatti, l’elemento della colpa è presente costantemente – oltre che nel nostro ordinamento – anche negli ordinamenti degli Stati membri; pur, ovviamente, con varianti significative quali la “misfeasance” inglese. La Corte ha voluto espressamente prendere le distanze da tali condizionamenti nel più volte citato caso Factortame del 1996, dando rilievo prevalente al criterio dell’effettività della tutela; che l’elemento soggettivo dell’illecito potrebbe mettere a rischio per le gravose conseguenze processuali per il danneggiato. 

5.  Segue: il carattere comunitario della responsabilità degli Stati membri e le peculiari conseguenzePrima di esaminare quanto il richiamato quadro generale influisca sul diritto nazionale, merita esaminare qualche ulteriore caratteristica del diritto comunitario in materia.

5.1.  La Corte è stata particolarmente attenta a precisare che la questione della responsabilità è questione di diritto comunitario, sì che il diritto al risarcimento è basato direttamente nel diritto comunitario. Il diritto nazionale offre la propria disciplina per rendere concreta tale tutela, ma non condiziona la configurabilità dell’illecito. Il punto inizialmente era rimasto ambiguo nella sentenza Russo (22.1.1976, causa 60/75), ed è stato opportunamente chiarito nella già richiamata sentenza Francovich che risolve la questione “alla luce del sistema generale del Trattato e dei suoi principi fondamentali” (punto 145).Come è stato giustamente notato[15], la sentenza Francovich rappresenta il risultato finale e logico di una evoluzione giurisprudenziale che ha affermato e sviluppato i principi della specificità dell’ordine giuridico comunitario, del primato e dell’effetto diretto del diritto comunitari.In sostanza, l’azione di responsabilità è basata sul diritto comunitario, ma si svolge secondo le procedure nazionali sino a quando non siano eventualmente posti a rischio i due principi generali qua rilevanti: il principio di equivalenza e quello di effettività della tutela. Il primo principio implica che le norme nazionali applicabili ai casi interni non siano più favorevoli di quelle relative ai casi di rilevanza comunitaria; il secondo, che le norme nazionali non rendano eccessivamente difficile l’azione risarcitoria a base comunitaria.

5.2.  Una seconda caratteristica è che la responsabilità per fatto illecito della pubblica amministrazione è solo una parte di una comprensiva responsabilità dello Stato per tutte le funzioni pubbliche al suo interno esercitate, inclusa la funzione normativa e financo la funzione giurisdizionale. Il punto non è stato affrontato in termini generali dalla Corte, ma si ritrova esplicitamente nelle conclusioni degli Avvocati generali. Così, nelle conclusioni dell’Avvocato generale Léger nel caso Lomas (C-5/94), dove si sottolineò che, essendo problema comunitario la questione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, non rileva la ripartizione nazionale delle funzioni tra i vari poteri pubblici; aspetto per definizione lasciato alle competenze dello Stato membro. Il medesimo Avvocato generale, in altro caso[16], ha affermato – con poca coerenza con il carattere proprio della Comunità, ma efficacemente nell’esito – che sulla base dell’unità dello Stato nella prospettiva internazionalistica la violazione è attribuita allo Stato e non allo specifico organo che l’ha commessa.  La giurisprudenza della Corte ha trattato in una prima fase della responsabilità dello Stato inadempiente nell’attuazione normativa di direttive comunitarie prive di effetti diretti (e’ il caso guida Francovich, citato, del 1991). La circostanza differenzia sensibilmente il diritto comunitario dal diritto nazionale, ma – se si assume la prospettiva comunitaria – è del tutto spiegabile, dato che l’attuazione nazionale in via normativa del diritto comunitario rimane centrale nel quadro degli adempimenti comunitariLa Corte ha dunque esaminato il caso della cattiva attuazione normativa (è il caso Brasserie du Pecheur e Factortame III, 5.3.1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93), e successivamente il caso dell’azione di danno per le conseguenze dell’attività amministrativa in violazione del diritto comunitario (caso Lomas, sentenza 23.5.1996, C-5/94). Più recente, ed inaspettata solo per coloro che non avevano colto i peculiari caratteri della responsabilità in diritto europeo, è stata l’estensione dei medesimi principi anche all’attività giurisdizionale di competenza dei giudici di ultimo grado (sentenza Koebler, 30.9.2003, C-224/01; seguita dal caso, assai rilevante per il nostro ordinamento, Traghetti del Mediterraneo, 13.5.2006, C-173/03).Con la prima sentenza (Koebler), la Corte ha anzitutto precisato che il principio della responsabilità dello Stato ha valore di riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, “qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione”. Inoltre, ha affermato che il potere giudiziario nazionale ha un ruolo essenziale per la tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la cui piena efficacia sarebbe messa in discussione, ed affievolita la tutela dei diritti,  se fosse pregiudizialmente escluso che i singoli non possano ottenere risarcimento per violazioni imputabili ad organi giurisdizionali di ultimo grado di uno Stato membro.Su tale premesse, e ribadite in generale le condizioni dell’azione di responsabilità dello Stato, la Corte si è preoccupata “della specificità della funzione giurisdizionale, nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto”. Da qui la conclusione, che rende particolare la responsabilità per fatto del giudice, che la responsabilità può sussistere “nel caso eccezionale in cui il giudice ha violato in maniera manifesta il diritto vigente” (punto 53). Situazione che si determina, ad esempio, in caso di manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia da parte del giudice nazionale.Con queste puntualizzazioni, l’accertamento della responsabilità va effettuato secondo le norme nazionali; fermo restando che non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.L’autonomia processuale degli Stati membri (tanto più quella relativa al diritto sostanziale, ovviamente) trova comunque un ulteriore vulnus; come chiaramente risulta dal successivo caso Traghetti del Mediterraneo (sentenza 13.6.2006, causa C-173/03). Era in discussione, a seguito di procedura pregiudiziale attivata dal Tribunale di Genova, la questione se sia contraria al diritto comunitario una previsione legislativa nazionale che esclude in via generale la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che l’interpretazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Anche quando sia invocato il principio della cosa giudicata, in virtù del primato del diritto comunitario tale principio non può giustificare l’esclusione della responsabilità del giudice di ultima istanza.L’effetto principale della conclusione ivi raggiunta è stato infatti la messa in discussione del principio di cosa giudicata (art. 2909 c.c.), e, in generale, dei principi di stabilità giuridica. Non si tratta di una sentenza eccentrica, come dimostrato dall’importante sentenza, di poco precedente, Lucchini (18.7.2007, C-119/05). E’ vero che in ambedue i casi si trattava di circostanza del tutto particolari, ma è altrettanto vero che la Corte, una volta stabilito la cedevolezza dei principi di cosa giudicata e di provvedimento amministrativo definitivo, potrà rifarsi ai due precedenti per ampliare la portata della propria statuizione giurisprudenziale.L’estensione dei principi sulla responsabilità a tutte le funzioni dello Stato allontana sensibilmente il diritto comunitario dal diritto nazionale, non solo italiano. Infatti, di regola la responsabilità del legislatore è, in principio, non configurabile e la responsabilità del giudiziario è disciplinata in termini strettamente soggettivi, quale responsabilità del singolo magistrato; esemplare la legge italiana n. 117/1988. Da qui, la concreta possibilità di disapplicazione della disciplina nazionale che eventualmente limiti la responsabilità comunitaria. I pochi casi nazionali riportati dalle riviste sono contraddittori e non probanti. Al riguardo, la Corte di giustizia ha voluto precisare - nella sentenza Traghetti del Mediterraneo - che i criteri che gli Stati membri possono precisare non possono andare oltre la soglia comunitaria della manifesta violazione (punto 44 della sentenza).

5.3. La responsabilità extracontrattuale per comportamento illecito dell’amministrazione[17] si differenzia dagli altri due tipi (del legislatore  e del giudiziario) per non essere circondata da quelle particolari limitazioni che, giustamente, sono state definite per evitare un uso eccessivo delle relative azioni di responsabilità nei confronti del legislatore e del giudiziario. Così, è stato precisato (sentenza Traghetti del Mediterraneo, cit., punto 42 e segg.) che la violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado può verificarsi “nel caso eccezionale” di violazioni gravi e manifeste; di cui la Corte dà alcune esemplificazioni.  Per l’amministrazione, invece, è sufficiente la semplice trasgressione del diritto comunitario; quindi senza necessità di dimostrare la gravità particolare della violazione e senza rilievo per l’elemento della colpa.

5.4.  Altro carattere di rilievo dell’azione di responsabilità secondo il diritto comunitario è la sua autonomia nei rispetti dell’azione di annullamento degli atti dell’amministrazione che hanno causato il pregiudizio asserito; avendo tale azione propri presupposti e specifica funzione. Per usare una terminologia nazionale, il diritto comunitario non prevede in termini generali un criterio di pregiudizialità amministrativa, secondo cui l’azione risarcitoria è ammissibile solo quando il provvedimento lesivo sia stato impugnato.Nella prima giurisprudenza (es. il citato caso Plaumann del 1963, causa 25/63) il punto era rimasto sfumato; ma presto venne chiarito (a partire dalla sentenza Luetticke, 28.4.1971, causa 4/69) il carattere proprio dell’azione risarcitoria, che non è diretta all’annullamento di un provvedimento, bensì al risarcimento da attività o inattività illecita di un’istituzione o di un organismo comunitario.Per quanto in linea di principio distinte, le due azioni nonsono disconnesse in tutti i casi in cui un’azione risarcitoria avrebbe potuto ottenere un risultato analogo, anche pecuniario, tramite la tempestiva impugnativa del provvedimento causativo del pregiudizio. La questione si è posta in termini puntuali nel contenzioso del pubblico impiego comunitario, le cui risultanze sono state poi generalizzate dai giudici comunitari. Così, per la già citata sentenza Plaumann del 1963 (causa 25/63), tutt’oggi di riferimento malgrado taluni successivi affinamenti, “è irricevibile un’azione di risarcimento basata sull’illegittimità di un atto che non era stato tempestivamente oggetto di un’azione di annullamento, in quanto altrimenti si sarebbe potuto conseguire con diversa procedura un risultato che il sistema comunitario vincola a precisi termini e condizioni”. In tali casi, infatti, ammettere azioni di responsabilità potrebbe legittimare azioni “mascherate” con carattere sostanzialmente di annullamento di decisioni non tempestivamente impugnate.Il tema è di particolare rilevanza anche nel diritto nazionale, a seguito dell’innovativa posizione assunta dalla Cassazione - specialmente dal 2006[19] - sull’insussistenza nel nostro ordinamento del principio della pregiudizialità amministrativa. La conclusione della Cassazione è contrastata dalla giurisprudenza amministrativa[20] ed assai dibattuta dalla dottrina, ma è stata da ultimo confermata dalla sentenza delle Sezioni unite n. 30254 del 23 dicembre 2008. Ai presenti fini, questa sentenza è rimarchevole in quanto afferma come primario elemento di supporto alle conclusioni raggiunte il diritto comunitario sul tema, come già analogamente fu fatto dalla notissima sentenza delle Sezioni unite n. 500/1999, in ordine alla risarcibilità degli interessi legittimi. Tuttavia, mentre il riferimento al diritto comunitario fu in effetti decisivo per la svolta giurisprudenziale del 1999, diverso è per il tema della pregiudizialità. Come in effetti dà atto la sentenza n. 30254 (punto 12.4.2.), ma con poca coerenza motivazionale, la giurisprudenza comunitaria non ha ancora un assetto definitivo, salvo “un sicuro orientamento volto a negare il risarcimento almeno in un definitivo settore, in particolare quando la relazione controversa intercorre solo tra il ricorrente e la istituzione pubblica, e la domanda di danni tende allo stesso risultato che si sarebbe potuto conseguire con l’azione di annullamento”.Lungi dall’essere un conclusivo punto di riferimento per le contrastate tesi della Cassazione e del Consiglio di Stato, la giurisprudenza dei giudici comunitari è invece rilevante per il modo pragmatico con cui sta risolvendo il contenzioso di propria competenza. In particolare, non essendo vincolata da norme puntuali in materia (come in Italia l’art. 7 della legge TAR, novellato dalle recenti riforme), la Corte di giustizia non è interessata in linea generale ad andare oltre al principio dell’inammissibilità dell’azione di responsabilità per conseguire gli stessi risultati che avrebbero potuti essere raggiunti con un’azione diversa. E’ invece molto attenta alle circostanze di fatto del caso controverso[21], lasciando spazi significativi all’azione risarcitoria per i profili che non sarebbero comunque soddisfatti dall’azione di annullamento, o che ad essa rimangono collaterali e tuttora verificabili; od ancora per i casi in cui si possa dimostrare l’impossibilità di un’impugnazione in via diretta.Certo è che alla Corte di giustizia non appaiono significativi, ovviamente solo ai presenti fini, altri argomenti di origine comunitaria cui si richiama con forza la Cassazione; quale il principio di effettività a fronte del termine decadenziale per l’azione di annullamento. Risulta infatti fermissimo sin dalla prima giurisprudenza comunitaria che la previsione del termine di decadenza di sessanta giorni per l’azione di annullamento avverso gli atti delle istituzioni non attenti per niente all’effettività della tutela[22], neanche ad una visione combinata delle azioni costitutive e delle azioni risarcitorie.Al di là delle risultanze giurisprudenziali, anche il diritto scritto - pur con tutta la cautela tipica della problematica processuale, ancora principalmente demandata agli Stati – indica la medesima preferenza per l’azione di annullamento nei casi in cui l’azione costitutiva ……… La più recente direttiva processuale – la n. 66/2008 …………. – prevede infatti che gli Stati membri possono stabilire, quando viene richiesto un risarcimento del danno a causa di una decisione presa illegittimamente, che sia previamente necessario l’azione di annullamento (art. 2, comma 6); ed ancor più chiaramente (art. 2, comma 7) che vi possano essere “casi in cui una decisione deve essere annullata prima della concessione di un risarcimento dei danni”.Il diritto comunitario ha dunque, sul punto, caratteri propri che non sono direttamente rapportabili alle problematiche interne: Se non per quanto attiene al rilievo delle circostanze della fattispecie, che portano a diffidare di soluzioni di principio e di applicazione generale; come invece pare ormai assumere la Cassazione con i citati giudizi in tema di giurisdizione.La conclusione della Corte conferma l’assunto iniziale che la liberalità mostrata dalla giurisprudenza per l’azione di responsabilità rappresenti un correttivo alla scarsa tutela assicurata ai singoli dalle altre procedure di garanzia, ed in particolare dall’azione di annullamento. Correttivo che è stato generosamente riconosciuto (anche a soggetti che non sarebbero legittimati all’azione di annullamento, ex art. 230, c. 4, TCE) perché non determina attentati alle prerogative delle istituzioni comunitarie ed al funzionamento stesso della Comunità. 

6.  Cenni sull’incidenza nella problematica nazionale 

Per concludere alcune riflessioni sulle principali influenze che il diritto comunitario della responsabilità ha determinato, e può determinare ancora per l’avvenire, nel diritto italiano. Ai presenti fini tre conseguenze paiono principalmente degne di nota.Anzitutto, è stata decisiva la spinta del diritto comunitario per la conclusione raggiunta dalla Cassazione con la sentenza n. 500/1999. Senza gli sviluppi del diritto comunitario che si sono sopra richiamati, saremmo ancora oggi a proporre vanamente un’evoluzione della tradizionale giurisprudenza nazionale sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi. Non è un caso, dunque, che la sentenza n. 500, nell’elencare le varie motivazioni che hanno indotto le Sezioni Unite al proprio revirement, abbia messo al primo posto proprio il diritto comunitario (cfr. para. 6.1. e segg. della motivazione).       In secondo luogo, il diritto comunitario della materia è certamente alla base di alcune recenti riforme della normativa sostanziale e processuale, quali l’integrazione alla legge sul procedimento amministrativo (n. 15/2005), nella parte riferita all’esplicita valenza nazionale dei principi generali di diritto comunitario; il codice dei contratti pubblici (nella parte in cui  ……..); e la legge n. 205/2000 nella parte in cui (art. 7) prevede che i soggetti che abbiano subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o forniture o delle relative norme interne di recepimento, possono chiedere all’amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. Al proposito molto è ancora da fare, visto che la recente seconda “direttiva ricorsi” (66/2007, citata, dell’11.12.2007) comporta ulteriori significative innovazioni.Infine, il diritto comunitario impone una revisione dell’impostazione generale dell’istituto della responsabilità extracontrattuale. Nella misura in cui, giorno dopo giorno, si amplia l’ambito di applicazione del diritto comunitario, si dovrà tener conto principalmente dall’impostazione oggettiva che è privilegiata dal diritto comunitario. In esso, ciò che rileva è, da un lato, che la norma che si pretende violata sia chiaramente rivolta ad assicurare diritti ai singoli; dall’altro, che la violazione di tale norma abbia oggettivamente determinati caratteri, senza riguardo alla condizione soggettiva dello specifico autore della violazione. Questa diversa costruzione della responsabilità – che talora si usa definire in termini di “colpa di apparato “ – di cui si avvertono i presupposti vale certamente solo per le questioni a rilevanza comunitaria, fermo il resto che non sia stato “comunitarizzato”. Ma è innegabile che, già in tal modo, si determina un vulnus alla concezione tradizionale che si pensava a valenza assolutamente generale. Inoltre, è noto che i nuovi principi di diritto comunitario hanno una potente capacità espansiva anche là dove non dovrebbero rilevare direttamente.Lo “scudo” per gli autori dei comportamenti contestati, posto dalla normativa nazionale che conferma il rilievo dell’elemento psicologico, può rimanere applicabile solo per quanto attiene la sfera “interna” (i.e. nazionale) della responsabilità; non certo per condizionare l’azione di responsabilità nei confronti dello “Stato”, come sopra inteso.

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[1]  Per tale disposizione e per il nuovo art. 46° del TUE, l’UE avrà un’unica personalità giuridica. Scomparirà nei due nuovi trattati ogni riferimento alla CE.
[2]  L’ordinamento giuridico comunitario, 3° ed., Bruxelles-Luxembourg, 1989, 43 segg.
[3]  Ho sviluppato questi temi in alcuni saggi, tra cui: Dalla “Comunità di diritto” alla Unione dei diritti, in  S. Micossi-G.L. Tosato (a cura di), Il  Mulino, Bologna,  2008, 259 segg.; La Carta europea dei diritti fondamentali: una carta di carattere funzionale?, in Riv. Trim Dir. Pubbl., 2002, 1 segg ..
[4]  Come è stato giustamente notato da A. Arnull (The European Union and its Court of Justice, OUP, Oxford, 2006,  275), che riprende un passo delle conclusioni dell’Avvocato generale Leger nel caso Lomas,  la responsabilità degli Stati membri non sorge solo nei confai dei singoli, persone fisiche o giuridiche, ma anche potenzialmente nei confronti degli altri Stati e della Comunità stessa. Questi aspetti non hanno per il momento avuto sviluppo; ma lo meritano senz’altro.
[5]  Causa 26/62.
[6]  Il punto è di particolare rilievo per la questione della pregiudizialità amministrativa, che sarà esaminata più avanti.
[7]  Dalle Società FIAMM e Fedon nella cause T-69/00 e T-135/01; e, in secondo grado, nelle cause 120 e 121/06.
[8]  L’impugnata sentenza del Tribunale era  del 14.12.2005, cause T-69/00 e T-135/01.
[9]  Cfr. le caustiche osservazioni di J.A.G. Griffith, Giudici e politica in Europa, ed it. A cura di M.P. Chiti, Feltrinelli, Milano, 1980, 29 segg.
[10]  Il caso più rilevante è sinora Courage, C-453/99.
[11] Caso Grands Moulins de Paris, cause riunite 9 e 11/71 ; Biovilac, causa 59/83 ; Clemessy, causa 267/82.
[12]  Causa T-184/95.
[13] Una sintesi  della problematica in H.J. Bronkhorst, The valid legislative act as a cause for liability of the Communities, in T. Heukels-A.McDonnell, The action for damages in Community Law, Kluwer, The Hague, 1997, 153; C. Stefanou-H. Xanthaki, A legal and political Interpretation of art. 215, new art. 288, of the Treaty of Rome, cit. , 85 segg.
[14]  Cfr. punti 20 e 22 della sentenza.
[15] J. Schockweiler, La responsabilité de l’autorité nationale en cas de violation du droit communautaire, in Rev. trim. dr. eur., 1992, 27, 46 .
[16]  Koebler,  C-224/01.
[17] La sentenza Lomas, oltre a non essere inaspettata per i motivi detti, era stata anticipata da considerazioni espresse in  risalenti sentenze – come la Humblet , causa 6/60 – peraltro lasciate senza sviluppi organici.
[18] Per una completa analisi dei profili di diritto comunitario e di diritto comparato, cfr. F. Cortese, La questione della pregiudizialità amministrativa, Padova, Cedam, 2007; spec.  66 e segg..
[19] Con le ordinanze delle Sezioni unite nn. 13659 e 13660 di quell’anno; poi ribadita dall’ordinanza n. 23471 del 2007.
[20] Basti considerare la decisione n. 12/2007 dell’Adunanza plenaria, seguita dalla giurisprudenza assolutamente prevalente dei giudici amministrativi. Ma già in precedenza, Ad. plen. n. 4/2003 e n. 9/2007.
[21] Spunti in questo senso anche in G. Falcon, La tutela giurisdizionale ….. (373)………..
[22] Cfr. A. Arnull, The European Union and its Court of Justice, cit., 53 segg.
[23]  Non è certamente sottoposto al vaglio delle particolari circostanze concreto del caso il punto di diritto affermato  dalle Sezioni unite nei recenti casi, come con la s sentenza n. 30254/2008: “ Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa,  è viziata da  violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”.

Esiste una competenza legislativa delle regioni per la disciplina delle opere di urbanizzazione?

MARIO P. CHITI

1. Nell’attuale decennio la disciplina giuridica della realizzazione delle opere di urbanizzazione (per il momento intese unitariamente, ovvero sia di primaria che di secondaria) ha subito una continua serie di modifiche, che fortunatamente sembrano giunte a conclusione con il terzo decreto correttivo ed integrativo (d.lgs. 11.9.2008, n. 152) del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006).

Le principali tappe di questa evoluzione sono state: 1) la sentenza della Corte di giustizia del 12.7.2001, causa C-399/98, con cui la realizzazione da parte del titolare della concessione edilizia delle opere di urbanizzazione “a scomputo” degli oneri di costruzione è stata assoggettata alle procedure ad evidenza pubblica di cui alla direttiva appalti pubblici di lavori (al tempo la direttiva 93/37); 2) la conseguente modifica alla legge n. 109/1994 ad opera della legge n. 166/2002 (art. 7, c. 1); 3) le previsioni dedicate al tema dal Codice dei contratti pubblici, nell’iniziale versione (il citato d. lgs. n. 163/2006) contrassegnate, nei casi di valore sopra soglia, da una procedura in cui il titolare del permesso di costruire può assumere la veste di promotore ed esercitare il diritto di prelazione, all’esito della gara. Sulla falsariga di quanto previsto per la procedura di finanza di progetto (art. 32, c. 1, lett. g); 4) la sentenza della Corte di giustizia 21.2.2008, causa C-412/04, che ha condannato l’Italia (in riferimento alla legge Merloni, anche per la parte sulle opere di urbanizzazione modificata con la citata legge n. 166/2002) per essere venuta meno agli obblighi scaturenti, nel caso in esame, dalla direttiva 93/37. Il punto contestato – malgrado che nel frattempo la legge Merloni fosse stata integralmente sostituita dal Codice dei contratti pubblici – era quello del criterio di calcolo degli interventi, ai fini del rispetto della soglia comunitaria; 5) l’avvio di un’ulteriore procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia (da sottolineare il particolare accanimento della Commissione, con comportamento ben diverso da quello seguito verso altri Stati membri) perché il Codice del 2006 non è stato ritenuto ancora in linea con le previsioni indicate dalla Corte di giustizia e (implicitamente) dalla direttiva 2004/18; specie per il ruolo del promotore ed il diritto di prelazione; 6) infine, il già citato terzo decreto correttivo del 2008, con cui si è cercato  -  a mio avviso, alquanto maldestramente – di prevenire una nuova condanna della Corte di giustizia a seguito della sopra citata seconda procedura di infrazione.

Alla già aggrovigliata situazione così determinatasi si è aggiunto dal 2001 il nuovo quadro costituzionale, profondamente modificato in senso regionalista dalla riforma dell’intero Titolo V° della Costituzione (legge cost. n. 3/2001). Della riforma interessa qua in particolare il nuovo quadro delle competenze legislative statali e regionali (art. 117 Cost., novellato), visto che il tema esaminato è quello delle eventuali competenze legislative delle regioni per la disciplina delle opere di urbanizzazione.

2. La materia è dunque fortemente incisa dal diritto europeo e, nel nostro ordinamento, una variante del problema generale delle competenze legislative delle regioni in tema di contratti pubblici.

Già nella vigenza del precedente Titolo V° della Costituzione si era posto il problema del ruolo delle regioni, prendendo spunto dai “lavori pubblici di interesse regionale”, una delle materie affidate alle regioni dall’allora art. 117 Cost. Con una valutazione assai limitativa del ruolo delle regioni, stante la specificità di quel tema e, soprattutto, per una lettura fortemente statalistica delle competenze afferenti al diritto civile, quali i contratti.

La riforma del 2001 ha introdotto rilevanti novità, sia per il mutato quadro generale delle competenze ed il ribaltamento della centralità legislativa statale a favore di quella delle regioni; sia per i molti riferimenti al tema dei contratti che nel nuovo art. 117 Cost. si ritrovano direttamente e indirettamente. La normativa statale riconosce in generale tale ruolo, come risulta dallo stesso Codice dei contratti pubblici in cui (art. 4, c. 4) esiste una norma di “cedevolezza” delle norme codicistiche statali rispetto a quelle regionali, nelle materie di competenza normativa regionale, concorrente o esclusiva.

Malgrado il diverso quadro costituzionale, l’evento più significativo è risultato il citato Codice dei contratti pubblici che, come già il nome lascia intendere, sistema unitariamente l’intera materia prima oggetto di svariate norme; introducendo poi molte novità.

A sua volta, il Codice è stato l’esito degli sviluppi del diritto comunitario su gli appalti pubblici, ed in particolare delle direttive nn. 17 e 18 del 2004. Come noto, il diritto comunitario aveva iniziato a trattare gli appalti pubblici solo dagli anni settanta dello scorso secolo; dapprima in modo “leggero”, successivamente con direttive sempre più dettagliate ed esaustive della materia, a causa della ritrosia degli Stati membri ad accettare l’armonizzazione della disciplina degli appalti, necessaria al mercato interno. Le direttive in materia erano diventate così molteplici e poco coordinate da rendere necessaria una loro sistemazione in due sole direttive organiche, la più importante destinata ai settori ordinari (la n. 18/2004); la seconda (n. 17/2004) ai residui settori speciali, noti anche nella risalente espressione di “settori esclusi”. L’intervento comunitario non si è limitato alla disciplina sostanziale, estendendosi anche alla disciplina processuale e della tutela con la seconda direttiva “ricorsi” 07/67 (il cui termine di attuazione da parte degli Stati membri è previsto per il 31 dicembre del 2009).

Per tali motivi, se da un lato con la riforma costituzionale del 2001 sembravano aprirsi nuove opportunità per le regioni, dall’altro la disciplina statale si è rafforzata sia in termini di estensione e spessore, sia soprattutto per la diretta base comunitaria della nuova legislazione. Va inoltre aggiunto che da tempo (le ragioni dei lenti svolgimenti della procedura sono oscure) si attendono i vari regolamenti e capitolati attuativi del Codice, ed in particolare il regolamento generale previsto dall’art. 5. Quando l’intero sistema normativo previsto dal Codice sarà attuato e vigente, il diritto statale coprirà pressoché integralmente la materia.

Ancora, merita ulteriormente sottolineare che la base comunitaria del Codice e dei suoi tre decreti integrativi è particolarmente evidente tanto nell’iniziale base giuridica, quanto nelle modifiche successivamente intervenute; che traggono prevalentemente origine da sentenze della Corte di giustizia o da procedure di infrazione della Commissione. Il caso delle opere di urbanizzazione, qua esaminato, è tra i più eclatanti di questa influenza europea. La Corte di giustizia ha infatti ritenuto che la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione – da sempre ritenuta questione di diritto nazionale connessa all’urbanistica – non sfugge alla disciplina comunitaria degli appalti pubblici.   

3. La complessità del tema “contratti pubblici” ha indotto ad una lettura delle competenze statali e regionali non in termini di materia, ma come problematica trasversale in cui sussistono certamente – con gradi diversi – aspetti di esclusiva spettanza statale, quali la concorrenza e l’ordinamento civile.

Comunque anche questa problematica non poteva non essere portata all’esame della Corte costituzionale, su cui è ricaduta la responsabilità di fare chiarezza sulle ambiguità del novellato Titolo V° della Costituzione; ed in particolare sul confuso sistema della competenze legislative.

Le principali sentenze della Corte costituzionale in materia sono la n. 401/2007; la n. 431/2007 e la più recente n. 411/2008. La prima sentenza ha “salvato” il Codice dei contratti pubblici dalle critiche più demolitorie delle regioni, ma lasciava aperta a successivi giudizi la sorte di particolari questioni; anche di rilevante spessore. La seconda già scendeva a trattare tematiche più particolari; nuovamente confermando il ruolo dello Stato. La n. 411/2008, assunta su un caso relativo a Regione speciale (la Sardegna), risulta conclusiva sul problema delle competenze; in senso statale.

Le risultanze principali di questo indirizzo giurisprudenziale – da considerare ormai irreversibile – sono le seguenti: a) la tematica dei contratti pubblici costituisce un “blocco di materia”, con prevalenza della legge statale; b) rilevano specialmente due materie di competenza statale esclusiva quali la tutela della concorrenza, connessa alle regole sull’evidenza pubblica, e l’ordinamento civile, connessa alla disciplina del contratto e della sua esecuzione; c) la disciplina, anche qua necessariamente statale, della tutela giurisdizionale e non.

Per la più recente sentenza (n. 411/2008) della Corte costituzionale, “la disciplina degli appalti pubblici, intesa in senso complessivo, include diversi ambiti di legislazione, che si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono: in essa pertanto si profila una interferenza tra materia di competenza statale e materie di competenza regionale, che, tuttavia, si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi normalmente un intreccio in senso stretto; ma con la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa in relazione agli oggetti riconducibili alla competenza esclusiva statale” (che sono individuati, come detto, nella tutela della concorrenza e nell’ordinamento civile).

4. Dopo la premessa sul quadro generale delle competenze legislative sui contratti pubblici, si può passare all’esame specifico del caso della disciplina della realizzazione delle opere di urbanizzazione.

Al proposito, il dato più eclatante è dal 2001 (con la già citata sentenza Corte di giustizia nella causa C-399/98) la “comunitarizzazione” dei principi applicabili, con spazi sempre più ridotti per il legislatore nazionale.

Il caso esaminato dal giudice comunitario riguardava proprio la normativa italiana, a seguito del rinvio pregiudiziale del TAR Lombardia nel ricorso presentato dall’Ordine degli Architetti di Milano sul progetto del nuovo Teatro degli Arcimboldi alla Bicocca di Milano. La Corte aveva concluso che, ad onta di tutte le particolarità del caso, la realizzazione diretta di un’opera di urbanizzazione, secondo l’allora normativa urbanistica italiana, costituisce appalto pubblico di lavori ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 93/37.

La sentenza comunitaria – che pur occasionata dalla nostra disciplina poneva un principio vincolante tutti gli Stati membri, come accade nel vaso di procedura di rinvio pregiudiziale (art. 234 TCE) – è stata per lo più criticata, anche in modo pesante. Così uno dei maggiori studiosi europei di diritto urbanistico (Tomas Ramon Fernandez) ha qualificato la sentenza come “una cattiva decisione” per erroneità delle varie motivazioni assunte dal giudice comunitario, a partire dalla qualificazione come contratto pubblico di opere – ai sensi delle direttive comunitarie – della realizzazione diretta di opere di urbanizzazione.

Malgrado le critiche, la Corte non ha arretrato di una spanna; come indicato dalla sentenza 21.2.2008, causa C-412/04, in cui – dopo avere confermato il precedente giudizio – si è diffusa nello stabilire le condizioni per un corretto frazionamento in lotti del complessivo intervento, al fine di non vanificare le “soglie” di rilevanza comunitaria.

Certamente la posizione della Corte di giustizia è stata determinata non dai soli argomenti giuridici (come detto, assai discutibili), ma dal timore che attraverso il varco delle opere di urbanizzazione gli Stati membri possano sottrarre alle regole comunitarie – e quindi al mercato unico – intere categorie di opere pubbliche.

5. Prendendo necessariamente atto della sentenza comunitaria del 2001, il legislatore italiano era intervenuto con la legge 1.8.2002, n. 166, recante “Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti”, il cui art. 7, comma 1, sostituiva l’art. 2, comma 5, della legge n. 109/1994 (Legge Merloni, al tempo vigente). Secondo la novella, nel caso di interventi eseguiti direttamente dai privati a scomputo di contributi connessi all’attività edilizia o alla lottizzazione di aree, in caso di importi superiori alla soglia comunitaria, anche i privati sono tenuti ad affidare le opere nel rispetto delle procedure di gara previste dalla direttiva su gli appalti pubblici di lavori (al tempo la direttiva 93/37).

6. La Corte costituzionale è successivamente intervenuta in due occasioni, su giudizi di costituzionalità di leggi regionali promossi dal Governo per contestare le previsioni relative al tema delle opere di urbanizzazione.

Il primo ricorso ha avuto per oggetto la l.r. Lombardia n. 12/2005, nella parte relativa alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, che il Governo riteneva in contrasto con i principi posti dalla Corte di giustizia nella citata sentenza 12.7.2001. Precisamente, il caso esaminato riguardava gli accordi che i privati, proprietari di aree destinate ad essere espropriate per la realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, possono stipulare con il comune competente; in base ai quali il proprietario può realizzare direttamente tali interventi.

Secondo la Corte costituzionale (sentenza 28.3.2006, n. 129), anche al proprietario espropriando che si accorda a tal fine si applica la qualifica di titolare di un mandato espresso conferito dal comune; soggetto alla conclusione raggiunta dalla Corte di giustizia. Nella motivazione, la Corte è stata puntuale a delimitare l’incostituzionalità alla mancata previsione nella legge regionale dell’obbligo, nei casi indicati, di seguire le procedure ad evidenza pubblica; senza che ciò possa inficiare la legittimità degli accordi tra privati e pubblica amministrazione. Anche nel secondo giudizio – sfociato nella sentenza 13.7.2007, n. 269, avente ad oggetto la l. prov. Trento 5.9.1991, n. 22, modificata dalla l. prov. n. 11/2006 – la Corte costituzionale ha riaffermato il principio con identica motivazione. In ambedue i casi, il diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia, è risultato prevalente sul diritto nazionale in quanto, secondo la Corte costituzionale, “le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’ordinamento comunitario, in base all’art. 117, comma 1, e 11 Cost., quest’ultimo inteso quale principio fondamentale”.

La novità è stata oggetto di molte e condivisibili critiche, principalmente perché il titolare del permesso di costruire non avrà la possibilità di gestire unitariamente il proprio cantiere; ed anche perché si riversa sul privato un onere procedurale complesso, già oneroso per le amministrazioni aggiudicatici.

8. Ritornando specificamente alla nostra problematica, alla luce dei principi di diritto comunitario e della puntuale applicazione fattane dalla Corte costituzionale proprio in riferimento a difformi previsioni contenute in leggi regionali, è palese che gli spazi delle regioni per interventi legislativi nella materia delle opere di urbanizzazione sono davvero esigui.

La questione principale ai presenti fini (osservanza delle procedure ad evidenza pubblica relative alla qualificazione e selezione dei concorrenti, alle procedure di affidamento ed ai criteri di aggiudicazione) è ormai definita irreversibilmente dal diritto comunitario. Per il versante nazionale, il Codice dei contratti pubblici – tanto nella versione iniziale del 2006, quanto come modificato dal terzo decreto correttivo (d. lgs. n. 152/2008) – sviluppa i principi comunitari con previsioni procedurali che sono intangibili dalle regioni, in quanto connesse alla tutela della concorrenza. A risultati non diversi, pur se su base diversa, si perviene anche nel caso in cui avesse seguito la giurisprudenza secondo cui l’obbligo della procedura ad evidenza pubblica non vale in caso di opere di urbanizzazione destinate al pubblico, ma che rimangono private e su un’area anch’essa privata (TAR Puglia, I, 30.1.2009, n. 157). Il TAR Puglia ha segnato una non banale linea distintiva tra opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri di urbanizzazione ed interventi edilizi destinati a servizi collettivi da realizzarsi direttamente dal privato proprietario dell’area, che rimane poi proprietario delle nuove opere. Nel secondo caso non saremmo di fronte alla realizzazione di opere pubbliche, né di opere di urbanizzazione (variante delle opere pubbliche), ma “di esercizio dello jus aedificandi da parte del proprietario, nel rispetto della destinazione ad uso collettivo dell’intervento edilizio”. È difficile prevedere se la conclusione della sentenza del TAR Puglia sarà seguita da altri Tribunali amministrativi; ma anche se così fosse, rimarrebbe ferma la competenza statale in quanto connessa all’ordinamento civile, di cui lo jus aedificandi è snodo rilevante. Risulta dunque poco comprensibile l’insistenza di varie regioni a voler recuperare spazi di disciplina legislativa della materia, visto che eventuali previsioni difformi dai rigidi paletti sopra descritti sarebbero disapplicabili direttamente da qualsiasi soggetto responsabile delle relative procedure, o destinate ad essere dichiarate incostituzionali; in ambedue i casi per vizio di anticomunitarietà.

9. Ciò che particolarmente si attende dalle regioni è un indirizzo ai comuni per l’interpretazione e l’attuazione conforme della nuova normativa, onde evitare un’assurda pluralità di criteri anche in territori contigui.

Alcuni tra i Comuni maggiori si sono già mossi per proprio conto, assumendo delibere generali per l’attuazione del d.lgs. n. 152/2008; ma è auspicabile che siano le regioni a provvedere in tal senso, omogeneamente per l’intero territorio regionale. Meglio ancora se ciò avvenisse per l’intero territorio nazionale attraverso forme di autocoordinamento tra le Regioni, o per il tramite della Conferenza. Sinora, per quanto è dato sapere, si è mossa in questo senso solo la Regione Veneto (delibera G.R. n. 436 del 24.2.2009) con indicazioni assai condivisibili anche nel merito. Malgrado che tali atti di indirizzo non siano vincolanti per i comuni, contribuiscono sicuramente ad un’applicazione uniforme e razionale della difficile normativa.

10. Per concludere, merita ribadire che dei problemi connessi alla nuova disciplina delle opere di urbanizzazione avremmo fatto volentieri a meno, dato che il tradizionale sistema della realizzazione di tali opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione rispondeva all’esigenza di procedure semplici ed efficaci; ed assicurava un equo contemperamento tra gli interessi privati della proprietà e gli interessi pubblici, nel caso principalmente facenti capo al comune. Ma la Corte di giustizia - presa da discutibile zelo di comunitarizzare anche questioni di carattere nazionale - ha, come detto, deciso diversamente nel 2001; ed è successivamente rimasta ferma sulle proprie posizioni, malgrado le critiche espresse dai maggiori studiosi europei.

Considerando la questione ormai irreversibilmente segnata, si tratta di gestire al meglio l’attuazione della recente normativa risultante dal d. lgs. n. 152/2008 (modificativo ed integrativo del Codice dei contratti pubblici); che non è certo perspicua per chiarezza e sistematicità. In questo senso, vanno sollecitate le regioni a non attardarsi in tentativi per proprie leggi in materia – impossibili giuridicamente, come sopra spiegato, per carenza di competenza – ed invece a definire urgentemente criteri guida per l’interpretazione uniforme della normativa statale. Con l’ausilio dei comuni e della loro Associazione.

Meglio ancora se ciò avvenisse non autonomamente da parte delle singole regioni, ma attraverso il coordinamento regionale; così da evitare il paradosso che una normativa sostanzialmente imposta dall’Unione europea per assicurare il mercato interno uniforme finisca per avere applicazione differenziata tra le singole regioni di uno stesso Stato membro.

Dalla ‹‹Comunità di diritto›› alla Unione dei diritti

MARIO P. CHITI

Indice sommario: 1. La Comunità di diritto; 2. L’iniziale impostazione del Trattato Cee del 1957; 3. L’evoluzione a seguito del TUE del 1992; 4. Il ruolo del Consiglio d’Europa e della Cedu; 5. Il Trattato del 2007 e il recente Trattato di Lisbona; 6. La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali; 7. Questioni aperte; 8. La tutela dei diritti quale fondamento primario dell’Unione europea.

Da "L'Unione europea nel XXI secolo. "Nel dubbio per l'Europa", volume a cura di Stefano Micossi e Gian Luigi Tosato.

1. La Comunità di diritto
 
Al di fuori del mondo istituzionale e giuridico pochi conoscono una delle più risalenti, ma anche preveggenti definizioni dell’allora Comunità economica europea come ‹‹Comunità di diritto››. L’autore (Walter Hallstein, che ne fece uso nel 1965 in un dibattito al Parlamento europeo) intendeva in tal modo riprendere il succo della nozione del RechtsStaatPrinzip, applicandola al nuovo pubblico potere europeo da poco instaurato; ma anche sottolineare il ruolo fondamentale, senza precedenti, del diritto quale architrave della Cee, caratterizzata così in modo del tutto originale rispetto agli stati ed alle organizzazioni internazionali precedenti. La Comunità non era, e tuttora non è, dotata di un proprio potere coercitivo; come sintetizzò Jean-Victor Louis in uno studio fondante dell’ordinamento giuridico europeo: ‹‹il diritto che essa crea è la sola sua forza››.[1]
L’idea della ‹‹Comunità di diritto›› sottostà alla giurisprudenza costituzionale della Corte di giustizia negli anni Sessanta. Viene poi assunta in modo esplicito nella sentenza Parti ecologiste Le Verts (23.4.1986, causa 294/83). Diviene costante connotazione del plesso Ce/Unione europea in tutta la successiva giurisprudenza.
Quaranta anni dopo, Biagio de Giovanni per spiegare ‹‹l’ambigua potenza dell’Europa››[2] si riferisce al ‹‹diritto, alla legge, e poi ai diritti, con il connesso principio dell’umanità dell’uomo››. Similmente, Tommaso Padoa-Schioppa – non ancora appesantito dagli oneri di governo – ha intitolato una raccolta di saggi del 2001 ‹‹Europa forza gentile››[3], con un omaggio allo scozzese David Hume che della gentle force era stato il propugnatore teorico e, allo stesso tempo, per definire le caratteristiche dell’Unione europea quale pubblico potere il cui fondamento sta esclusivamente nell’adesione volontaria, nella condivisione della nuova ‹‹sovranità sovranazionale›› e nell’avere messo da parte la forza coercitiva.
In effetti, i cinquanta anni intercorsi dal primo Trattato di Roma – preceduto dal rodaggio essenziale, ancorché tuttora poco conosciuto, dell’integrazione europea tramite la Ceca, genuina organizzazione sovranazionale, ad onta della sua impronta di organizzazione di missione – mostrano un percorso che sarebbe stato certo apprezzato da Hume e dai suoi coetanei illuministi, con l’affermazione nell’Europa unita di uno spazio giuridico unico, incentrato su la libertà, la sicurezza e la giustizia (per il TUE, art. 2, c. 1, obbiettivo fondamentale dell’Ue). Esito che in pochi anni ha attirato in modo apparentemente irreversibile stati per lungo tempo retti da dittature, o scossi da crisi democratiche, o rimasti per vari decenni al di là del ‹‹muro dell’Europa››.
Va da sé che il processo di integrazione europea non è stato lineare e costante. Al contrario, segnato da momenti di stasi e di vera e propria crisi (specie dopo il Trattato costituzionale del 2004), e costantemente al di fuori di una precisa cornice istituzionale e di principi.
Malgrado questi limiti – o, meglio, caratteristiche; dato che non si vede a quale parametro di riferimento rapportare la vicenda dell’Unione europea, se è vero che si tratta di un’esperienza senza precedenti – è sicuro che l’intuizione di Hallstein è stata confermata e la ‹‹Comunità di diritto›› ha svolto e continua ad esercitare il ruolo di ‹‹forza gentile››.
Come può essersi verificato un simile sviluppo senza una Dichiarazione dei diritti, un Bill of Rights o, comunque, senza la previsione nel diritto primario della Comunità e dell’Unione di un catalogo di diritti? Qual è oggi la situazione e che cosa si prevede dopo la firma del Trattato di Lisbona?
È a questi interrogativi che intendo dare risposta, pur in una forma sintetica come richiesto dalla natura del volume.
La tesi proposta – sviluppata nei successivi paragrafi - è che dai caratteri della Ce (e, successivamente, della Ue) e dalle particolari tradizioni costituzionali degli stati europei discendono conseguenze dirette per il tema dei diritti fondamentali delle persone. Per quanto riguarda la natura della Ce, la sua qualificazione come Comunità di diritto non implica solamente che le Istituzioni comunitarie e gli stati membri siano soggetti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato; ma anche che da quest’ultimo i singoli possono trarre direttamente i loro diritti (ed ovviamente anche gli obblighi), a certe condizioni. I singoli rilevano direttamente come soggetti del nuovo ordinamento giuridico, che in tal modo si distingue da ogni altro ordinamento internazionale. La Ce opera poi in un contesto di stati europei fortemente ‹‹costituzionalizzati››, specie a seguito delle drammatiche vicende della seconda guerra mondiale; ove i diritti fondamentali sono avvertiti come un patrimonio costituzionale inalienabile, ben presto (1950) portato a patrimonio comune per il tramite della Convenzione europea dei diritti dell’uomo promossa dal Consiglio d’Europa.
È dunque inerente al sistema Ce/Ue che i singoli possano vantare diritti in modo diretto ed immediato, ad iniziare ovviamente dai diritti fondamentali, sia verso i rispettivi stati (i cui giudici sono tenuti ad applicare direttamente le relative norme comunitarie) che le Istituzioni europee. Come la Corte di giustizia sintetizza nella più recente sentenza in argomento (26.6.2007, causa C-305/05, Ordini Avvocati Belgio/Consiglio), ‹‹i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma››.
 
2. L’iniziale impostazione del Trattato Cee del 1957
 
Il Trattato Cee del 1957 evitava accuratamente ogni riferimento ai diritti ed alle libertà fondamentali, conformemente al criterio funzionalistico di realizzare il massimo possibile di risultati concreti senza una forte premessa istituzionale e politica, per cui i tempi non erano considerati ancora maturi.
Ma il medesimo Trattato prevedeva le libertà economiche essenziali all’instaurazione del mercato unico (stabilimento, circolazione, ecc.), presto intese dalla Corte di giustizia come vere e proprie libertà costituzionali.
Oltre alle libertà funzionali al mercato comune, la Corte di giustizia ha inteso segnare l’assoluta originalità della Cee (tanto più tale con la successiva evoluzione a Ce e con l’istituzione della Ue) sin dalla giurisprudenza dei primi anni Sessanta dello scorso secolo. In particolare con l’affermazione (sentenza Van Gend & Loos, 5.2.1963, causa 26/62) che i soggetti dell’ordinamento comunitario non sono soltanto gli stati, ma anche i loro cittadini; e che il sistema comunitario va al di là di un singolo accordo che si limita a creare degli obblighi reciproci fra gli stati membri contraenti, dato che incide direttamente sui soggetti della Comunità.
Il singolo di cui parla il giudice comunitario non può non avere diritti nei rispetti della Comunità, oltre che degli stati membri; considerando anche che dal sempre più vasto diritto comunitario derivano situazioni giuridiche per i singoli e che questi possono invocare il principio dell’effetto diretto (altra creazione originale della Corte di giustizia) per un’effettiva tutela di queste situazioni giuridiche da parte dei giudici nazionali.
Le libertà economiche intese come diritti fondamentali e i sempre più frequenti diritti (intesi nel senso ampio, proprio del diritto europeo, di situazioni giuridiche soggettive di vantaggio) scaturenti dal diritto comunitario non potevano non portare alla rifondazione nel nuovo ordinamento della questione dei diritti fondamentali; come già avvenuto negli ordinamenti statali con le costituzioni degli ultimi due secoli.
Nella medesima direzione conduceva poi il metodo seguito dalla Corte di giustizia (è giusto richiamare più volte il ruolo fondamentale di questa istituzione per l’edificazione delle basi giuridiche dell’integrazione europea, senza pari nelle esperienze ordinamentali sinora note) per l’individuazione dei ‹‹principi generali del diritto comunitario››, incentrato nella prima fase nell’individuazione delle tradizioni giuridiche comuni agli stati membri. Era chiaro che individuando tali principi generali – atti fonte con forza giuridica cogente – nel principio di legalità, nella certezza del diritto, nell’eguaglianza e simili, ci si appropinquasse direttamente alla tematica dei diritti fondamentali. Questi sono, in effetti, parte essenziale delle tradizionali costituzionali comuni degli stati membri ed inoltre sono affermati dalla Convenzione europea dei diritti fondamentali, promossa dal Consiglio d’Europa ed alla quale hanno aderito tutti gli stati membri della Ue.
Non era dunque inaspettato che la Corte di giustizia affermasse già nel 1969, nel caso Stauder (sentenza 12.11.1969, causa 26/69), che ‹‹i diritti fondamentali della persona fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza››. A partire dalla successiva sentenza Internationale Handelsgesellschaft (17.12.1970, causa 11/70) la statuizione diviene costante nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
Come è stato rilevato da Federico Mancini, ‹‹leggere nel diritto comunitario un non scritto Bill of Rights rappresenta invero il più incisivo contributo della Corte allo sviluppo di una Costituzione per l’Europa››.[4]
La Corte non era comunque interessata solo allo sviluppo dei diritti dei singoli, dato che un risvolto essenziale della sua innovativa giurisprudenza riguardava anche la ‹‹comunitarizzazione›› di una rilevante parte delle discipline costituzionali nazionali, con l’accentuazione del ‹‹primato›› del diritto europeo e del processo di integrazione tra ordinamenti nazionali e ordinamento europeo. Il punto è già evidente nella citata sentenza Internationale Handelsgesellschaft, ove si afferma che la tutela dei diritti fondamentali ‹‹pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, va garantita entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità››; altrimenti, il richiamo a norme o nozioni di diritto nazionale ‹‹minerebbe l’unità e l’efficacia del diritto comunitario››.
 
3. L’evoluzione a seguito del TUE del 1992
 
Con l’istituzione dell’Unione europea nel 1992 i diritti fondamentali trovano – si può dire, inevitabilmente – riconoscimento nel Trattato di Maastricht. Dopo la conferma, al terzo alinea del Preambolo, dell’‹‹attaccamento ai principi (…) del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto››, all’art. F (poi divenuto 6 TUE), si afferma (c. 1) che l’Ue si fonda sui principi ora ricordati.
Ma con il passaggio da un approccio essenzialmente giurisprudenziale al tema dei diritti fondamentali alla loro costituzionalizzazione nel Trattato Ue, emergono i problemi della triplice loro dimensione (nazionale, dell’Ue e della Cedu) e della difficoltà alla loro piena giustiziabilità. Si tenga conto, in effetti, che l’Ue non ha sino ad oggi aderito alla Cedu, anche per il contributo della Corte di giustizia (basti ricordare il parere 2/94, secondo cui non vi era competenza per aderire alla Cedu, espressione di un diverso sistema giuridico internazionale); che i diritti fondamentali sono riconosciuti quali parte dei ‹‹principi generali di diritto comunitario››, che hanno una precisa posizione nel sistema delle fonti di diritto; che le corti costituzionali degli stati membri sono recalcitranti a dismettere le proprie competenze a tutela dei diritti fondamentali (emblematiche le recenti sentenze nn. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale, in seguito meglio analizzate).
La soluzione a questi problemi apparve la convocazione della Convenzione, organo speciale costituito ad hoc, inedito nel diritto europeo, che già dal nome richiamava gloriose esperienze costituzionali. Pur se non ancora caratterizzata dal netto distacco dal ‹‹metodo intergovernativo›› che ha avuto, poco tempo dopo, la Convenzione da cui è scaturito nel 2003 il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, la prima Convenzione ha lavorato in larga autonomia dagli stati membri ed ha prodotto un testo di notevole rilievo.
La Carta dei diritti fondamentali per l’Europa – pur discussa e su certe parti poco convincente, come le ‹‹disposizioni generali›› finali – manifesta l’evoluzione di molti diritti di ‹‹prima generazione›› (così, al tradizionale diritto al lavoro si affianca il diritto di lavorare e la libertà professionale, art. 15), formalizza i diritti emersi negli ultimi decenni (es. protezione dei dati di carattere personale, art. 8; diritti del bambino, art. 24; diritti degli anziani, art. 25), afferma diritti originali, come i diritti verso la pubblica amministrazione (art. 41, diritto ad una buona amministrazione), che danno sostanza alla cittadinanza europea.
L’atipicità del procedimento di elaborazione della Carta ha avuto un seguito anche con l’atipicità della sua adozione, avvenuta fuori degli schemi previsti dai Trattati con un’inedita ‹‹proclamazione›› da parte del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio nel dicembre 2000. Dopo l’epilogo negativo del Trattato costituzionale del 2004, la Carta è stata oggetto di qualche ritocco formale ed approvata dal Parlamento europeo, a larghissima maggioranza, nel novembre 2007. Indi, con altro atto atipico, nuovamente ‹‹proclamata›› nell’Aula plenaria del Parlamento europeo dai Presidenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione.
Era da aspettarsi che l’originalità della Carta – suggello costituzionale alla nuova Unione europea – determinasse resistenze e reazioni. In effetti, alla Carta non è stato riconosciuto un preciso valore giuridico e il suo inserimento nel Trattato costituzionale del 2004, quale Parte II, ha contribuito alla crisi successiva.
Malgrado queste difficoltà, è stata facile profezia affermare che la Carta di Nizza rappresenta un risultato irreversibile, componente l’acquis comunitario. In effetti, pur non avendo la Carta carattere vincolante ad essa si sono rifatti più volte gli Avvocati generali per arricchire le loro conclusioni; i giudici della Corte ne hanno parlato come ‹‹fonte di ispirazione››; i tribunali nazionali si sono talora riferiti ad essa per corroborare le proprie sentenze; la Corte costituzionale ne ha riconosciuto il rilievo interpretativo (sentenza n. 349/2007).[5]
 
4. Il ruolo del Consiglio d’Europa e della Cedu
 
Parallelamente alle vicende dell’Unione europea, si è molto rafforzato il ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo, preposta a garantire i diritti contemplati dalla Cedu.
Specialmente a seguito delle riforme del 1994-99, la Corte di Strasburgo è divenuta più accessibile per i singoli e si è ampliato l’ambito delle questioni da essa esaminabili. Gli esiti sono particolarmente incisivi nei confronti di stati che, pur aderendo alla Convenzione, ne rimangono per vari aspetti lontani. Emblematico proprio il caso italiano, che negli ultimi anni è stato ‹‹obbligato›› alla riforma dell’art. 111 Costituzione sul giusto processo, alle conseguenti innovazioni legislative (come la legge n. 12/2006) e ad una vera svolta in tema di diritto di proprietà e potere espropriativo (quest’ultima vicenda si è per ora conclusa con la nota sentenza Scordino, 29.3.2006, della Corte di Strasburgo e con le sentenze nn. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale).
La Cedu si pone come un cuneo tra la Carta di Nizza e le Costituzioni nazionali. Per quanto riguarda il diritto dell’Ue, non si tratta tanto di impostazioni diverse dei due testi fondamentali (che pure in parte esistono), quanto del ruolo della Corte di Strasburgo che finisce per sottrarre spazio alla Corte di giustizia. La giurisprudenza di quest’ultima cerca di combinare le risultanze della prima con un proprio autonomo approccio, ma non sempre con risultati convincenti. In ogni caso, la Corte di giustizia deve assumere quale ‹‹dato›› le risultanze della giurisprudenza della Corte dei diritti, per la sua esclusiva competenza nell’interpretazione della Cedu.
I problemi maggiori emergono nella combinazione con gli ordinamenti nazionali. Emblematico il caso italiano, ove, per quanto si cerchi di dimostrare che la Cedu è sostanzialmente in linea con le corrispondenti disposizioni nazionali, emergono vistose asimmetrie. Il caso più evidente è quello del diritto di proprietà e del potere di esproprio, ove varie parti della normativa italiana – più volte considerate compatibili con l’art. 42 della Costituzione – sono apparse contrastare con le garanzie della proprietà previste dalla Cedu (art. 6 Cedu e art. 1 Protocollo addizionale del 1952). In breve, mentre la disciplina costituzionale della proprietà esalta anche la sua ‹‹funzione sociale›› e ne legittima rilevanti condizionamenti per quanto attiene i modi di acquisto e di godimento, la Cedu – come interpretata dalla Corte di Strasburgo - non lascia adito ad una tutela dimidiata del diritto di proprietà.
Alla rilevanza (e primazia) della Cedu non segue però nel nostro ordinamento un corrispondente ruolo formale, dato che la Convenzione è stata immessa nell’ordinamento con una legge ordinaria di adattamento, come ogni altro trattato internazionale. Per quanto evidente che la Cedu tratta di questioni oggettivamente costituzionali (i diritti fondamentali, appunto), sino alla riforma dell’art. 117, c. 1, Cost. non si è potuto seriamente porre una questione particolare per la Convenzione rispetto al resto degli obblighi internazionali. Solo da ultimo, per riconoscere il primato della Cedu alcuni giudici hanno tentato – in modo giuridicamente sbagliato, in quanto non si può riconoscere alle norme della Cedu il carattere di effetto utile – di forzare le regole generali, tramite l’istituto (di origine comunitaria e proprio solo di quel sistema) della disapplicazione del diritto nazionale contrastante con la Cedu.
 
5.      Il Trattato del 2007 e il recente Trattato di Lisbona
 
Il sistema sta fortunatamente progredendo verso un chiarimento sui punti di maggiore importanza, per il concorso di fattori europei e nazionali.
Per quanto riguarda l’Ue, il Trattato di Lisbona prevede – nella parte che modifica il Trattato sull’Unione europea – varie disposizioni che ben esprimono la nuova centralità del tema dei diritti. Nel Preambolo è introdotto un secondo capoverso, secondo cui dalle eredità dell’Europa ‹‹si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza e dello Stato di diritto››.[6]
Si chiarisce poi definitivamente che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ‹‹ha lo stesso valore giuridico dei Trattati›› (punto 8, che sostituisce l’art. 6 TUE). La Carta rimane dunque un testo a sé stante rispetto ai due nuovi Trattati; ma la circostanza – voluta principalmente dai britannici per attenuare la forma costituzionale del nuovo Trattato Ue – può avere un effetto paradossalmente positivo, ponendo la Carta quale atto che si pone prima e comunque a parte del TUE, in modo similare al Bill of Rights nel sistema costituzionale degli Stati Uniti.
Altri passaggi chiarificatori sono l’impegno espresso per l’Ue di aderire alla Cedu (art. 6, c. 2, novellato) e la (ri)collocazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu nel nuovo quadro delle fonti del diritto dell’Ue (art. 6, c. 3, novellato).
Non tutte le questioni sono state risolte dal Trattato di Lisbona (specie per la giustiziabilità dei diritti ed il ruolo della Corte di giustizia), ed altre se ne aprono (come per la peculiare posizione in-out consentita a Regno Unito e Polonia), ma gli osservatori europei sono avvezzi a soluzioni compromissorie e nel nuovo Trattato prevalgono comunque le disposizioni innovative.
 
6. La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali
 
Nell’attesa delle ratifiche e dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con un processo politico-istituzionale che sulla carta si presenta meno difficile del precedente relativo al Trattato costituzionale del 2004, per il diritto italiano la questione più attuale e controversa attiene alla compenetrazione tra il sistema dei diritti costituzionali e quello della Cedu; alla luce della già ricordata riforma dell’art. 117, c. 1, Costituzione.
La questione è stata finalmente affrontata appieno dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007; la cui importanza è inversamente proporzionale al silenzio mediatico che le ha accompagnate (salvo che per le conclusioni sul tema degli espropri, che ne rappresentava l’occasione), quasi che la tematica dei diritti fondamentali sia argomento iniziatico per sette di edotti.
Le due sentenze ora citate sono complesse, anche per la curiosa circostanza di avere una motivazione generale sulla portata dell’art. 117, c. 1, Cost. affidata a due diversi relatori e svolta con argomenti simili, ma non identici. Vengono qua esaminate solo per le implicazioni generali che ne derivano.
La Corte costituzionale ha seguito i seguenti principali argomenti: a) allo stato dell’evoluzione giuridica (ben sa la Corte dell’imminente assorbimento della tematica dei diritti fondamentali nel sistema dell’Ue) il diritto Cedu rimane realtà giuridica distinta dalla Ce; b) la Cedu è giuridicamente peculiare rispetto alla generalità degli accordi internazionali, ad iniziare dal sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali; c) il rapporto tra la Cedu e gli ordinamenti giuridici degli stati rimane ‹‹saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale››; d) la riforma dell’art. 117, c. 1, Cost. colma finalmente la lacuna per questo tipo di rapporti e ‹‹si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Costituzione, al quadro dei principi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato››; e) con la nuova disposizione si determina un rinvio mobile alla Cedu, qualificabile come norma interposta; f) ferma rimanendo la competenza della Corte europea per l’interpretazione centralizzata della Cedu, alla Corte costituzionale spetta in ultima istanza di verificare che le norme Cedu, di volta in volta richiamate, assicurino una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana.
Le motivazioni sono condivisibili su vari aspetti, ad esempio, per l’erronea utilizzazione da parte di alcuni giudici nazionali del potere di disapplicazione delle norme interne e sul carattere originale dell’art. 117, c. 1, novellato, rispetto all’art. 10 Cost. e ad altre disposizioni ‹‹internazionalistiche›› della Costituzione. Ma, nel complesso, lasciano l’impressione che il diritto della Cedu sia stato considerato una variante del diritto internazionale, per quanto importante, che si colloca come mera ‹‹norma interposta›› rispetto alla Costituzione. Laddove per le particolari caratteristiche della Convenzione, in sé ed alla luce dell’uso fattane nel diritto dell’Ue, si sarebbe dovuto assicurare una collocazione a parte rispetto ai normali obblighi internazionali. Lo stesso dicasi per il potere che la Corte costituzionale si riserva in ordine alla ‹‹verifica di corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa››.
Nell’insieme, dalle due sentenze si ricava l’impressione che – una volta digerite le posizioni della Corte di giustizia sul diritto Ue; con fatica, e non fino in fondo, come dimostra la questione dell’unitarietà o meno degli ordinamenti – la Corte costituzionale abbia inteso riservarsi in linea di principio un ruolo ‹‹difensivo›› dei diritti a base costituzionale. Ancorché poi debba accettare le conclusioni della Corte di Strasburgo, anche su temi ove si manifestano oggettive diversità tra le due impostazioni. Emblematica proprio la tematica dell’espropriazione, occasione delle due sentenze sopra citate.
 
7. Questioni aperte
 
Rimangono pure nel diritto dell’Ue, come detto, questioni irrisolte e difficoltà applicative. Si pensi che nel contesto del futuro Trattato Ue (ovvero come modificato dal Trattato di Lisbona) i diritti fondamentali derivano sia dalla Carta che dalla Cedu, ma sono anche risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri. Per quanto riguarda il sistema delle fonti, i diritti garantiti dalla Cedu e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
Il modello complessivo non è di preclara chiarezza. Infatti, con la conclusione del processo di revisione, da un lato, i diritti fondamentali previsti dalla Carta avranno rango costituzionale (la Carta possedendo, come detto, lo stesso valore giuridico dei trattati); dall’altro, i diritti garantiti dalla Cedu e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri avranno invece rango di ‹‹principi generali››, ovvero non costituzionale.
Inoltre, il riconoscimento del valore giuridico della Carta è accompagnato da molte (troppe, probabilmente) cautele, quali il ‹‹considerando›› del Protocollo sull’applicazione della Carta alla Polonia e al Regno Unito secondo cui ‹‹la Carta ribadisce i diritti, le libertà ed i principi riconosciuti nell’Unione e rende detti diritti più visibili, ma non crea nuovi diritti o principi››. Laddove per molti dei diritti ivi contemplati è evidente l’assoluta novità.
 
8. La tutela dei diritti quale fondamento primario dell’Unione europea
 
Per quanto rilevanti siano i problemi ancora aperti, è certo che nessun altro ordinamento giuridico ha realizzato come l’Unione europea un sistema integralmente basato sul diritto e sulle garanzie dei diritti fondamentali delle persone. In specie, la libertà, il principio democratico e la solidarietà assicurata dall’economia sociale di mercato sono divenuti, pur nel volgere breve di alcuni decenni, una situazione tanto acquisita e goduta dai cittadini europei da farla considerare un fatto ‹‹naturale››, più che l’esito positivo di una politica lungimirante. Nulla, in verità, è tanto costruito e voluto come questa principale connotazione dell’Unione europea.
Lo ‹‹Stato di diritto›› ed i diritti fondamentali esercitano così un duplice ruolo: all’interno dell’ordinamento europeo ne rappresentano il fondamento primario, creando le premesse di un nuovo senso di appartenenza dei cittadini europei; all’esterno, si pongono in modo propulsivo sia per i paesi interessati a far parte dell’Unione che per tutti gli altri che con essa hanno a che fare.
Per i cittadini dell’Unione si tratta di acquisire la consapevolezza che l’Unione è più di ogni altro ordinamento un sistema di libertà effettivamente funzionanti e garantite. È su questo pilastro costruito dalla stessa Unione, più che su discutibili retaggi del passato (le eredità europee di cui tanto si è discettato in occasione del Trattato costituzionale del 2004) che si deve basare l’identità europea.
All’esterno, l’Unione esercita, come detto, il suo ruolo propulsivo per la progressiva estensione – sempre in modo ‹‹gentile›› e non coercitivo – della democrazia e della sicurezza comune. Grazie alla peculiarità di uno spazio europeo non predefinito, l’originaria Europa dei sei stati fondatori della Cee si è estesa, tappa dopo tappa, agli attuali ventisette stati membri, determinando per ciascuno di essi profondi adeguamenti. L’influenza positiva dell’Ue va oltre i suoi mobili confini, condizionando positivamente gli stati interessati all’adesione (dalla Turchia ai Balcani) e gli stati legati da particolari rapporti commerciali. L’Unione europea sta così divenendo il ‹‹faro delle libertà›› per il mondo intero.
Occorre dunque che nel processo di ratifica del nuovo Trattato di Lisbona, per quanto incentrato formalmente sul ruolo dei parlamenti nazionali, si sottolinei all’opinione pubblica europea (la più avvertita e consapevole nel mondo) il ruolo cruciale dei diritti e dello Stato di diritto. Non sono i complessi meccanismi istituzionali ed economici che possono creare una nuova ‹‹cittadinanza europea››, bensì l’effettività di un sistema in cui ‹‹il diritto decide il potere, non il potere il diritto››.[7]

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[1] J.V. Louis, L’ordinamento giuridico comunitario, Bruxelles-Luxembourg, Commissione delle Comunità europee, 19893, p. 43 ss.
[2] B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, p. 29.
[3] T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Bologna, Il Mulino, 2001.
[4] F. Mancini, The Making of a Constitution for Europe, in ‹‹Common Market Law Review››, 1989, p. 595, p. 611.
[5] Nelle sterminata bibliografia sul tema, basti qua ricordare gli ispirati scritti di J.H.H. Weiler, La Costituzione dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 2003. Una panoramica d’insieme assai efficace in F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in ‹‹Rivista italiana di diritto pubblico comunitario››, 2005, p. 79 ss. Cfr. inoltre: A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, Il Mulino, 2002; S. Panunzio (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, ES, 2005; G. Silvestri, Verso uno jus comune europeo dei diritti fondamentali, in ‹‹Quaderni costituzionali››, 2006, p. 7 ss. Per quanto riguarda i nuovi diritti nei confronti dell’amministrazione, previsti dalla Carta, cfr. F. Trimarchi Banfi, Il diritto ad una buona amministrazione, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M.P. Chiti e G. Greco, Milano, Giuffrè, vol. I°, p. 49 ss.
[6] Sulle vicende del Trattato costituzionale del 2004 e della successiva elaborazione del Trattato di Lisbona, le due opere di J. Ziller, La nuova Costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2004 e Il nuovo Trattato europeo, Bologna, Il Mulino, 2007.
[7] H.G. Poettering, Discorso al Parlamento europeo in occasione dell’approvazione definitiva della Carta dei diritti, novembre 2007.

Las entitades locales en el ordenamiento jurìdico comunitario

MARIO P. CHITI

En primer lugar, un caluroso agradecimiento al Excelentísimo y Magnífico Rector de la Universidad de Castilla la Mancha por haberme invitado a realizar la ponencia introductiva en este importante Congreso. Es un gran honor personal y la ocasión para fortalecer la colaboración entre nuestras Universidades. Un saludo especial al colega y amigo prof. Ortega, con quien desde hace años comparto un camino común de estudios y de investigación acerca del derecho europeo y de la comparación entre los ordenes jurídicos de Italia y España.

El tema que hoy vamos a abordar es la sección del reciente Tratado de Lisboa dedicada a las entidades locales y regionales, con la esperanza - esta vez muy concreta - de su entrada en vigor el proximo año, una vez que se haya concluido el proceso de ratificación por parte de los Estados Miembros.

Mi interpretación de esta sección - como ya del Tratado constitucional del 2004 - es que estamos frente a una nueva "etapa" del proceso de integración europea, y no de una reforma radical del modelo actual.

La Unión Europea está desde luego, poco a poco, reconociendo el papel de las entidades de gobierno local y regional; y va superando su configuración inicial "internacionalista" de Unión de Estados. Se trata de una evolución lenta y progresiva, según el típico modelo de la "reforma continua", apoyada por la jurisprudencia del Tribunal de Justicia y por la ciencia jurídica.

En función del tema que abordamos hoy,por lo tanto no nos tenemos que esperar del Tratado de Lisboa novedades tan sustanciales como las que hay en otros campos (el sistema de las fuentes del derecho, las actas públicas de la Unión europea, la definición del valor jurídico de la Carta de los derechos fundamentales, etc.). Mas bien, como ya he dicho, podemos encontrar en él una serie de perfeccionamientos de la disciplina existente. Estos son a su vez un puente hacia futuras ulteriores innovaciones.

No se trata, en mi opinión, de una ocasión perdida para Europa, sino, al contrario,de la confirmación de una tendencia institucional y política, que en este momento se ha hecho irreversible hacia una Europa no solo de los Estados, sino de las colectividades y de los gobiernos locales.

Una evaluación completa de los cincuenta años del proceso de integración confirma esta tesis.

1. Prólogo general

Europa ha sido y sigue siendo un gran laboratorio político, institucional y jurídico.

Históricamente, Europa es el continente en el cual, concluido el tiempo de la polis y de las confederaciones de las ciudades autónomas, se ha manifestado completamente el imperium, una organización del poder caracterizada por la presencia simultánea de mandato común y de realidades políticas subordinadas, consecuentemente con pluralismo jurídico. Europa ha sido también el lugar original y privilegiado de afirmación de la estaicidad y de los Estados nacionales (P.P. Portinaro). A partir del siglo XVII, como desarrollo de la estatalidad de los poderes publicos se crea una red de relaciones internacionales, normalmente definida como "modelo de Westfalia", que es el inicio del derecho internacional moderno.

En aquella fase era correcto hablar de Estados como "comunidades perfectas", con las que se expresaba la nueva concepción de soberanía, y también una situación en la que la dimensión territorial de los Estados estaba generalmente adaptada a las necesidades de la sociedad y de los mercados.

Pero Europa es también el continente de la civitas , de las mil ciudades, de las autonomías locales, de las fuertes identidades regionales, de los muchos idiomas y dialectos locales que representan una inestimable riqueza cultural europea.

A partir de la mitad del siglo pasado en Europa se experimenta una forma inédita de poder público sobrenacional, tan original que todavía no hemos conseguido definirlo exactamente con las categorías clásicas (federación, confederación, etc.), hasta el punto que muchos autores han retomado la expresión de Pufendorf del Monstrum simile.

Efectivamente, la Unión Europea es una forma inédita de poder caracterizada por la convivencia de instituciones que expresan el residuo de la soberanía de los Estados (principalmente en el Consejo europeo y en el Consejo de ministros), de instituciones sobrenacionales (como el Parlamento europeo , la Comisión, la Corte de justicia) y de nuevos sujetos compuestos. Como ha comprobado Sabino Cassese , la Unión Europea es una comunidad de vecinos, un consorcio, una constelación de instituciones, una fusión de funciones de gobierno, una estructura de redes de governance.

En esta intervención querría hablar del nuevo ordinamiento europeo como "espacio jurídico", un peculiar ordinamiento jurídico compuesto por el ordinamiento de las Comunidades europeas, integrado por la política y formas de cooperación instauradas por el Tratado sobre la Union Europea, y de los ordinamientos jurídicos de los Estados miembros.

El espacio jurídico europeo es un marco institucional dentro del cual se desarrollan innumerables relaciones, no necesariamente tendentes a la asimilación de los ordinamientos nacionales en el ordinamiento comunitario. El espacio jurídico europeo es, al mismo tiempo, un sistema dinámico que consiente una constante evolución institucional a través del uso de instrumentos jurídicos diferenciados. El espacio jurídico europeo representa, por último, una importante manifestación del nuevo constitucionalismo europeo, en el que se elaboran estatutos y principios que prescinden del Estado y de las formas hasta el momento conocidas como "federación". En una combinación de innovación y tradición, de derecho común y de derecho local, que encarna perfectamente los principios de pluralismo y de la diversidad, sin provocar la crisis de los ordinamientos de los Estados miembros y de su legitimación autónoma.

En este complejo «sistema de ordinamientos jurídicos", ¿puede la Unión Europea limitarse a ser una Unión de Estados? ¿Puede dejar a un lado la realidad de la civitates? Aquella que se define como una Unión cada vez más estrecha entre los pueblos de Europa, ¿puede renunciar a las experiencias regionales, que son al mismo tiempo experiencias sociales, políticas e institucionales?

Antes de la integración europea se podía todavía aceptar la idea de que "la modernidad política pertenece al Estado" (P.P. Portinaro), del cual el derecho internacional permanecía como expresión directa y condicionada de la competencia final (normalmente definida como la expresión alemana Kompetenz-Kompetenz).

Pero las vicisitudes de las Comunidades europeas y, más recientemente, de la Unión Europea muestran que el fenómeno de la integración no es solo una respuesta a las exigencias de prevenir otras dramáticas guerras europeas, sino el reciente fruto del gran laboratorio político-institucional europeo para ofrecer una alternativa al declino de los Estados frente a su capacidad de organizar la complejidad del tiempo presente y los fenómenos que se suelen denominar con el término de globalización. Se trata de una forma de "federalismo ligero" al que participan todas las instituciones exponenciales, a partir de aquellas más cercanas al ciudadano, y por lo tanto abierto al "particularismo" que tanto papel ha tenido en la historia europea.

Como demuestran recientes estudios sobre la globalización y sobre el recorrido singular (il sonderweg) de Europa, la superación de los confines tradicionales no significa cancelación o implosión del espacio, sino el retorno a la ciudad como espacio político, come civitas, acompañada por el renacer de una nueva forma de poder sobrenacional que en varios aspectos retoma la antigua trama del imperium. Especialmente por la presencia contemporánea de diferentes esferas de soberanía y por la interdependencia de los infrasistemas.

Las entidades locales son por lo tanto un componente esencial del ordinamiento jurídico europeo.

2. Este breve prólogo general era necesario, porque según los manuales de derecho comunitario más difundidos, el tema examinado en esta relación no existe.

En la gran parte de los textos no se encuentra ninguna referencia al tema de las regiones y de los entes locales. En algunos textos se habla de las autonomías locales, pero sólo para explicar el papel del Comité de las regiones, órgano consultivo previsto por el Tratado CE (artt. 263-265). Y con la precisación preliminar de que la Comunidad europea es indiferente a la organización interna de los Estados miembros. Con este propósito se adopta el principio de autonomia institucional de los Estados miembros, según el cual cada Estado es libre de organizarse y distribuir las competencias internamente.

El principio ha sido confirmado por la Corte de justicia desde la sentencia 25.5.1982, causa 97/81: cada Estado es libre de atribuir como crea oportuno las competencias en su plano interno y de actuar una directiva a través de la cual los instrumeentos adoptados por las autoridades regionales o locales. La misma posición ha sido reconfirmada por el Parlamento europeo en la Resolución del 4.12.2002 sobre la función de los poderes regionales y locales en la construcción europea, en el cual se ha insistido sobre el principio de no interferencia de la Unión en los ordinamientos constitucionales nacionales, cuya soberanía en este tema deve ser garantizada plenamente.

También el Tratado constitucional del 2004 ha insistido en que "la Unión respeta la identidad nacional de los Estados miembros en su estructura fundamental, política y constitucional, incluído el sistema de las automomías locales y regionales" (art. I-5, "Relaciones entre la Unión y los Estados miembros").

El principio de la automomia institucional tiene por lo tanto una segura base jurídica en el derecho primario de la Unión, pero se malinterpreta por la influencia que perdura de la doctrina internacionalista. Esta doctrina ha considerado inicialmente la integración europea como un fenómeno que hay que traspasar al derecho internacional, debido al proceso intergubernamental del cual emanaba el Tratado CE, a los caracteres formales de este Tratado, a la función de los Estados miembros como sujetos del nuevo ordinamiento. Consecuentemente, anche la Comunidad europea ha sido considerada como variante de la organizaciones internacionales, de las cuales mantiene las características principales.

A cincuenta años de distancia del Tratado de Roma, una parte influyente de la doctrina jurídica mantiene esta posición, y la paradoja esta en que no esta preocupada del dificil momento constitucional europeo. Muchos autores consideran de hecho que el procedimiento de elaboración del nuevo Tratado constitucional por medio de la Convención y no la tradicinal conferencia intergubernamental haya sido una "rotura" excesiva en el proceso de integración, lo mismo se dice para la primera parte de la Constitución, considerada ineficaz en el prever un completo cuadro institucional para la Unión Europea.

A mi modo de ver, se trata de una posición equivocada porque no tiene en cuenta la naturaleza original del ordinamiento comunitario, como ha ya aclarado la Corte de justicia con la sentencia Van Gend & Loos de 1963, y después convertido en referencia constante para todos los desarrollos sucesivos, por lo que "la Comunidad constituye un ordinamiento jurídico de nuevo género a favor del cual los Estados han renunciado, aunque en determinados sectores, a sus poderes soberanos, ordinamiento que reconoce como sujetos no sólo los Estados, sino también a sus ciudadanos".

Los caracteres del nuevo ordinamiento jurídico europeo son bien acogidos por los juristas nacionales, que han evidenciado como en el ámbito de la Unión los elementos de derecho internacional evidencian solo en momentos concretos, como la ampliación a nuevos Estados miembros o la revisión de los Tratados (por mucho que el sistema de la revisión "por Convención" se considere ya irreversible). Por lo demás, la acción de la Unión no está por lo tanto centrada en el regular las relaciones entre los Estados miembros, sino en el asegurar a todos sus sujetos - principalmente los individuales - las condiciones para un pleno desarrollo de su propia personalidad.

Sin embargo, también en esta perspectiva el tema de la relevancia jurídica de regiones y entes locales se considera marginalmente, ya que permanece la idea de la indiferencia comunitaria en la organización institucional de los Estados miembros.

En realidad, si está equivocada la posición todavía dominante entre los estudiosos de la escuela internacionalista, que consideran comunitariamente relevantes sólo los Estados miembros, no es condivisible tampoco la posición de la mayoria de los demás juristas, que consideran el problema de poca relevancia.

Mi tesis es que el derecho europeo non interfiere directamente en el orden institucional y administrativo de los Estados miembros, sino que considera como cuestion de alto interés comunitario la actividad de las regiones y de los entes locales.

La organización interior de los Estados miembros de la Uniòn Europea forma parte de un poder público sobrenacional más grande, al que condiciona y por el cual es condicionada al mismo tiempo. Volviendo a la idea de "espacio jurídico europeo" de la que he hablado al principio, en la Unión se ha creado un bloque constitucional complejo, una composición de constituciones, marcada por un patrimonio constitucional común (A. Pizzorusso). Esta Verfassungverbund no puede no afectar a las organizaciones institucionales de los Estados miembros, y a la vez, como ya mencionado, no estar contaminada por ellas.

Así pues, por un lado, el derecho europeo deja a los Estados miembros la más amplia autonomía para elegir la forma institucional y de gobierno, y la organización administrativa.

En la misma Unión europea tenemos pues monarquías y repúblicas; gobiernos presidenciales y parlamentarios; federaciones y estados autonómicos.

Por otro lado, las instituciones y las administraciones públicas definidas por los Estados miembros tienen que respetar la disciplina comunitaria en lo que respecta a la competencia europea (que aumenta cada vez más), y son pues responsables de violaciones de las reglas europeas.

Sólo en lo que se refiere a la organización, se puede hablar aún de regiones y de entidades locales como sujetos del derecho interior. Cuando opera el derecho comunitario, éstas actuan de un punto de vista funcional como "administraciones comunes" del sistema europeo.

Un solo ejemplo puede ser suficiente en este sentido, y eso viene de la reciente jurisprudencia constitucional italiana. La Comunidad europea ha promocionado varias iniciativas de cooperación transfronteriza entre regiones de dos (o más) Estados miembros, con el fin de conseguir una mayor cohesión social y económica. Entre ellas, la iniciativa "Interreg III A, Italia-Austria", ha permitido a algunas regiones de los dos Paises cerrar varios tratos, sin la necesidad de un previo acuerdo con el Gobierno (lo que sería imprescindible en las iniciativas que tengan una relevancia externa). La Corte Constitucional italiana ha declarado legítima la iniciativa porque las regiones han realizados acuerdos con otras regiones de un Estado miembro de la Unión europea gracias a los instrumentos de cooperación previstos en el sistema comunitario y que constituyen su base legal principal. No se ha violado la Constitución (art. 117, par. 9), nisiquiera en lo que respecta a la creación de organismos comunes entre las regiones de dos Estados, porque dichos organismos están previstos como obligatorios directamente por el derecho comunitario (sent. n. 258/2004).

Por lo tanto, se puede comprender que el escenario europeo tiene una relevancia primaria para las regiones y los entes locales, con importantes consecuencias desde el punto de vista constitucional nacional. Nuestro Congreso es pues una ocasión importante para examinar un tema hasta ahora poco valorado, ya que ha siempre dominado la visión meramente nacional o, como mucho, comparativa.

La presente exposición consta de tres partes: la primera trata del desarrollo de lo que podríamos llamar "regionalismo comunitario"; la segunda, del análisis de las cuestiones europeas que están actualmente abiertas y de las cuales se debate; la tercera, finalmente, de la relevancia que el desarrollo europeo ha tenido en las reformas constitucionales en algunos Estados.

Hay que anticipar que, para exponer de una manera más sencilla, hablaré sin distinguir regiones y entidades locales; aunque la noción de "región" tenga diferentes sentidos y equivalencias institucionales en los diferentes sistemas juridicos, y que la asimilación a las entidades locales resulte en cierto sentido forzada.

3. La primera fase del regionalismo comunitario se puede definir como de "regionalismo funcional": las regiones y los entes locales destacan desde un punto de vista comunitario no como sujetos exponenciales de sus proprias comunidades (regionalismo institucional) sino como zonas homogéneas en las que concentrar acciones y políticas comunitarias.

En este sentido se puede notar que la Comunidad siempre ha tenido una política regional para el desarrollo económico de las regiones con un nivel de vida anormalmente bajo o con graves formas de desempleo. Se trata de una política de intervenciones llevadas a cabo en algunos casos directamente por la Comisión, y en otras circunstancias por los Estados miembros, en las que se consideraba a las regiones no como entidades institucionales, representativas de sus propias poblaciones, sino como áreas con características económica y socialmente omogeneas. En este sentido hay que leer el artículo 92, par. 3 del Tratado original - hoy art. 81 - sobre las reglas de competencia aplicables a las empresas.

El "funcionalismo regional" es una de las muchas manifestaciones del "método comunitario", es decir la actitud típica de integración en las primeras décadas de vida de la Comunidad. Esta actitud ha privilegiado el pragmatismo de las acciones concretas con respeto a un modelo cartesiano de governance. Y gracias a ella han surgido varios principios, como el del efecto útil, del que se puede dudar en un sentido racional, pero que favorece considerablemente el proceso de integración.

Las motivaciones principales de las acciones regionales han sido la necesidad de garantizar la cohesión económica y social, y la reducción del desnivel entre regiones europeas, especialmente después de la apertura a nuevos Estados miembros. Recordamos en especial la política de los Programas Integrados Mediterráneos (PIM), en ocasión del ingreso de España y Portugal (Reglamento CEE n. 2088/1985); la reforma de los Fondos Estructurales (Reglamento CEE n. 2052/1988); las iniciativas entre regiones de frontera para realizar acciones de interés común transfronterizo.

Con la misma finalidad pueden recordarse varias formas de colaboración publico-privada (public-private partnership - PPP) del tipo "institucionalizado", en las que los entes locales constituyen o participan en sociedades anónimas para el desarrollo de la economía local.

Per medio de tales políticas la Comunidad pretendía, como he dicho, conseguir el objetivo de equilibrar el nivel económico y social. El método seguía siendo el "funcionalista"; pero esto no podía evitar que se valorasen las regiones y los entes locales también desde un punto de vista institucional.

Con estos sujetos públicos, y no sólo con el Estado, la Comunidad estipula acuerdos y contratos publicísticos para realizar políticas de cohesión. En ausencia de una norma contraria de derecho comunitario, correspondía al Estado garantizar en su propio territorio la aplicación de la normativa comunitaria; el Estado miembro permanece responsable también de los compromisos de todas las autoridades públicas del país. Aún así, las regiones participan ya como interlocutores directos de la Comunidad. Con una fórmula que en la época causó sensación, el art. 4 del reglamento 2052/88 sobre los fondos estructurales preveía que: "La Comisión, el Estado miembro interesado y las autoridades competentes designadas por éste último a nivel nacional en calidad de partner que persiguen un objetivo común".

4. La segunda fase está caracterizada por la plena afirmación del regionalismo "institucional", porque se reconencen regiones y entes locales como entidades exponenciales de las propias comunidades, y, al mismo tiempo, como componentes institucionales del sistema público europeo.

Las primeras indicaciones son la Declaración común adoptada por las instituciones europeas en 1984 para una colaboración más estrecha con las autoridades regionales y locales en la elaboración de los planes europeos para el desarrollo local. Y sobre todo en la Carta comunitaria de la regionalización, de 1988, que proponía instituir formas de representación regional en el contexto comunitario.

El primer paso fue, en el mismo 1988, el Consejo de consulta de los entes regionales y locales. Un desarrollo de carácter constitucional se tuvo sucesivamente con el Tratado de Maastricht en 1992, che preveía la institución del Comité de las regiones, como órgano consultivo y dotado de iniciativa propia, cuyos miembros ejercitan sus funciones con plena independencia, sin mandato imperativo y en el interés de la Comunidad. Se trata de uno de los dos órganos (el otro es el Comité economico social) que no son "instituciones comunitarias", pero que al mismo modo tienen relevancia constitucional comunitaria. Por lo tanto sólo modificables con los procedimientos de revisión de los Tratados.

En la misma ocasión, el gran progreso en el proceso de unificación europea - marcado en particular por la institución de la Unión Europea, con el expreso Tratado - fue acompañado por nuevos principios que hubieran debido compensarlo con garantías hacia las instituciones más próximas al ciudadano y con intervenciones limitadas a los casos apropiados. Me refiero al principio de proporcionalidad, pero sobre todo al principio de subsidiariedad.

Este último, como ya es notorio, tiene diferentes orígenes (uno, muy importante, aunque en el interior de la iglesia Católica) y muchos significados diversos, pero en Maastricht se invocó debido a dos finalidades principales: con la presión del Reino Unido, para limitar las intervenciones de las instituciones europeas, muy reforzadas por el nuevo Tratado, y con la presión de los Estados federales y autonómicos para dar una base constitucional a la administración regional y local.

Como ha repetido en diversas ocasiones el Comité de las regiones, la aplicación del principio de subsidiariedad debe garantizar tanto las prerrogativas regionales como la autonomía local, con el respeto de los ordinamientos jurídicos de cada Estado miembro, dado que en muchos de ellos las entidades locales también tienen responsabilidad administrativa en asuntos comunitarios. Se trata de que la Comunidad sólo intervenga en la medida en que los Estados miembros o las esferas de gobierno que los constituyen no puedan realizar satisfactoriamente los objetivos de las acciones previstas y que, debido a la dimensión y a los efectos de dichas acciones, su realización sea factible a nivel comunitario.

Sabemos que el funcionamiento efectivo de subsidiariedad ha dado resultados muy diferentes, en concreto, la subsidiariedad ha mostrado un marcado carácter "ascensional", justificando la avocación de las competencias a un nivel diferente al básico debido al carácter del interés público que persigue. De todas maneras, la subsidiariedad determina un criterio "móvil" y flexible de reparto de las competencias, a favor de un regionalismo cooperativo de carácter funcional.

5. La constitución europea (Tratado por medio del cual se establece una Constitución europea - todavía no está en vigor, pero que en varios puntos indica una línea de tendencia irreversible - confirma expresamente el principio de la autonomía organizativa de los Estados miembros. El art. 5 ("Relaciones entre la Unión y los Estados miembros") desarrolla significativamente el actual art. 6, coma 3, del Tratado de la Unión. Con la nueva formulación del principio sobre el respeto de la identidad nacional (donde se para el texto vigente), la Unión se compromete a respetar la "estructura fundamental, política y constitucional" de los Estados miembros, entendida como la forma institucional y de gobierno, incluyendo también "el sistema de las autonomías regionales y locales".

Pero se retoma además el tema de la cohesión económica, social y territorial, y el consecuente compromiso de promover cada iniciativa necesaria a ese fin.

Por lo que respecta al principio de subsidiariedad, éste se introduce entre los "Principios fundamentales" de la Unión (art. 9) y se desarrolla orgánicamente en un Protocolo (junto al principio de proporcionalidad), que es parte integrante del tratado (véase art. IV-6). Las mayores novedades se concentran en una obligación procesal más concreta en las iniciativas normativas de la Comisión, y en un reconocimiento de la justiciabilidad de los actos normativos en el caso de violación del principio de subsidiariedad. Esto puede ocurrir sea por parte de los Estados miembros, sea por parte del Comité de las regiones en relación con los actos legislativos para los cuales la Constitución solicita su consulta.

Es significativo la referencia en el art. I-11, coma 3, a nivel de gobierno regional local para efectuar el test de subsidiariedad.

6. A partir de este excursus sobre la evolución del regionalismo comunitario se encuentran algunos puntos permanentes: a) la Unión europea es un ordinamiento de Estados y de individuos, pero reconoce y valoriza las regiones y los entes locales de los Estados miembros, b) los Estados miembros tienen amplia autonomia para organizar sus propias instituciones nacionales, centrales, regionales y locales, c) la Comunidad europea se reserva el derecho de controlar las decisiones de los Estados, para que no sean causa de imposibilidad o excesivos obstáculos para la plena afirmación del derecho europeo, d) la autonomía organizativa de los Estados está acompañada por el sometimiento de los entes por ellos constituidos y que obedecen a una disciplina sustancial cada vez más de origen comunitario, debido al aumento (stretching) de los campos de competencia comunitaria y por el carácter más completo y profundo (deepening) de la disciplina europea, e) permanece la responsabilidad única del Estado ante la Unión europea, incluso en aquellos Estados de estructura compleja en los que el incumplimiento de la normativa comunitaria resulta imputable exclusivamente a un ente regional (Corte di Justicia, sentencia 1.6.1999, Konle, C-302/97).

De todas maneras, el sistema está lejos de tener un orden satisfactorio, incluso en el caso que entraran en vigor las previsiones del Tratado constitucional en la materia. De hecho, el Comité de las regiones deberían incrementar significativamente su papel, el proceso decisorio comunitario debería resultar netamente más participativo por parte de las regiones y los entes locales, y debería asegurarse la plena justiciabilidad de las violaciones del principio de subsidiariedad.

7. El desarrollo del regionalismo europeo ha determinado contrastes y asimetrías con los avances de las autonomías en los sistemas nacionales.

Inicialmente, las iniciativas de las regiones con carácter comunitario fueron asimiladas en casi todos los sitios como inciativas "extranjeras", casi como si los demás Estados miembros fuesen Estados "extranjeros" o "terceros". En consecuencia, los Estados - a veces con el apoyo de jueces constitucionales - bloquearon estas iniciativas porque violaban el poder extranjero, que es monopolio del Estado.

Superada con esfuerzo esta fase inicial, y diferenciado el "poder extranjero" con las iniciativas de corte europeo, las cosas no han mejorado mucho. Varios Estados miembros no han acogido positivamente el "regionalismo institucional", con el consecuente reconocimiento comunitario de las regiones. Las razones de esta posición residen, por un lado, en la pérdida significativa de poder por parte del gobierno central (aceptada a regañadientes, incluso en la época del triunfo aparente del Estado autonómico), y por otro lado, en el riesgo de que un excesivo autonomismo lleve a la disgregación de una política coherente de gobierno, que dañaría sea la eficacia de las políticas públicas que por el respeto de las obligaciones europeas.

Dejando a un lado la actitud centralista que caracteriza casi todos los gobierno centrales, no hay duda de que un fuerte papel de las regiones en la actuación directa del derecho comunitario es potencialmente una fuente de violaciones del derecho europeo y una ocasión para atentar contra el principio de ejecución uniforme de las políticas europeas y de las naciones anexas. La circunstancia es aún más grave si se considera que en las violacciones del derecho comunitario sono todavía los Estados miembros los únicos responsables ante la Comunidad. Se entiende que esta posición - residuo de la disposición original internacionalista de la Comunidad europea - la aprecian las instituciones comunitarias debido a la semplicidad con la cual se puede garantizar el respeto de la misma, pero el problema tiene que encontrar una nueva solución constitucional, coherentemente con el modelo de compromisos de relevancia comunitaria que involucran las regiones y los entes locales.

El argumento es irreversible. Los compromisos comunitarios son de hecho para el Estado una motivación válida para prever nuevos controles, incluso válidos, sobre las acciones de los entes autonómicos, así como formas de sustitución en caso de retrasos o de una actuación de las obligaciones comunitarias.

Tomemos como ejemplo el caso de la reforma constitucional italiana del 2001. La reformulación del Título V de la Constitución - completada por las leyes ordinarias n. 131/2003 e n. 15/2005 - ha completado el camino europeo hacia nuestro regionalismo. De hecho, como prevé el art. 117, coma 5, en las materias de su competencia (que ahora son todas, menos aquellas reservadas expresamente al Estado) las regiones participan a las decisiones directas en la formación de los actos normativos comunitarios y proveen a la actuación y a la ejecución de los acuerdos internacionales y de los actos de la Unión europea, en el respeto de las normas del procedimiento establecidas por ley del Estado, que disciplina las modalidades del ejercicio del poder sustitutivo en caso de incumplimiento. Tal previsión general luego se desarrolla puntualmente, también en cuanto respecta a la potestad del Gobierno de sustituir órganos de las regiones y de los entes locales en el caso de de no respetar la normativa comunitaria (art. 120, coma 2), por otro lado respetando siempre el principio de subsidiaridad y del principio de leal colaboración.

En lo que a esto se refiere es interesante una comparación con lo previsto por el art. 93 de la Constitución española, en la que se prevé una competencia similar. Por lo que he podido examinar, en España son muy cautos en el considerar el art. 93 como la base constitucional de un poder estatal de intervención y de sustitución por lo que respecta a las regiones por razones de interés nacional, aunque estén relacionadas con cuestiones europeas. El mismo Tribunal Constitucional me parece que ha compartido esta interpretación. Sin embargo, en Italia la Corte constitucional considera constantemente el "vínculo comunitario" como una base segura de intervenciones estatales de control y, llegado el caso, de sustituciones por parte de las regiones, aunque obviamente está atenta a comprobar las condiciones concretas en estas intervenciones.

La mejor doctrina ha considerado enseguida que los compromisos comunitarios de los Estados miembros representan un potente factor de cohesión unitaria. El caso italiano es ejemplar, porque después de la reforma de la Constitución del 2001 hacia un fuerte regionalismo, el "vínculo comunitario" ha sido considerado el mejor antídoto contra una posible fragmentación degenerativa. Este vínculo no representa, sin embargo, un nuevo factor de centralismo sino una ocasión para una poliarquía efectiva, en la fase ascendente por las oportunidades de participación en el proceso decisorio comunitario que se abren para todos los componentes de la República, y en la fase descendiente por la plena afirmación del principio de colaboración. Todo lo comprobado en el caso italiano vale también para los demás estados miembros caracterizados por un sistema autonómico.

El nuevo escenario condiciona también la naturaleza de organismo que revela el regionalismo cooperativo. Consideremos como ejemplo el suceso - que tiene evidentes rasgos comunes - de la Conferencia unificada Estado-regiones en Italia y de la Conferencia para Asuntos Relacionados con las Comunidades Europeas (CARCE), en España. En los dos paises las Conferencias representan un órgano de cooperación entre el Estado y las regiones, encargadas de articular adecuadamente la competencia entre los respectivos poderes en lo que respacta a la participación de los asuntos comunitarios.

Una vez que, por medio de diferentes recorridos constitucionales con distintos resultados, los ordenamientos nacionales se van adaptando al regionalismo comunitario, destacan algunos problemas que necesitan soluciones homogéneas.

En la fase nacional de elaboración de las políticas comunitarias, hay que reconocer un papel importante a las asambleas regionales y locales, igual que el tienen los parlamentos. Un procedimiento compartido de esta manera resultarà seguramente más complejo, pero, si bien delimitado en sus fases y en sus momentos, no perderá eficacia. Más bien, será un factor de mejor actuación de las políticas europeas elaboradas. Se sabe que una de las razones principales de mala o omisa actuación del derecho europeo es el sentido de extrañeza que muchas administraciones públicas perciben con respecto a reglas en cuya elaboración no han participado significativamente.

En este sentido se han dado importantes pasos hacia delante, que paradójicamente han permitido desvelar la considerable falta de preparación y de sensibilidad institucional de regiones y entes locales hacia el tema europeo. En concreto, después de ganar la «lucha» para el reconocimiento de un papel europeo, muchos entes autonómicos han demostrado una modesta preparación y una organización administrativa insuficiente.

Otras implicaciones son aquellas que se refieren al papel de las Representaciones permanentes de los Estados miembros en la Unión europea; a la composición de la delegación ministerial en las reuniones del Consejo de ministros; a la legitimación de las regiones a recurrir contra, dado el caso por medio de los Estados, al Tribunal de Justicia por violaciones del derecho comunitario que constituyen violaciones de sus propias prerrogativas.

Con respecto a las Representaciones permanentes en Bruselas, en los Estados autonómicos no constituyen ya la terminal europea de los Estados-persona, sino de todas las entidades que componen el Estado-ordenamiento. Ellas tienen pués que estar organizadas como para poder representar a las instituciones comunitarias también el punto de vista de las regiones.

Con respeto a la composición del Consejo de ministros, la reforma prevista del Tratado de Maastricht, que permite la participación de representantes nacionales "a nivel ministerial", permite sin ningún problema la representanción de los Länder y de los Estados de las otras Federaciones. Sin embargo la reforma no deja - salvo artificios institucionales - la participación de las regiones italianas y, tal vez, de las Comunidades autónomas españolas. Hay que emendar la actual disposición del Tratado, asì que se pueda asegurar mayor flexibilidad, según los diferentes modelos nacionales.

Finalmente, con respeto a la impugnación frente al Tribunal de Justicia de las medidas comunitarias que violan los intereses de las regiones, actualmente (y creo que todavía por mucho tiempo) a falta de una norma que iguale las regiones a los Estados, como actores privilegiados (art. 230, c. 2, Tratado CE), los jueces comunitarios han considerado las regiones igual que cualquier otro sujeto que recurre. Estas están legitimadas a recurrir sólo por lesiones directas de sus proprios intereses, y en presencia de las particulares condiciones de legitimación del Tratado, interpretadas restrinjidamente por el Tribunal de Justicia.

La situación actual - en mí opinión insatisfactoria - se puede sintéticamente reconocer en el caso Regione Sicilia c. Commissione europea, decidido por el Tribunal de Justicia con sent. 2 mayo 2006 (causa C-417/04 P). La Región de Sicilia había presentado recurso para la anulación de una decisión de la Comisión con la que se revocaba la financiación de una autopista en Sicilia, según el procedimiento previsto para los actores privilegiados, es decir los Estados. La Región se consideraba legitimada para reurrir directamente contra la Comisión, ya que "al ser un componente territorial de dicha República, tiene derecho a interponer, del mismo modo que ésta, un recurso de anulación contra la Decisión controvertida".

El Tribunal ha rechazado el argumento, invocando hasta la posible crisis del equilibrio institucional. Según su constante jurisprudencia - que no querido cambiar - "el recurso de una entidad regional o local no puede asimilarse al recurso de un Estado miembro, toda vez que el concepto de Estado miembro, a efectos del artículo 230 Tr. CE, párrafo segundo, únicamente va destinado a las autoridades gubernativas de los Estados miembros. Dicho concepto no puede ampliarse a los Gobiernos de regiones o entidades de ámbito inferior al Estado sin conculcar el equilibrio institucional previsto por el Tratado".

Para superar esta situación negativa, la más eficaz parece la solución italiana, donde una región puede pedirle al Gobierno que interponga recurso frente al Tribunal de Justicia por violación de las reglas del Tratado relativas a sus competencias. El Estado evalua discrecionalmente la petición, a no ser que ésta haya sido aprobada a mayoría absoluta de los miembros de la Conferenza unificada. En este caso, el Estado està obligado a presentar el recurso.

Finalmente, hay otras cuestiones menores a las que merece la pena hacer una rápida referencia. Por ejemplo el tema de las distintas oficinas que las regiones han abierto en Brusselas, aunque hoy, como hemos dicho, las Representanciones permanentes están abiertas a la contribución de las regiones. Estas oficinas regionales (en Bruselas hay más de 150) conllevan gastos considerables, desgregan la acción unitaria de los Estados y no aportan beneficios especiales a sus propias comunidades. Una vez que los procedimientos decisionales internos sobre cuestiones comunitarias hayan sido reformados para permitir una participación plena de las regiones y de los entes locales, ya desaparece la base nacional para una presencia autónoma de las regiones dentro de las instituciones comunitarias.

Retomando el Tratado de Lisboa, que se compone de dos partes (la primera, reforma el Tratado sobre la Unión europea, y la segunda se refiere al Tratado sobre el funcionamiento de la Unión europea), podemos ver que el nuevo artículo 2 del Tratado sobre la Unión europea incluye entre los objetivos de la Unión fomentar la "cohesión económica, social y territorial y la solidaridad entre los Estados miembros". Merece la pena subrayar la referencia a la cohesión territorial, que por primera vez aparece en los Tratados*.

El artículo 2 bis recupera la disposición del Tratado constitucional que afirmaba: «La Unión respetará la igualdad de los Estados miembros ante los Tratados, así como su identidad nacional, inherente a las estructuras fundamentales políticas y constitucionales de éstos, también en lo referente a la autonomía local y regional».

El artículo 3 ter, además de repetir que las competencias de la Unión son «de atribución», dispone que el ejercicio de aquellas competencias «se rige por los principios de subsidiariedad y proporcionalidad».

Exceptuando la referencia a la cohesión territorial*, son principios que ya están en los Tratados actuales. Sin embargo adquieren nueva importancia por el hecho de que han sido inseridos en el nuevo Tratado "general" - que representa la auténtica Constitución europea, aunque no se pueda utilizar esta palabra - y, en especial, en su parte inicial, dedicada a los principios fundamentales.

El Tratado sobre el funcionamiento de la Unión europea (TFUE) desarrolla estos principios generales. El artículo 2 C establece que la Unión dispondrá de competencia compartida con los Estados miembros, entre otras, para la cohesión económica, social y territorial. Conforme al artículo 2 E, la Unión tiene una competencia menor (precisamente para «apoyar, coordinar o complementar la acción de los Estados miembros») acerca de la cooperación administrativa.

El Título del Tratado dedicado a la cohesión (el decimoséptimo), no conlleva novedades relevantes; lo mismo se puede decir con respeto al Protocolo sobre la aplicación de los principios de subsidiariedad y proporcionalidad. De todos modos, merece la pena resaltar que el Protocolo corrobora de una manera definitiva que la subsidiariedad es un principio jurídico, y no solamente institucional. Y que, consecuentemente, el Tribunal de Justicia puede pronunciarse a peticion un Estado miembro o el Comité de las Regiones (a determinadas condiciones).

Hablando del Comité de las Regiones, por cierto, la Convención europea del 2003 y la más reciente Conferencia Intergubernamental no han aceptado las propuestas más novedosas, para realizar una especie de Bundesrat europeo que se sumase al Parlamento europeo en calidad de "Camera alta", con representación indirecta.

Las novedades del Tratado de Lisboa no tienen pues especial importancia. No obstante, sería limitado y considerar el papel europeo de los entes locales y de las regiones teniendo en cuenta solo el derecho primario, el derecho de los Tratados. Hay sin embargo que considerar el proceso diario marcado por los reglamentos y las directivas, por la jurisprudencia del Tribunal de Justícia, por la realización de una administración integrada o conjunta, a la que se le llama "co-administración". En este sentido mas amplio, el avance ha sido notable y se fortalecerá en el futuro. consideren el papel cada vez más importante de la Unión para coordinar las administraciones públicas nacionales y para realizar el Método abierto de coordinación, al principio previsto en el 2000 como forma de "comunitarización" suave (soft) de la cuestión administrativa.

8. Para terminar, como efecto de la afirmación del "regionalismo comunitario", por una parte, y del desarrollo de las autonomías regionales y locales en todos los Estados miembros por otra, las regiones no están ya en la posición de "marginalidad institucional" inicial, sino que han asumido la función de "interlocutor directo" de la Comunidad europea para la elaboración y la actuación de las políticas comunitarias.

Se trata de un desarrollo inherente a los caracteres del proceso de integración europea, por tres motivos principales. Primero: los Estados miembros tienen relevancia en el ordinamiento europeo en el conjunto del proprio sistema constitucional, y no sólo como entidades jurídicas separadas. Como decimos en Italia, éstos se consideran Estado-ordinamiento y no como Estado-persona jurídica. Segundo: las regiones y los entes locales operan en las materias comunitarias según la normativa europea. Y, en el resto de sus actividades, deben garantizar el respeto de los principios fundamentales de la Unión (al menos como expresión del principio de leal colaboración, art.10T CE). En tercer lugar, regiones y entes locales son una parte fundamental de la administración pública, que - como afirma el art. III-285 del Tratado constitucional - es "cuestión de interés común". Sobre este punto el Tratado constitucional confirma el principio jurídico ya existente hoy, por medio del cual la actuación efectiva del derecho de la Unión por parte de los Estados miembros es esencial para el buen funcionamiento de la Unión, y se considera una cuestión de interés común. El no haber entrado en vigor el Tratado constitucional por lo tanto no hace entrar en crisis el principio, que ya existe hoy.

A pesar de todos los progresos descritos, en el derecho europeo la cuestión regional está todavía lejos de ser ordenada definitivamente. De hecho son todavía evidentes los equívocos de la sobrenacionalidad y del principio malentendido de autonomía institucional de los Estados miembros. La situación no puede considerarse definitiva nisiquiera en los ordinamientos nacionales, aunque en los últimos años se han extendido significativamente los principios autonomistas también en referencia con Europa.

Estoy seguro que nuestro Congreso contribuirá a definir las ulteriores medidas jurídicas necesarias y a aumentar la sensibilidad institucional hacia este tema para el futuro de la Europa de los pueblos.

La Corte costituzionale e il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: verso il concerto costituzionale europeo

MARIO P. CHITI

Sommario:  1.  La Corte affronta le maggiori questioni di diritto metastatuale.  2. La “svolta” del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.  3.  L’impostazione della questione in termini nazionali e non comunitari. Critica.  4.  I limiti della “svolta” in riferimento ai giudizi di costituzionalità in via incidentale.  5.  Gli inevitabili ulteriori passi e la realizzazione della “rete europea di costituzionalità”.

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Diritto Amministrativo Europeo - Milano, Giuffrè, terza edizione, 2008

MARIO P. CHITI

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PRESENTAZIONE DELLA TERZA EDIZIONE

Il periodo intercorso dalla precedente edizione è contrassegnato dalla difficile evoluzione dell'Unione europea e dallo sviluppo delle problematiche oggetto del libro, nella normazione, nella giurisprudenza e nella scienza giuridica.

Il cammino dell'integrazione europea è stato rallentato dalle note vicende che hanno portato all'"abbandono'' del Trattato costituzionale ed alla successiva approvazione del Trattato di Lisbona; di cui peraltro, allo stato, è incerta l'entrata in vigore. Quasi per contrappeso, come già avvenuto in passato, ha ripreso lena l'integrazione tramite l'amministrazione ed il suo diritto. La giurisprudenza comunitaria è nuovamente vivace ed originale, tanto su questioni settoriali quanto su temi generali e di principio. Con le debite differenze, l'attuale situazione sembra nuovamente valorizzare il metodo di approccio funzionale ed "amministrativo'' del primo decennio di integrazione europea.

La scienza giuridica sta dando un sostanzioso contributo all'evoluzione ora indicata, con una non casuale "scoperta'' in tutti gli Stati membri dei temi solitamente riassunti con l'espressione diritto amministrativo europeo. Sono ormai diffusi manuali e trattati organici sulla materia, nuove riviste specializzate hanno visto la luce ed innumerevoli sono le monografie e gli studi caratterizzati in senso europeo. Un decennio or sono, nella presentazione della prima edizione di questo volume si dava conto - in riferimento alla situazione dell'epoca - che i temi trattati erano ancora assai controversi; addirittura contestati da una parte non irrilevante degli studiosi. La situazione è oggi del tutto diversa, con legittima soddisfazione di chi a ciò ha contribuito.

L'impianto del libro è, nell'insieme, invariato nell'attesa dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona; da cui discenderanno generali e sostanziose innovazioni, avendo tale Trattato ripreso gran parte delle originali soluzioni del Trattato costituzionale del 2004. Tuttavia, oltre alla necessaria integrazione del testo con le tante questioni sviluppatesi nel recente periodo, si è proseguito con il rafforzamento dell'analisi dei profili del diritto nazionale influenzati dal diritto europeo (ed in taluni casi su questi influenti); a mò di bilanciamento dell'iniziale approccio privilegiato ai temi prettamente europei, all'epoca assai poco noti e studiati. Si è cercato, inoltre, di elaborare le fondamenta del nuovo diritto amministrativo comune che corrisponde all'avvenuta integrazione degli ordinamenti giuridici. Al momento, tale ricostruzione è appena embrionale; ma i molti studi che in tutta Europa vi si stanno dedicando favoriscono un fruttifero sviluppo.

Ho avuto modo di trattare e discutere gli argomenti esaminati nel libro in molte sedi scientifiche europee ed internazionali, verificando ovunque uno straordinario interesse e la presenza di una nuova generazione di studiosi irreversibilmente "europeizzati''. Sono debitore ad essi ed ai Colleghi - tanti da non poter essere ricordati singolarmente - di critiche costruttive e stimoli nuovi.

Gli apparati finali sono dovuti anche in questa edizione a Sebastiano Faro, ricercatore dell'ITTIG del CNR, cui rinnovo la mia gratitudine.

Montopoli Val d'Arno, estate 2008

La Corte costituzionale e il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: verso il concerto costituzionale europeo

MARIO P. CHITI
Sommario:  1.  La Corte affronta le maggiori questioni di diritto metastatuale.  2.  La “svolta” del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.  3.  L’impostazione della questione in termini nazionali e non comunitari. Critica.  4.  I limiti della “svolta” in riferimento ai giudizi di costituzionalità in via incidentale.  5.  Gli inevitabili ulteriori passi e la realizzazione della “rete europea di costituzionalità”.

1.  In un breve volgere di tempo la Corte costituzionale ha affrontato due temi cruciali nei rapporti tra diritto nazionale e diritto metastatuale: il rilievo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), trattato nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007; l’utilizzabilità della procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, trattato nell’ordinanza n. 103/2008. Finalmente, si potrebbe dire; dato che sono occorsi più di cinquanta anni per avere una chiara posizione della Corte (per quanto non ancora definitiva e “ponte” per ulteriori sviluppi), quando da tempo altre corti costituzionali di Stati membri avevano utilizzato la procedura del rinvio pregiudiziale ed accettato appieno il “dialogo” con la Corte di giustizia e la Corte dei diritti dell’uomo, scoprendone i molti pregi e l’opportunità per una nuova legittimazione domestica. Così come nel nostro ordinamento avevano fatto, ormai da qualche tempo, Cassazione e Consiglio di Stato; con i medesimi risultati positivi.
Ambedue le conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale hanno ricevuto grande attenzione, non solo nel mondo giuridico. In effetti, per quanto la Costituzione italiana sia connotata “dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne” (così la citata sentenza n. 349/2007, passo n. 6.2.), la Corte aveva evitato di assumere posizioni di principio tanto sulla Convenzione promossa dal Consiglio d’Europa, quanto  per la più “semplice” questione di diritto comunitario relativa al rinvio pregiudiziale.
Per la CEDU, la Corte si trovava ad esaminare un atto internazionale del tutto atipico: per il suo oggetto prettamente costituzionale; per il rilievo giuridico non solo nel sistema del Consiglio d’Europa, ma parzialmente anche nell’ordinamento comunitario, attraverso i numerosi richiami alla CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo a partire dal Trattato UE del 1992; per l’incidenza diretta su tematiche nazionali assai controverse (come la durata dei processi e la disciplina delle espropriazioni); per l’attivismo dei giudici nazionali, che aveva condotto in vari casi ad affermare financo la portata disapplicatoria della CEDU rispetto alle configgenti disposizioni nazionali.
Per le grandi questioni comunitarie tuttora aperte, sulla Corte pesava negativamente il retaggio dell’iniziale scontro con la Corte di giustizia sulla portata del primato del diritto comunitario; risoltosi a favore dei giudici di Lussemburgo, come naturale dato il particolare contesto ordinamentale del dibattito. La ritrosia della Corte costituzionale non è venuta meno neanche dopo la riforma dell’art. 117, comma primo, della Costituzione, che pure ha segnato un formale spartiacque rispetto alla precedente disciplina costituzionale; ove l’intera costruzione dell’integrazione europea era stata basata, in modo consapevolmente forzato, sull’art. 11 Cost.
Le conclusioni raggiunte dalla Corte sulla CEDU, con le citate sentenze nn. 348 e 349/2007, non sono l’oggetto delle presenti notazioni; ma meritano una valutazione congiunta con la decisione della Corte di accettare il ruolo di “giurisdizione di ultima istanza”, ai sensi delle disposizioni del Trattato CE sulla procedura di rinvio pregiudiziale. Infatti, nei due casi la Corte ha inteso porsi a presidio finale del rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana; rimarcando tanto le sue caratteristiche ordinamentali nazionali, quanto la sua collocazione nella rete costituzionale che consegue all’affermazione del diritto comunitario e del Consiglio d’Europa.
Questo è palese relativamente alla CEDU, per cui, malgrado le molte peculiarità, la Corte rimane competente, ove sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto insanabile con una norma della CEDU, “per accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana” (così, sent. n. 349/2007, cit., punto 7.1.). In termini ancora più netti, la posizione di centralità della Corte è stata ribadita nella successiva sentenza n. 129/2008, smentendo innovative posizioni raggiunte dalla Cassazione in tema di revisione del principio di intangibilità del giudicato.
Ma lo stesso può affermarsi anche – nello scenario giuridico comunitario – per l’accettazione della posizione di “giurisdizione di ultima istanza”. Infatti, lungi dal rappresentare uno svilimento del ruolo della Corte, equiparato funzionalmente e organizzativamente a quello delle giurisdizioni superiori, l’apertura al dialogo con la Corte di giustizia esprime la volontà della Corte – oltre che di (ri)prendere parte, nell’ordinamento europeo, alla costruzione dei principi generali, con speciale riferimento ai principi di carattere costituzionale –  di non farsi accantonare dai giudici comuni per la sempre più diffusa disapplicazione diretta delle norme italiane contrastanti con il diritto comunitario.
L’ordinanza che si commenta esprime, sul versante europeo, la volontà della Corte di partecipare all’incipiente “rete di costituzionalità”, formata dalle corti costituzionali nazionali, con al centro la Corte di giustizia e l’apporto “esterno” della Corte di Strasburgo. Sul versante nazionale, la reazione della Corte al rischio – attualissimo e sempre più rilevante per l’espandersi, in vari modi, delle competenze comunitarie – della sua emarginazione a seguito della crisi, nel cruciale settore del diritto a rilevanza comunitaria, del monopolio del giudizio sulle leggi.
Si tratta dunque di una decisione significativa, che rileva sia da un punto di vista dell’assetto istituzionale interno, sia da quello dell’ordinamento europeo; ove lo sviluppo era atteso e necessario.
L’ordinanza è peraltro “timida”, in quanto espressamente riferita al solo
caso dei giudizi di costituzionalità in via principale. Laddove gran parte delle questioni di carattere europeo sono sollevate nei giudizi in via incidentale, sui quali anche la Corte costituzionale potrebbe incidere positivamente nella definizione della “pregiudiziale comunitaria” , ove accettasse che le ragioni sottostanti al rinvio pregiudiziale nei giudizi di costituzionalità in via principale si ritrovano sostanzialmente anche nei giudizi in via incidentale.
Ma è da presumere che – rotto il primo argine - si giunga presto a generalizzare l’utilizzo della procedura di rinvio pregiudiziale a tutti i giudizi di costituzionalità, ove rilevino questioni di interpretazione del diritto comunitario.
 
2.  L’ordinanza n. 103/2008 trae origine dal giudizio di legittimità costituzionale di alcune norme della legge reg. Sardegna n. 4/2006, come modificate dalla legge reg. Sardegna n. 2/2007, sulla c.d. “tassa sul lusso”, promosso in via principale con ricorso del Governo.
Una parte delle contestazioni vertevano su questioni di costituzionalità puramente interne, e quindi sono state oggetto della sentenza n. 102/2008, depositata contestualmente all’ordinanza in esame. Altre contestazioni avevano invece riguardo alla rilevanza ed all’applicabilità di norme, primarie e derivate, di diritto comunitario; sulla cui interpretazione, secondo la Corte costituzionale, sussistevano dubbi. Sì da rendere necessario procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 234 (già art. 177) Trattato CE. Infatti, come sottolineato dalla Corte, per tali aspetti “la legittimità costituzionale della norma censurata non può essere scrutinata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., senza che si proceda alla valutazione della sua conformità al diritto comunitario”.
Giunta dunque alla decisione sulla rinviabilità o meno ai giudici di Lussemburgo della questione, tramite la procedura di rinvio pregiudiziale, la Corte ha per la prima volta deciso in senso positivo.
I passaggi principali della motivazione sono i seguenti: a) la Corte ha una “peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno”; b) malgrado ciò, “costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, Trattato CE; c) in particolare, nei giudizi promossi in via principale, la Corte “costituisce una giurisdizione di unica istanza, in quanto contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione (…) ed è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia”; d) se “nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non fosse possibile effettuare il rinvio pregiudiziale risulterebbe leso il generale interesse all’uniforme applicazione del diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE”; e) diverso è il caso dei giudizi promossi in via incidentale, per cui rimane ferma la posizione che la Corte non può essere investita della questione del contrasto tra norme nazionali e norme comunitarie, quando sia possibile una diretta soluzione da parte del giudice comune (tra le tante, sent. n. 284/2007).
I precedenti della Corte erano negativi. Non fa testo, in senso diverso, il passaggio (davvero un obiter dictum) della sentenza n. 168/1991 secondo cui, ferma restando la possibilità di interpretare direttamente la normativa comunitaria, la Corte avrebbe “la facoltà di sollevare anch’essa questione pregiudiziale di interpretazione”. Infatti, l’affermazione non è motivata ed è stata enunciata in via astratta, trovando il caso allora in esame una diretta soluzione senza necessità di utilizzare la procedura del rinvio.
La posizione costante della Corte, sino alla svolta del 2008, è risultata quella scaturente dalla risalente sentenza n. 13/1960, dalla sentenza n. 206/1972 e dall’ordinanza n. 536/1995: la Corte costituzionale non configura una “giurisdizione nazionale” secondo l’art. 234 del Trattato CE, in quanto “esercita essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia dell’osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle regioni”. Le sue funzioni sono assai diverse da quelle degli organi giudiziari, anzi “sono senza precedenti nell’ordinamento italiano” e inconciliabili con i compiti “ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali”.
Eppure vi erano da tempo le premesse per l’utilizzabilità della procedura di rinvio pregiudiziale da parte della Corte costituzionale, almeno nel caso dei giudizi di legittimità costituzionale in via principale. In varie sentenze si è sottolineato che in tali giudizi non vi è un giudice che, statuendo sul rapporto, dichiari la disapplicazione/non applicabilità delle norme interne rilevanti. L’esigenza di depurare l’ordinamento nazionale da norme incompatibili con quelle comunitarie non trova pertanto ostacoli, e la Corte ha il compito di salvaguardare con proprie decisioni il valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa di fronte ad ipotesi di contrasti di una norma interna con una comunitaria.  
 
3.  E’ di solare evidenza che, con la posizione mantenuta sino all’ordinanza in commento, la Corte costituzionale ha “nazionalizzato” una questione che è, invece, di natura prettamente comunitaria.
La determinazione sull’ambito soggettivo della nozione di “giurisdizione nazionale” non dipende infatti dagli assetti costituzionali degli Stati membri, ma dalle norme comunitarie. La Corte di giustizia ha da sempre affermato il principio che la valutazione sulle caratteristiche di un organo quale “giudice”, ai sensi dell’art. 234 Trattato CE, costituisce “questione unicamente di diritto comunitario” (tra le molte, sentenza 2.3.1999, C-416/96 e sentenza 17.9.1999, C-54/96).
In generale, per la Corte di giustizia nel sistema dell’art. 234 Trattato CE il giudice nazionale “adempie, in collaborazione con la Corte, una funzione che  gli è attribuita onde garantire la corretta applicazione del diritto comunitario nell’ambito della sua competenza. Pertanto, i problemi che possono derivare dall’esercizio del suo potere di valutazione, nonché i rapporti che esso ha con la Corte, sono unicamente disciplinati dal diritto comunitario” (sentenza 16.12.1981, causa 244/80).
L’individuazione degli organi da riconoscere quali “giudici nazionali” ai sensi dell’art. 234 Trattato CE è stata oggetto di ampia giurisprudenza della Corte di giustizia, da tempo stabilizzatasi sui seguenti indici: origine legale dell’organo, carattere permanente dell’organo, obbligatorietà della sua giurisdizione, natura contraddittoria del procedimento ivi applicabile.
E’ pertanto pacifico che nella prospettiva comunitaria – si ripete, l’unica rilevante ai fini del procedimento di rinvio in esame – la Corte costituzionale sia “giudice nazionale”. La Corte è altresì “giudice di ultima istanza” nei procedimenti di ricorso diretto (Stato/regioni e viceversa) e nei procedimenti per conflitto di poteri. Come tale, la Corte ha l’obbligo, e non solo il potere, di rinviare in via pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del diritto comunitario applicabile.
Il mancato rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di ultima istanza è sanzionato quale illecito extracontrattuale dello Stato membro per violazione manifesta del diritto comunitario.
La responsabilità dello Stato per la violazione del diritto comunitario è stata inizialmente affermata dalla Corte di giustizia per la condotte delle pubbliche amministrazioni e del legislatore; ma poi, inevitabilmente, estesa anche ai giudici. Al rispetto del diritto comunitario sono infatti tenuti tutti gli organi dello Stato (da intendere, naturalmente, non solo come Stato-persona), ivi compreso il potere giudiziario, nell’espletamento dei loro compiti. Come efficacemente sintetizzato nella sentenza Koebler (30.9.2003, C-224/01), “in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro”.
Tale conclusione non può non valere anche per la Corte costituzionale, sia perché – nella prospettiva comunitaria, l’unica qua rilevante – essa è organo giurisdizionale, e di ultimo grado; ma anche perché è decisiva la funzione esercitata, certamente giurisdizionale in quanto o decide direttamente (nei ricorsi diretti) o contribuisce alla decisione del giudice comune (nei casi incidentali). Pur non sottovalutando che per configurabilità della responsabilità per la Corte costituzionale vale ancor di più il limite della “specificità della funzione giurisdizionale” (sentenza 13.6.2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo) e della difficoltà di configurare nelle sue sentenze una “violazione manifesta del diritto comunitario” (se non appunto per il mancato esercizio del rinvio pregiudiziale).
Si deve aggiungere che il mancato utilizzo della procedura di rinvio pregiudiziale da parte della Corte costituzionale poteva portare – e così effettivamente è avvenuto in almeno un caso (relativo ai c.d. diritti di visita, di cui ai regg. CE nn. 804 e 805/1968, colto dalla sentenza della Corte cost. n. 163/1977)  – a conclusioni basate su un’interpretazione del diritto comunitario  poi smentita dalla Corte di giustizia. Con grave pregiudizio tanto per il principio di certezza giuridica, quanto dell’autorevolezza della nostra Corte.
 
4.  La posizione seguita dalla Corte costituzionale sino all’ordinanza n. 103/2008 era criticabile pure dal punto di vista “interno”, in quanto generalizzava la specialità del ruolo di supremo garante della Costituzione, lasciando in ombra il ruolo direttamente giudicante in alcuni procedimenti nella sua competenza, come appunto i giudizi in via principale ed i giudizi di ammissibilità dei referendum (analogamente vale, in principio, per i conflitti di attribuzione; ma è difficile in tali casi ipotizzare una questione di diritto europeo).  
In ogni caso, garantire la Costituzione significa anche garantire i principi e le norme che sono entrate nel nostro ordinamento costituzionale attraverso i procedimenti dell’integrazione europea previsti dai Trattati, costituzionalmente compatibili in virtù dell’art. 11 Cost., prima; e del novellato art. 117, primo comma, Cost., poi.
A fronte del più ampio ruolo di garanzia di costituzionalità che è proprio della Corte a seguito dell’integrazione europea, mutano le tecniche procedurali. In particolare, le questioni di interpretazione del diritto comunitario vanno rimesse alla Corte di giustizia; e per le questioni relative alla CEDU occorre tener conto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, unico suo interprete “per garantire l’applicazione del livello uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri” (sent. n. 349/2007, cit.).
Anche nei procedimenti di legittimità costituzionale promossi in via incidentale, la Corte deve accettare la possibilità – qua certamente non l’obbligo, atteso che non si tratta di giudizio di ultima istanza; ma, appunto, incidentale – di rinviare alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del diritto comunitario applicabile. Infatti, se nell’eccezione di incostituzionalità rileva un profilo comunitario, la Corte può decidere o di lasciare al giudice della fattispecie anche l’interpretazione delle norme comunitarie applicabili (come finora ha sempre fatto, e come indica l’ordinanza n. 103/2008 intenderebbe ancora seguire), oppure contribuire a definire il completo parametro della fattispecie anche nei suoi profili comunitari, con il rinvio pregiudiziale.
Non convince la tradizionale posizione – per ora ribadita dalla Corte anche nell’ordinanza in commento – secondo cui spetta unicamente al giudice rimettente di farsi carico di adire la Corte di giustizia “per provocare quell’interpretazione certa e affidabile che assicuri l’effettiva ( e non più ipotetica e comunque precaria) rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale circa una disposizione interna che, nel raffronto con un parametro di costituzionalità risenta, direttamente o indirettamente, della portata del diritto comunitario” (ord. n. 536/1995, secondo un orientamento costante).
Infatti, in tal modo si contribuisce alla frantumazione dell’interpretazione su temi a rilevanza costituzionale; nella prospettiva comunitaria, non si esercita appropriatamente il ruolo di leale collaborazione con le istituzioni comunitarie; si mette a rischio l’effetto utile del diritto comunitario.
Con il rinvio pregiudiziale da parte della Corte costituzionale si determina anche nel giudizio costituzionale a quo una “pregiudiziale comunitaria”, come nei casi di rinvio da parte dei giudici comuni (cfr. ord. n. 249/2001).
Va peraltro sottolineato che la proposta di ampliare l’ambito del procedimento di rinvio pregiudiziale anche ai giudizi di costituzionalità in via incidentale soddisfa certamente il palato del giurista, meglio se il palato è euro-sensibile; ma, se attuata, comporterebbe complicanze processuali così rilevanti da mettere a rischio il principio di effettività della tutela, principio del sistema comunitario (e della CEDU) e profilo essenziale del diritto costituzionale al giusto processo (art. 111 Cost.).
Basti considerare che il giudizio di costituzionalità promosso in via incidentale rappresenta oggi una pausa media di non meno di diciotto mesi nel giudizio principale; cui, a seguito del rinvio al giudice di Lussemburgo, si aggiungerebbe un’ulteriore pausa che, allo stato, ha la stessa durata media. Con effetti prevedibilmente disastrosi per alcune delle parti processuali e, più in generale, per la buona amministrazione della giustizia.
Si tratta comunque di una questione che può essere risolta con accorgimenti organizzativi, che non dovrebbero richiedere una modifica delle norme processuali delle due Corti. Per quanto riguarda la Corte costituzionale, basta prevedere, anche per decisione organizzativa del Presidente, un’immediata verifica dei caratteri della questione di costituzionalità; ed una conseguente procedura accelerata per il rinvio più rapido possibile alla Corte di giustizia. Per quest’ultima, visto il carattere costituzionale, “alto”, che presumibilmente avranno i rinvii  decisi dalla Corte costituzionale (e dagli equivalenti organismi degli altri Stati membri), si può pure pensare ad una corsia preferenziale rispetto agli altri rinvii. Così almeno da annullare il raddoppio del termine di sospensione del giudizio principale, altrimenti inevitabile. Né questa procedura speciale dovrebbe apparire penalizzante rispetto agli altri rinvii pregiudiziali, atteso il già richiamato carattere costituzionale delle questioni sollevate e il numero prevedibilmente limitato di tal tipo di rinvii.
 
5.  La ricollocazione della Corte costituzionale nel quadro delle procedure di elaborazione dei principi costituzionali europei e della loro attuazione nei giudizi nazionali è per il momento limitata, come detto, ai soli giudizi di costituzionalità in via principale. Se, augurabilmente, si estenderà presto ai giudizi in via incidentale per i buoni motivi sopra esposti, si determinerà il benefico riequilibro della rottura del principio del monopolio della legittimità delle leggi, conseguente al potere/dovere di ogni giudice di non applicare il diritto nazionale contrastante con il diritto comunitario.  
L’attuale situazione di sindacato diffuso della legittimità comunitaria – qua esaminato in riferimento ai giudici, ma che nella sua effettiva portata va considerato anche rispetto al ben più diffuso e capillare sindacato da parte delle amministrazioni pubbliche – ha portato a situazioni di grande incertezza, segnate da un’applicazione/disapplicazione a macchia di leopardo. Il contrario della certezza giuridica e dei connessi principi di stabilità giuridica, cui ovvia solo in circostanze particolari l’abrogazione espressa delle norme in questione.
Il ruolo dei giudici ordinari a fronte del diritto comunitario non è posto in discussione dagli sviluppi qua esaminati, essendo acquisizione ineluttabile una volta che nel quadro del diritto comunitario risultano “giudici comuni di diritto europeo”. Ma, nei profili di costituzionalità a rilevanza comunitaria, al loro ruolo diretto si aggiunge ora quello della Corte, che può per la sua parte contribuire ad una più competa configurazione dei profili costituzionali rilevanti.
Conclusivamente, la decisione in esame della Corte costituzionale per il rinvio in via pregiudiziale alla Corte di giustizia su una questione di interpretazione del diritto comunitario era attesa per concomitanti ragioni: perché “tecnicamente” inevitabile, visti i caratteri della procedura di cui all’art. 234 Trattato CE e di alcuni dei giudizi di legittimità costituzionale; perché da tempo gli altri giudici nazionali “di ultima istanza” avevano accettato la medesima procedura, con effetti positivi; infine, perché in tal modo la Corte ha evitato la marginalizzazione del proprio ruolo quale giudice delle “sole” cause interne, a fronte di uno scenario costituzionale ineluttabilmente europeizzatosi.
Il tempo dirà se la procedura di rinvio pregiudiziale avrà per la Corte costituzionale gli stessi effetti positivi che si sono determinati per la Cassazione ed il Consiglio di Stato, nelle loro sfere. Va comunque salutato con favore la rottura di un blocco durato ingiustamente per oltre cinquanta anni.
Al di là della questione esaminata, il cammino costituzionale della Corte di giustizia è comunque ancora incompiuto sulla cruciale questione del rapporto tra ordinamento nazionale e ordinamento europeo; e della conseguente rilevanza del diritto comunitario quale parametro di costituzionalità.
La Corte di giustizia ha affermato sin dalle sue prime sentenze il carattere monistico dell’ordinamento nazionale-europeo, frutto del processo di integrazione. La nostra Corte costituzione, al contrario, ha mantenuto una lettura “dualistica”, pur accettando nella sostanza i maggiori esiti della giurisprudenza comunitaria. Le differenze tra le due impostazioni rilevano, oltre che per la questione oggetto delle presenti note, specialmente per la qualificazione delle norme interne che contrastano con il diritto comunitario. Al riguardo, la nozione comunitaria di “disapplicabilità” è ben più forte di quella, prevalente nella giurisprudenza costituzionale, di “non applicabilità”: la prima implica una forma di invalidità della norma; la seconda solo una questione di interpretazione circa la norma applicabile.
Le resistenze della Corte costituzionale potevano forse giustificarsi sino a quando nel nostro ordinamento perdurava l’assenza di un “articolo comunitario” che, sulla falsariga di quanto avvenuto negli altri principali ordinamenti nazionali, precisasse il tipo di integrazione giuridica. Ma, con la riforma nel 2001 all’art. 117 Cost. il problema è risolto, ancorché prendendo spunto dal tema delle autonomie, anziché dai principi generali. Aperture nella giurisprudenza costituzionale sono ravvisabili, con l’utilizzo del solo art. 117 Cost. quale parametro di costituzionalità; ma in punto di principio non vi sono novità.
Circa la rilevanza del diritto comunitario quale parametro del giudizio di costituzionalità, la Corte rimane ferma sulla posizione – senza riscontro negli altri Strati membri – delle norme comunitarie come “norme interposte”, atte ad integrare il parametro di conformità costituzionale per la normativa statale e regionale. Ma non è chi non veda che la nozione di “norma interposta” implica una posizione subcostituzionale delle norme comunitarie, con buona pace del principio di primato del diritto comunitario e dei correlati principi sui rapporti tra norme comunitarie e norme nazionali. Anche in scarsa coerenza con quanto la Corte stessa ha affermato nella citata sentenza n. 349/2007, punto 6.2., sulla rilevanza del nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. che “ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei principi che espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”.
Si tratta, è vero, di una questione di principio priva di particolari conseguenze negative per le parti interessate, dato che, “norma interposta” o meno, “il mancato rispetto delle fonti comunitarie rilevanti determina l’illegittimità costituzionale” delle norme oggetto del giudizio di costituzionalità (sent. n. 129/2006). Ma che esprimono una perdurante ritrosia della Corte, priva di giustificazione.
In ogni caso, con il riconoscimento del ruolo della Corte di Strasburgo per l’interpretazione della CEDU e con l’avvio della procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo per le questioni di interpretazione del diritto comunitario, la Corte ha riavviato il suo cammino comunitario e sostanzialmente accettato il processo di federalizzazione della giustizia costituzionale nell’Unione europea, che non potrà che concludersi con l’affermazione della Corte di giustizia quale Corte costituzionale federale.

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[1] Le occasioni delle citate sentenze nn. 348 e 349/2007  erano l’indennità di esproprio e il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva. La questione della rilevanza della CEDU è stata poi ripresa nelle sentenze n. 39/2008, in tema di disciplina del fallimento, e n. 129/2008, in tema di revisione dei processi penali passati in giudicato.
[2] Tra i molti commenti già apparsi, cfr. in questa Rivista, 2008: B. Randazzo, Costituzione e CEDU: il giudice delle leggi apre una “finestra” su Strasburgo, 25 segg.; V. Mazzerelli, Corte costituzionale e indennità di esproprio: serio risotoro e proporzionalità dell’azione amministrativa, 32 segg.; M. Pacini, Corte costituzionale ed occupazione acquisitiva: un adeguamento soltanto parziale alla giurisprudenza CEDU, 37 segg. Cfr. anche l’articolata analisi di M. Savino, Il cammino costituzionale della Corte costituzionale dopo le sentenze n. 348 e 349 del 2007, in Riv. ut. Dir. pubbl. com. 2008, in corso di pubblicazione sul n. 3.
[3] Come Cassazione, I Sez. pen., n. 2432/2006.
[4] Si parla giustamente di effetto di auto-emarginazione dal dialogo giurisprudenziale europeo: G. Zagrebelsky, Corti europee e corti nazionali, in S. Panunzio (a cura di), I costituzionalisti e l’Europa, Milano, 2003, 539 segg. Non si tratta peraltro di effetto ineluttabile, come dimostra il successo di alcune posizioni sostenute dalla Corte, quando lo ha voluto; come  la teoria dei contro-limiti, collegati al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili della persona. La teoria dei contro-limiti è non per caso ripresa anche da altre giurisdizioni costituzionali (sulla questione: A. Celotto-T. Groppi, Diritto UE e diritto nazionale: primautè v. controlimiti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 1309).
[5] La vicenda è riassunta da M. Cartabia, La Corte costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 99 segg.
[6] Così, nella sentenza n. 384/1994.
[7] Cfr. anche la sentenza n. 94/1995.
[8] Per una sintesi: L. Raimondi, La nozione di giurisdizione nazionale ex art. 234 TCE alla luce della recente giurisprudenza comunitaria, in Dir. UE, 2006, 369; D. Basile, La nozione di “giurisdizione nazionale”nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Foro amm., Cons. St., 2006, 696.
[9] Pertanto, N. Bassi (Ancora sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e sulla nozione di “giudice nazionale”: è il momento della Corte costituzionale?, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 155) poneva correttamente il problema ora risolto positivamente. La questione è stata ampiamente trattata dalla dottrina, con netta prevalenza dei fautori della tesi della Corte quale giudice nazionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 234 Trattato CE: tra i tanti, E. Cannizzaro, La  Corte costituzionale come giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 177 del Trattato CE, in Riv. dir. int., 1996, 452; F. Salmoni, La Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee, in Dir. pubbl., 2002, 491; G. Gaja, La Corte costituzionale di fronte al diritto comunitario, in L. Daniele, a cura di, La dimensione internazionale ed europea del diritto nell’esperienza della Corte costituzionale, Napoli, 2006, 255, 277; S.M. Carbone, Corte costituzionale, pregiudiziale comunitaria e uniforme applicazione del diritto comunitario, in Dir. UE, 2007, 707.
[10] Il punto era già stato chiarito da F. Sorrentino sin dal 1971 (cfr. il suo Corte costituzionale e Corte di giustizia delle Comunità europee, Giuffrè, Milano, 1971, spec. 148 e segg.).
[11] Cfr. ad es. l’ord. n. 319/1996: “l’esame delle prospettate questioni di costituzionalità, essendo queste fondate sull’interpretazione delle citate direttive, esige che il contenuto delle norme espresse dalle disposizioni comunitarie sia compiutamente e definitivamente individuato secondo le regole all’uopo dettate da quell’ordinamento. Spetta ai giudici rimettenti di adire previamente la Corte di giustizia”.
[12] Lo era nel 1973 quando P. Barile pubblicò un noto saggio (Il cammino comunitario della Corte, in Giur. Cost., 1973, 2406 segg.). A distanza di molti decenni ci si può chiedere se la Corte non sia oltre i limiti di normale tollerabilità nei rispetti degli impegni comunitaria; pur scontando la posizione particolarissima della Corte nel quadro degli organi dello Stato.
[13] La tesi è largamente condivisa. Cfr. di recente R. Chiappa, Nuove prospettive per il controllo di compatibilità comunitaria da parte della Corte costituzionale, in Dir. UE, 2007, 493.
[14] La soluzione in linea di principio trova peraltro nell’attuazione giurisprudenziale ostacoli e interpretazioni riduttive. Per un quadro del dibattito: C. Panara, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario cinque anni dopo: quid novi?, in Quad. cost., 2006, 796; C. Napoli, La Corte dinanzi ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, tra applicazione dell’art. 117, primo comma, e rispetto dei poteri interpretativi della Corte di giustizia, in Le regioni, 2006, 2213.
[15] Ad esempio nella sentenza n. 406/2005.
[16] Già opinabile per la sua eterogeneità, posta in luce da M. Siclari, Le norme interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992.
[17] Cfr. A. Celotto, La Corte costituzionale finalmente applica il primo comma dell’art. 117 Cost., in Giur. it., 2006, 1123
[18] L’espressione era stata usata già da S.M. Carbone e F. Sorrentino, Corte di giustizia o corte federale delle Comunità europee?, in Giur. cost., 1978, 654.

Verso l’implosione dei riti speciali e delle forme di tutela differenziata?

È dal 1999 che non si tiene un convegno di studi di ampio respiro sul tema dei riti speciali nel processo amministrativo e nelle altre procedure pubblicistiche; precisamente, dall’incontro di studi in Consiglio di Stato, ove furono analizzate – già allora criticamente – le molte procedure speciali emerse nel recente periodo.

Va dunque espresso vivo plauso ai colleghi della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro che hanno avvertito la necessità di riprendere l’esame del tema, in questo caso esteso pressoché a tutti i riti speciali pubblicistici, con l’apporto di alcuni tra i nostri maggiori giuristi e di qualificati specialisti dell’argomento.

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