La Corte costituzionale e il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: verso il concerto costituzionale europeo
/MARIO P. CHITI
Sommario: 1.
La Corte affronta le maggiori questioni di diritto metastatuale. 2.
La “svolta” del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. 3.
L’impostazione della questione in termini nazionali e non comunitari.
Critica. 4. I limiti della “svolta” in riferimento ai giudizi di
costituzionalità in via incidentale. 5. Gli inevitabili ulteriori
passi e la realizzazione della “rete europea di costituzionalità”.
1.
In un breve volgere di tempo la Corte costituzionale ha affrontato due
temi cruciali nei rapporti tra diritto nazionale e diritto metastatuale:
il rilievo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
trattato nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007; l’utilizzabilità della
procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, trattato
nell’ordinanza n. 103/2008. Finalmente, si potrebbe dire; dato che sono
occorsi più di cinquanta anni per avere una chiara posizione della Corte
(per quanto non ancora definitiva e “ponte” per ulteriori sviluppi),
quando da tempo altre corti costituzionali di Stati membri avevano
utilizzato la procedura del rinvio pregiudiziale ed accettato appieno il
“dialogo” con la Corte di giustizia e la Corte dei diritti dell’uomo,
scoprendone i molti pregi e l’opportunità per una nuova legittimazione
domestica. Così come nel nostro ordinamento avevano fatto, ormai da
qualche tempo, Cassazione e Consiglio di Stato; con i medesimi risultati
positivi.
Ambedue le conclusioni raggiunte dalla Corte
costituzionale hanno ricevuto grande attenzione, non solo nel mondo
giuridico. In effetti, per quanto la Costituzione italiana sia connotata
“dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in
generale delle fonti esterne” (così la citata sentenza n. 349/2007,
passo n. 6.2.), la Corte aveva evitato di assumere posizioni di
principio tanto sulla Convenzione promossa dal Consiglio d’Europa,
quanto per la più “semplice” questione di diritto comunitario relativa
al rinvio pregiudiziale.
Per la CEDU, la Corte si trovava ad
esaminare un atto internazionale del tutto atipico: per il suo oggetto
prettamente costituzionale; per il rilievo giuridico non solo nel
sistema del Consiglio d’Europa, ma parzialmente anche nell’ordinamento
comunitario, attraverso i numerosi richiami alla CEDU ed alla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo a partire dal Trattato UE del
1992; per l’incidenza diretta su tematiche nazionali assai controverse
(come la durata dei processi e la disciplina delle espropriazioni); per
l’attivismo dei giudici nazionali, che aveva condotto in vari casi ad
affermare financo la portata disapplicatoria della CEDU rispetto alle
configgenti disposizioni nazionali.
Per le grandi questioni
comunitarie tuttora aperte, sulla Corte pesava negativamente il retaggio
dell’iniziale scontro con la Corte di giustizia sulla portata del
primato del diritto comunitario; risoltosi a favore dei giudici di
Lussemburgo, come naturale dato il particolare contesto ordinamentale
del dibattito. La ritrosia della Corte costituzionale non è venuta meno
neanche dopo la riforma dell’art. 117, comma primo, della Costituzione,
che pure ha segnato un formale spartiacque rispetto alla precedente
disciplina costituzionale; ove l’intera costruzione dell’integrazione
europea era stata basata, in modo consapevolmente forzato, sull’art. 11
Cost.
Le conclusioni raggiunte dalla Corte sulla CEDU, con le citate
sentenze nn. 348 e 349/2007, non sono l’oggetto delle presenti
notazioni; ma meritano una valutazione congiunta con la decisione della
Corte di accettare il ruolo di “giurisdizione di ultima istanza”, ai
sensi delle disposizioni del Trattato CE sulla procedura di rinvio
pregiudiziale. Infatti, nei due casi la Corte ha inteso porsi a presidio
finale del rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti
dalla Costituzione italiana; rimarcando tanto le sue caratteristiche
ordinamentali nazionali, quanto la sua collocazione nella rete
costituzionale che consegue all’affermazione del diritto comunitario e
del Consiglio d’Europa.
Questo è palese relativamente alla CEDU, per
cui, malgrado le molte peculiarità, la Corte rimane competente, ove sia
sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma
nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto
insanabile con una norma della CEDU, “per accertare il contrasto e, in
caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU,
nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una
tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito
dalla Costituzione italiana” (così, sent. n. 349/2007, cit., punto
7.1.). In termini ancora più netti, la posizione di centralità della
Corte è stata ribadita nella successiva sentenza n. 129/2008, smentendo
innovative posizioni raggiunte dalla Cassazione in tema di revisione del
principio di intangibilità del giudicato.
Ma lo stesso può
affermarsi anche – nello scenario giuridico comunitario – per
l’accettazione della posizione di “giurisdizione di ultima istanza”.
Infatti, lungi dal rappresentare uno svilimento del ruolo della Corte,
equiparato funzionalmente e organizzativamente a quello delle
giurisdizioni superiori, l’apertura al dialogo con la Corte di giustizia
esprime la volontà della Corte – oltre che di (ri)prendere parte,
nell’ordinamento europeo, alla costruzione dei principi generali, con
speciale riferimento ai principi di carattere costituzionale – di non
farsi accantonare dai giudici comuni per la sempre più diffusa
disapplicazione diretta delle norme italiane contrastanti con il diritto
comunitario.
L’ordinanza che si commenta esprime, sul versante
europeo, la volontà della Corte di partecipare all’incipiente “rete di
costituzionalità”, formata dalle corti costituzionali nazionali, con al
centro la Corte di giustizia e l’apporto “esterno” della Corte di
Strasburgo. Sul versante nazionale, la reazione della Corte al rischio –
attualissimo e sempre più rilevante per l’espandersi, in vari modi,
delle competenze comunitarie – della sua emarginazione a seguito della
crisi, nel cruciale settore del diritto a rilevanza comunitaria, del
monopolio del giudizio sulle leggi.
Si tratta dunque di una decisione
significativa, che rileva sia da un punto di vista dell’assetto
istituzionale interno, sia da quello dell’ordinamento europeo; ove lo
sviluppo era atteso e necessario.
L’ordinanza è peraltro “timida”, in quanto espressamente riferita al solo
caso
dei giudizi di costituzionalità in via principale. Laddove gran parte
delle questioni di carattere europeo sono sollevate nei giudizi in via
incidentale, sui quali anche la Corte costituzionale potrebbe incidere
positivamente nella definizione della “pregiudiziale comunitaria” , ove
accettasse che le ragioni sottostanti al rinvio pregiudiziale nei
giudizi di costituzionalità in via principale si ritrovano
sostanzialmente anche nei giudizi in via incidentale.
Ma è da
presumere che – rotto il primo argine - si giunga presto a generalizzare
l’utilizzo della procedura di rinvio pregiudiziale a tutti i giudizi di
costituzionalità, ove rilevino questioni di interpretazione del diritto
comunitario.
2. L’ordinanza n. 103/2008 trae origine dal
giudizio di legittimità costituzionale di alcune norme della legge reg.
Sardegna n. 4/2006, come modificate dalla legge reg. Sardegna n. 2/2007,
sulla c.d. “tassa sul lusso”, promosso in via principale con ricorso
del Governo.
Una parte delle contestazioni vertevano su questioni di
costituzionalità puramente interne, e quindi sono state oggetto della
sentenza n. 102/2008, depositata contestualmente all’ordinanza in esame.
Altre contestazioni avevano invece riguardo alla rilevanza ed
all’applicabilità di norme, primarie e derivate, di diritto comunitario;
sulla cui interpretazione, secondo la Corte costituzionale,
sussistevano dubbi. Sì da rendere necessario procedere al rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 234 (già art.
177) Trattato CE. Infatti, come sottolineato dalla Corte, per tali
aspetti “la legittimità costituzionale della norma censurata non può
essere scrutinata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
senza che si proceda alla valutazione della sua conformità al diritto
comunitario”.
Giunta dunque alla decisione sulla rinviabilità o meno
ai giudici di Lussemburgo della questione, tramite la procedura di
rinvio pregiudiziale, la Corte ha per la prima volta deciso in senso
positivo.
I passaggi principali della motivazione sono i seguenti: a)
la Corte ha una “peculiare posizione di supremo organo di garanzia
costituzionale nell’ordinamento interno”; b) malgrado ciò, “costituisce
una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo,
Trattato CE; c) in particolare, nei giudizi promossi in via principale,
la Corte “costituisce una giurisdizione di unica istanza, in quanto
contro le sue decisioni non è ammessa alcuna impugnazione (…) ed è
l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia”; d) se “nei
giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non
fosse possibile effettuare il rinvio pregiudiziale risulterebbe leso il
generale interesse all’uniforme applicazione del diritto comunitario,
quale interpretato dalla Corte di giustizia CE”; e) diverso è il caso
dei giudizi promossi in via incidentale, per cui rimane ferma la
posizione che la Corte non può essere investita della questione del
contrasto tra norme nazionali e norme comunitarie, quando sia possibile
una diretta soluzione da parte del giudice comune (tra le tante, sent.
n. 284/2007).
I precedenti della Corte erano negativi. Non fa testo,
in senso diverso, il passaggio (davvero un obiter dictum) della
sentenza n. 168/1991 secondo cui, ferma restando la possibilità di
interpretare direttamente la normativa comunitaria, la Corte avrebbe “la
facoltà di sollevare anch’essa questione pregiudiziale di
interpretazione”. Infatti, l’affermazione non è motivata ed è stata
enunciata in via astratta, trovando il caso allora in esame una diretta
soluzione senza necessità di utilizzare la procedura del rinvio.
La
posizione costante della Corte, sino alla svolta del 2008, è risultata
quella scaturente dalla risalente sentenza n. 13/1960, dalla sentenza n.
206/1972 e dall’ordinanza n. 536/1995: la Corte costituzionale non
configura una “giurisdizione nazionale” secondo l’art. 234 del Trattato
CE, in quanto “esercita essenzialmente una funzione di controllo
costituzionale, di suprema garanzia dell’osservanza della Costituzione
della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di
quelli delle regioni”. Le sue funzioni sono assai diverse da quelle
degli organi giudiziari, anzi “sono senza precedenti nell’ordinamento
italiano” e inconciliabili con i compiti “ben noti e storicamente
consolidati propri degli organi giurisdizionali”.
Eppure vi erano da
tempo le premesse per l’utilizzabilità della procedura di rinvio
pregiudiziale da parte della Corte costituzionale, almeno nel caso dei
giudizi di legittimità costituzionale in via principale. In varie
sentenze si è sottolineato che in tali giudizi non vi è un giudice che,
statuendo sul rapporto, dichiari la disapplicazione/non applicabilità
delle norme interne rilevanti. L’esigenza di depurare l’ordinamento
nazionale da norme incompatibili con quelle comunitarie non trova
pertanto ostacoli, e la Corte ha il compito di salvaguardare con proprie
decisioni il valore costituzionale della certezza e della chiarezza
normativa di fronte ad ipotesi di contrasti di una norma interna con una
comunitaria.
3. E’ di solare evidenza che, con la posizione
mantenuta sino all’ordinanza in commento, la Corte costituzionale ha
“nazionalizzato” una questione che è, invece, di natura prettamente
comunitaria.
La determinazione sull’ambito soggettivo della nozione
di “giurisdizione nazionale” non dipende infatti dagli assetti
costituzionali degli Stati membri, ma dalle norme comunitarie. La Corte
di giustizia ha da sempre affermato il principio che la valutazione
sulle caratteristiche di un organo quale “giudice”, ai sensi dell’art.
234 Trattato CE, costituisce “questione unicamente di diritto
comunitario” (tra le molte, sentenza 2.3.1999, C-416/96 e sentenza
17.9.1999, C-54/96).
In generale, per la Corte di giustizia nel
sistema dell’art. 234 Trattato CE il giudice nazionale “adempie, in
collaborazione con la Corte, una funzione che gli è attribuita onde
garantire la corretta applicazione del diritto comunitario nell’ambito
della sua competenza. Pertanto, i problemi che possono derivare
dall’esercizio del suo potere di valutazione, nonché i rapporti che esso
ha con la Corte, sono unicamente disciplinati dal diritto comunitario”
(sentenza 16.12.1981, causa 244/80).
L’individuazione degli organi da
riconoscere quali “giudici nazionali” ai sensi dell’art. 234 Trattato
CE è stata oggetto di ampia giurisprudenza della Corte di giustizia, da
tempo stabilizzatasi sui seguenti indici: origine legale dell’organo,
carattere permanente dell’organo, obbligatorietà della sua
giurisdizione, natura contraddittoria del procedimento ivi applicabile.
E’
pertanto pacifico che nella prospettiva comunitaria – si ripete,
l’unica rilevante ai fini del procedimento di rinvio in esame – la Corte
costituzionale sia “giudice nazionale”. La Corte è altresì “giudice di
ultima istanza” nei procedimenti di ricorso diretto (Stato/regioni e
viceversa) e nei procedimenti per conflitto di poteri. Come tale, la
Corte ha l’obbligo, e non solo il potere, di rinviare in via
pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione di interpretazione
del diritto comunitario applicabile.
Il mancato rinvio pregiudiziale
da parte dei giudici di ultima istanza è sanzionato quale illecito
extracontrattuale dello Stato membro per violazione manifesta del
diritto comunitario.
La responsabilità dello Stato per la violazione
del diritto comunitario è stata inizialmente affermata dalla Corte di
giustizia per la condotte delle pubbliche amministrazioni e del
legislatore; ma poi, inevitabilmente, estesa anche ai giudici. Al
rispetto del diritto comunitario sono infatti tenuti tutti gli organi
dello Stato (da intendere, naturalmente, non solo come Stato-persona),
ivi compreso il potere giudiziario, nell’espletamento dei loro compiti.
Come efficacemente sintetizzato nella sentenza Koebler (30.9.2003,
C-224/01), “in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere
giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme
comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in
discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe
affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni,
ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una
violazione del diritto comunitario imputabile ad una decisione di un
organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro”.
Tale
conclusione non può non valere anche per la Corte costituzionale, sia
perché – nella prospettiva comunitaria, l’unica qua rilevante – essa è
organo giurisdizionale, e di ultimo grado; ma anche perché è decisiva la
funzione esercitata, certamente giurisdizionale in quanto o decide
direttamente (nei ricorsi diretti) o contribuisce alla decisione del
giudice comune (nei casi incidentali). Pur non sottovalutando che per
configurabilità della responsabilità per la Corte costituzionale vale
ancor di più il limite della “specificità della funzione
giurisdizionale” (sentenza 13.6.2006, C-173/03, Traghetti del
Mediterraneo) e della difficoltà di configurare nelle sue sentenze una
“violazione manifesta del diritto comunitario” (se non appunto per il
mancato esercizio del rinvio pregiudiziale).
Si deve aggiungere che
il mancato utilizzo della procedura di rinvio pregiudiziale da parte
della Corte costituzionale poteva portare – e così effettivamente è
avvenuto in almeno un caso (relativo ai c.d. diritti di visita, di cui
ai regg. CE nn. 804 e 805/1968, colto dalla sentenza della Corte cost.
n. 163/1977) – a conclusioni basate su un’interpretazione del diritto
comunitario poi smentita dalla Corte di giustizia. Con grave
pregiudizio tanto per il principio di certezza giuridica, quanto
dell’autorevolezza della nostra Corte.
4. La posizione seguita
dalla Corte costituzionale sino all’ordinanza n. 103/2008 era
criticabile pure dal punto di vista “interno”, in quanto generalizzava
la specialità del ruolo di supremo garante della Costituzione, lasciando
in ombra il ruolo direttamente giudicante in alcuni procedimenti nella
sua competenza, come appunto i giudizi in via principale ed i giudizi di
ammissibilità dei referendum (analogamente vale, in principio, per i
conflitti di attribuzione; ma è difficile in tali casi ipotizzare una
questione di diritto europeo).
In ogni caso, garantire la
Costituzione significa anche garantire i principi e le norme che sono
entrate nel nostro ordinamento costituzionale attraverso i procedimenti
dell’integrazione europea previsti dai Trattati, costituzionalmente
compatibili in virtù dell’art. 11 Cost., prima; e del novellato art.
117, primo comma, Cost., poi.
A fronte del più ampio ruolo di
garanzia di costituzionalità che è proprio della Corte a seguito
dell’integrazione europea, mutano le tecniche procedurali. In
particolare, le questioni di interpretazione del diritto comunitario
vanno rimesse alla Corte di giustizia; e per le questioni relative alla
CEDU occorre tener conto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo,
unico suo interprete “per garantire l’applicazione del livello uniforme
di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri” (sent. n.
349/2007, cit.).
Anche nei procedimenti di legittimità costituzionale
promossi in via incidentale, la Corte deve accettare la possibilità –
qua certamente non l’obbligo, atteso che non si tratta di giudizio di
ultima istanza; ma, appunto, incidentale – di rinviare alla Corte di
giustizia una questione di interpretazione del diritto comunitario
applicabile. Infatti, se nell’eccezione di incostituzionalità rileva un
profilo comunitario, la Corte può decidere o di lasciare al giudice
della fattispecie anche l’interpretazione delle norme comunitarie
applicabili (come finora ha sempre fatto, e come indica l’ordinanza n.
103/2008 intenderebbe ancora seguire), oppure contribuire a definire il
completo parametro della fattispecie anche nei suoi profili comunitari,
con il rinvio pregiudiziale.
Non convince la tradizionale posizione –
per ora ribadita dalla Corte anche nell’ordinanza in commento – secondo
cui spetta unicamente al giudice rimettente di farsi carico di adire la
Corte di giustizia “per provocare quell’interpretazione certa e
affidabile che assicuri l’effettiva ( e non più ipotetica e comunque
precaria) rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio di
legittimità costituzionale circa una disposizione interna che, nel
raffronto con un parametro di costituzionalità risenta, direttamente o
indirettamente, della portata del diritto comunitario” (ord. n.
536/1995, secondo un orientamento costante).
Infatti, in tal modo si
contribuisce alla frantumazione dell’interpretazione su temi a rilevanza
costituzionale; nella prospettiva comunitaria, non si esercita
appropriatamente il ruolo di leale collaborazione con le istituzioni
comunitarie; si mette a rischio l’effetto utile del diritto comunitario.
Con
il rinvio pregiudiziale da parte della Corte costituzionale si
determina anche nel giudizio costituzionale a quo una “pregiudiziale
comunitaria”, come nei casi di rinvio da parte dei giudici comuni (cfr.
ord. n. 249/2001).
Va peraltro sottolineato che la proposta di
ampliare l’ambito del procedimento di rinvio pregiudiziale anche ai
giudizi di costituzionalità in via incidentale soddisfa certamente il
palato del giurista, meglio se il palato è euro-sensibile; ma, se
attuata, comporterebbe complicanze processuali così rilevanti da mettere
a rischio il principio di effettività della tutela, principio del
sistema comunitario (e della CEDU) e profilo essenziale del diritto
costituzionale al giusto processo (art. 111 Cost.).
Basti considerare
che il giudizio di costituzionalità promosso in via incidentale
rappresenta oggi una pausa media di non meno di diciotto mesi nel
giudizio principale; cui, a seguito del rinvio al giudice di
Lussemburgo, si aggiungerebbe un’ulteriore pausa che, allo stato, ha la
stessa durata media. Con effetti prevedibilmente disastrosi per alcune
delle parti processuali e, più in generale, per la buona amministrazione
della giustizia.
Si tratta comunque di una questione che può essere
risolta con accorgimenti organizzativi, che non dovrebbero richiedere
una modifica delle norme processuali delle due Corti. Per quanto
riguarda la Corte costituzionale, basta prevedere, anche per decisione
organizzativa del Presidente, un’immediata verifica dei caratteri della
questione di costituzionalità; ed una conseguente procedura accelerata
per il rinvio più rapido possibile alla Corte di giustizia. Per
quest’ultima, visto il carattere costituzionale, “alto”, che
presumibilmente avranno i rinvii decisi dalla Corte costituzionale (e
dagli equivalenti organismi degli altri Stati membri), si può pure
pensare ad una corsia preferenziale rispetto agli altri rinvii. Così
almeno da annullare il raddoppio del termine di sospensione del giudizio
principale, altrimenti inevitabile. Né questa procedura speciale
dovrebbe apparire penalizzante rispetto agli altri rinvii pregiudiziali,
atteso il già richiamato carattere costituzionale delle questioni
sollevate e il numero prevedibilmente limitato di tal tipo di rinvii.
5.
La ricollocazione della Corte costituzionale nel quadro delle procedure
di elaborazione dei principi costituzionali europei e della loro
attuazione nei giudizi nazionali è per il momento limitata, come detto,
ai soli giudizi di costituzionalità in via principale. Se,
augurabilmente, si estenderà presto ai giudizi in via incidentale per i
buoni motivi sopra esposti, si determinerà il benefico riequilibro della
rottura del principio del monopolio della legittimità delle leggi,
conseguente al potere/dovere di ogni giudice di non applicare il diritto
nazionale contrastante con il diritto comunitario.
L’attuale
situazione di sindacato diffuso della legittimità comunitaria – qua
esaminato in riferimento ai giudici, ma che nella sua effettiva portata
va considerato anche rispetto al ben più diffuso e capillare sindacato
da parte delle amministrazioni pubbliche – ha portato a situazioni di
grande incertezza, segnate da un’applicazione/disapplicazione a macchia
di leopardo. Il contrario della certezza giuridica e dei connessi
principi di stabilità giuridica, cui ovvia solo in circostanze
particolari l’abrogazione espressa delle norme in questione.
Il ruolo
dei giudici ordinari a fronte del diritto comunitario non è posto in
discussione dagli sviluppi qua esaminati, essendo acquisizione
ineluttabile una volta che nel quadro del diritto comunitario risultano
“giudici comuni di diritto europeo”. Ma, nei profili di costituzionalità
a rilevanza comunitaria, al loro ruolo diretto si aggiunge ora quello
della Corte, che può per la sua parte contribuire ad una più competa
configurazione dei profili costituzionali rilevanti.
Conclusivamente,
la decisione in esame della Corte costituzionale per il rinvio in via
pregiudiziale alla Corte di giustizia su una questione di
interpretazione del diritto comunitario era attesa per concomitanti
ragioni: perché “tecnicamente” inevitabile, visti i caratteri della
procedura di cui all’art. 234 Trattato CE e di alcuni dei giudizi di
legittimità costituzionale; perché da tempo gli altri giudici nazionali
“di ultima istanza” avevano accettato la medesima procedura, con effetti
positivi; infine, perché in tal modo la Corte ha evitato la
marginalizzazione del proprio ruolo quale giudice delle “sole” cause
interne, a fronte di uno scenario costituzionale ineluttabilmente
europeizzatosi.
Il tempo dirà se la procedura di rinvio pregiudiziale
avrà per la Corte costituzionale gli stessi effetti positivi che si
sono determinati per la Cassazione ed il Consiglio di Stato, nelle loro
sfere. Va comunque salutato con favore la rottura di un blocco durato
ingiustamente per oltre cinquanta anni.
Al di là della questione
esaminata, il cammino costituzionale della Corte di giustizia è comunque
ancora incompiuto sulla cruciale questione del rapporto tra ordinamento
nazionale e ordinamento europeo; e della conseguente rilevanza del
diritto comunitario quale parametro di costituzionalità.
La Corte di
giustizia ha affermato sin dalle sue prime sentenze il carattere
monistico dell’ordinamento nazionale-europeo, frutto del processo di
integrazione. La nostra Corte costituzione, al contrario, ha mantenuto
una lettura “dualistica”, pur accettando nella sostanza i maggiori esiti
della giurisprudenza comunitaria. Le differenze tra le due impostazioni
rilevano, oltre che per la questione oggetto delle presenti note,
specialmente per la qualificazione delle norme interne che contrastano
con il diritto comunitario. Al riguardo, la nozione comunitaria di
“disapplicabilità” è ben più forte di quella, prevalente nella
giurisprudenza costituzionale, di “non applicabilità”: la prima implica
una forma di invalidità della norma; la seconda solo una questione di
interpretazione circa la norma applicabile.
Le resistenze della Corte
costituzionale potevano forse giustificarsi sino a quando nel nostro
ordinamento perdurava l’assenza di un “articolo comunitario” che, sulla
falsariga di quanto avvenuto negli altri principali ordinamenti
nazionali, precisasse il tipo di integrazione giuridica. Ma, con la
riforma nel 2001 all’art. 117 Cost. il problema è risolto, ancorché
prendendo spunto dal tema delle autonomie, anziché dai principi
generali. Aperture nella giurisprudenza costituzionale sono ravvisabili,
con l’utilizzo del solo art. 117 Cost. quale parametro di
costituzionalità; ma in punto di principio non vi sono novità.
Circa
la rilevanza del diritto comunitario quale parametro del giudizio di
costituzionalità, la Corte rimane ferma sulla posizione – senza
riscontro negli altri Strati membri – delle norme comunitarie come
“norme interposte”, atte ad integrare il parametro di conformità
costituzionale per la normativa statale e regionale. Ma non è chi non
veda che la nozione di “norma interposta” implica una posizione
subcostituzionale delle norme comunitarie, con buona pace del principio
di primato del diritto comunitario e dei correlati principi sui rapporti
tra norme comunitarie e norme nazionali. Anche in scarsa coerenza con
quanto la Corte stessa ha affermato nella citata sentenza n. 349/2007,
punto 6.2., sulla rilevanza del nuovo testo dell’art. 117, primo comma,
Cost. che “ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni
di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione
sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei principi che
espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di
determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”.
Si tratta, è
vero, di una questione di principio priva di particolari conseguenze
negative per le parti interessate, dato che, “norma interposta” o meno,
“il mancato rispetto delle fonti comunitarie rilevanti determina
l’illegittimità costituzionale” delle norme oggetto del giudizio di
costituzionalità (sent. n. 129/2006). Ma che esprimono una perdurante
ritrosia della Corte, priva di giustificazione.
In ogni caso, con il
riconoscimento del ruolo della Corte di Strasburgo per l’interpretazione
della CEDU e con l’avvio della procedura di rinvio pregiudiziale alla
Corte di Lussemburgo per le questioni di interpretazione del diritto
comunitario, la Corte ha riavviato il suo cammino comunitario e
sostanzialmente accettato il processo di federalizzazione della
giustizia costituzionale nell’Unione europea, che non potrà che
concludersi con l’affermazione della Corte di giustizia quale Corte
costituzionale federale.
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[1]
Le occasioni delle citate sentenze nn. 348 e 349/2007 erano l’indennità
di esproprio e il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva. La
questione della rilevanza della CEDU è stata poi ripresa nelle sentenze
n. 39/2008, in tema di disciplina del fallimento, e n. 129/2008, in
tema di revisione dei processi penali passati in giudicato.
[2] Tra i
molti commenti già apparsi, cfr. in questa Rivista, 2008: B. Randazzo,
Costituzione e CEDU: il giudice delle leggi apre una “finestra” su
Strasburgo, 25 segg.; V. Mazzerelli, Corte costituzionale e indennità di
esproprio: serio risotoro e proporzionalità dell’azione amministrativa,
32 segg.; M. Pacini, Corte costituzionale ed occupazione acquisitiva:
un adeguamento soltanto parziale alla giurisprudenza CEDU, 37 segg. Cfr.
anche l’articolata analisi di M. Savino, Il cammino costituzionale
della Corte costituzionale dopo le sentenze n. 348 e 349 del 2007, in
Riv. ut. Dir. pubbl. com. 2008, in corso di pubblicazione sul n. 3.
[3] Come Cassazione, I Sez. pen., n. 2432/2006.
[4]
Si parla giustamente di effetto di auto-emarginazione dal dialogo
giurisprudenziale europeo: G. Zagrebelsky, Corti europee e corti
nazionali, in S. Panunzio (a cura di), I costituzionalisti e l’Europa,
Milano, 2003, 539 segg. Non si tratta peraltro di effetto ineluttabile,
come dimostra il successo di alcune posizioni sostenute dalla Corte,
quando lo ha voluto; come la teoria dei contro-limiti, collegati al
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei
diritti inviolabili della persona. La teoria dei contro-limiti è non
per caso ripresa anche da altre giurisdizioni costituzionali (sulla
questione: A. Celotto-T. Groppi, Diritto UE e diritto nazionale:
primautè v. controlimiti, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2004, 1309).
[5]
La vicenda è riassunta da M. Cartabia, La Corte costituzionale italiana
e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in N. Zanon (a cura
di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale
italiana, Napoli, 2006, 99 segg.
[6] Così, nella sentenza n. 384/1994.
[7] Cfr. anche la sentenza n. 94/1995.
[8]
Per una sintesi: L. Raimondi, La nozione di giurisdizione nazionale ex
art. 234 TCE alla luce della recente giurisprudenza comunitaria, in Dir.
UE, 2006, 369; D. Basile, La nozione di “giurisdizione nazionale”nella
giurisprudenza della Corte di giustizia, in Foro amm., Cons. St., 2006,
696.
[9] Pertanto, N. Bassi (Ancora sul rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia e sulla nozione di “giudice nazionale”: è il momento
della Corte costituzionale?, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 155)
poneva correttamente il problema ora risolto positivamente. La questione
è stata ampiamente trattata dalla dottrina, con netta prevalenza dei
fautori della tesi della Corte quale giudice nazionale ai sensi e per
gli effetti dell’art. 234 Trattato CE: tra i tanti, E. Cannizzaro, La
Corte costituzionale come giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 177
del Trattato CE, in Riv. dir. int., 1996, 452; F. Salmoni, La Corte
costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità europee, in Dir.
pubbl., 2002, 491; G. Gaja, La Corte costituzionale di fronte al diritto
comunitario, in L. Daniele, a cura di, La dimensione internazionale ed
europea del diritto nell’esperienza della Corte costituzionale, Napoli,
2006, 255, 277; S.M. Carbone, Corte costituzionale, pregiudiziale
comunitaria e uniforme applicazione del diritto comunitario, in Dir. UE,
2007, 707.
[10] Il punto era già stato chiarito da F. Sorrentino sin
dal 1971 (cfr. il suo Corte costituzionale e Corte di giustizia delle
Comunità europee, Giuffrè, Milano, 1971, spec. 148 e segg.).
[11]
Cfr. ad es. l’ord. n. 319/1996: “l’esame delle prospettate questioni di
costituzionalità, essendo queste fondate sull’interpretazione delle
citate direttive, esige che il contenuto delle norme espresse dalle
disposizioni comunitarie sia compiutamente e definitivamente individuato
secondo le regole all’uopo dettate da quell’ordinamento. Spetta ai
giudici rimettenti di adire previamente la Corte di giustizia”.
[12]
Lo era nel 1973 quando P. Barile pubblicò un noto saggio (Il cammino
comunitario della Corte, in Giur. Cost., 1973, 2406 segg.). A distanza
di molti decenni ci si può chiedere se la Corte non sia oltre i limiti
di normale tollerabilità nei rispetti degli impegni comunitaria; pur
scontando la posizione particolarissima della Corte nel quadro degli
organi dello Stato.
[13] La tesi è largamente condivisa. Cfr. di
recente R. Chiappa, Nuove prospettive per il controllo di compatibilità
comunitaria da parte della Corte costituzionale, in Dir. UE, 2007, 493.
[14]
La soluzione in linea di principio trova peraltro nell’attuazione
giurisprudenziale ostacoli e interpretazioni riduttive. Per un quadro
del dibattito: C. Panara, I vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario cinque anni dopo: quid novi?, in Quad. cost., 2006, 796; C.
Napoli, La Corte dinanzi ai “vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario”, tra applicazione dell’art. 117, primo comma, e rispetto
dei poteri interpretativi della Corte di giustizia, in Le regioni, 2006,
2213.
[15] Ad esempio nella sentenza n. 406/2005.
[16] Già
opinabile per la sua eterogeneità, posta in luce da M. Siclari, Le norme
interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992.
[17] Cfr. A. Celotto, La Corte costituzionale finalmente applica il primo comma dell’art. 117 Cost., in Giur. it., 2006, 1123
[18]
L’espressione era stata usata già da S.M. Carbone e F. Sorrentino,
Corte di giustizia o corte federale delle Comunità europee?, in Giur.
cost., 1978, 654.