Verso l’implosione dei riti speciali e delle forme di tutela differenziata?
/MARIO P. CHITI
È dal 1999 che
non si tiene un convegno di studi di ampio respiro sul tema dei riti
speciali nel processo amministrativo e nelle altre procedure
pubblicistiche; precisamente, dall’incontro di studi in Consiglio di
Stato, ove furono analizzate – già allora criticamente – le molte
procedure speciali emerse nel recente periodo.
Va dunque espresso vivo plauso ai colleghi della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro che hanno avvertito la necessità di riprendere l’esame del tema, in questo caso esteso pressoché a tutti i riti speciali pubblicistici, con l’apporto di alcuni tra i nostri maggiori giuristi e di qualificati specialisti dell’argomento.
L’opportunità di un nuovo convegno di studi deriva anche da tre circostanze ora meglio avvertibili che nel 1999: nel decennio intercorso si è intensificata la tendenza a prevedere normativamente nuovi riti; si è verificato un analogo fiorire di riti negli ordinamenti giuridici al nostro più prossimi; anche nel diritto processuale dell’Unione europea si sta manifestando un largo favore per procedure ad hoc e per la costituzione di giudici “speciali”.
Le relazioni sono state assai dense e il dibattito vivacissimo, sì da rendere quanto mai arduo il ruolo del relatore di sintesi. Provo comunque a definire le principali indicazioni emerse, che mi paiono cinque: il dilagare quasi inarrestabile dei riti speciali; l’estensione del fenomeno a tutti i campi del processo; la varietà delle motivazioni che sono alla base del fenomeno; la incipiente tensione tra la specialità dei riti ed i principi dell’effettività della tutela e del giusto processo; l’atteggiamento sinora assai cauto della Corte costituzionale.
Mi preme precisare che le conclusioni saranno incentrate sul diritto processuale amministrativo, perché è del tutto particolare la situazione del processo costituzionale rispetto ad ogni altro tipo di processo; e perché il processo amministrativo più di ogni altro ramo processuale ha reso evidenti le luci e le ombre dei riti speciali.
Esaminando partitamene queste maggiori indicazioni che il Convegno ha offerto, per quanto riguarda la sempre più diffusa previsione di riti speciali vi è da chiedersi se ha ancora senso parlare di “specialità”. Il concetto di specialità implica infatti l’esistenza di un parametro generale e la limitata incidenza dei casi speciali rispetto a tale parametro. Tuttavia, nel nostro caso è ben noto che non esiste un vero e proprio corpo di processo amministrativo “ordinario”, ma solo una disciplina di alcuni punti fondamentali; senza carattere di completezza, almeno per quanto comparabile con il processo civile ed il processo penale.
In principio appare allora più corretto parlare, anziché di specialità dei riti, di forme differenziate di tutela. Il rito già “ordinario” diviene quello per il momento ancora più utilizzato, ma con sempre maggiore spazio per altri riti che esprimono con varietà di moduli la diversa rilevanza dei dati sostanziali in gioco, a partire dalla differenziazione dell’organizzazione e del modo di funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Emblematico il dibattito parlamentare sulla proposta di abolire gli arbitrati con le pubbliche amministrazioni, ove l’alternativa alle procedure arbitrali è stata vista dal Governo nell’istituzione di sezioni speciali dei tribunali civili e dalla previsione di nuovi riti processuali ad hoc.
Il punto è direttamente connesso a quello delle motivazioni del fenomeno del dilagare delle specialità dei riti. È noto che a base dei riti speciali vi sono varie ragioni; principalmente: la necessità di assicurare una procedura assai rapida per determinati temi; la conformazione particolare del regime processuale in relazione alle caratteristiche delle situazioni giuridiche coinvolte; la diversità delle amministrazioni pubbliche e della disciplina delle forme di azione.
Al di là di qualche specificità, tali motivazioni rappresentano complessivamente la risposta nel processo amministrativo alle questioni poste dal principio dell’effettività della tutela. Questo principio, forgiato nella sua veste più nota dalla Corte di giustizia, ma strettamente legato anche alla CEDU ed alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, ha avuto rilievo costituzionale con la riforma dell’art. 111 Cost. e la previsione sul giusto processo.
L’effettività è comunemente intesa come garanzia di processo celere, per certo una delle accezioni fondamentali del principio; specie in un ordinamento come quello italiano in cui i tempi di giustizia sono notoriamente lunghissimi. Ma l’effettività della tutela va oltre alla garanzia di celerità del giudizio, perché richiede un processo funzionale ai caratteri sostanziali del contenzioso; anche, quando necessario, con moduli processuali diversificati. I riti speciali sono appunto una delle risposte – ovviamente, non l’unica possibile – alle esigenze sottese al principio dell’effettività della tutela.
Le relazioni ed il dibattito hanno però confermato il rischio, già adombrato dalla dottrina che ha studiato il tema, che il proliferare dei riti speciali rappresenti un paradossale attentato all’effettività della tutela. In particolare, le diversità di ciascun procedimento determinano specialità nelle specialità, aggravando la posizione degli interessati con regole processuali particolari, assai spesso criptiche e comunque non sufficientemente sviluppate (i riti speciali non hanno infatti, di regola, un’adeguata disciplina perché frutto di iniziative occasionali e di scarso spessore). Basti considerare, a conferma di questo assunto, che si è sviluppato un vasto contenzioso sul rispetto della disciplina di questi riti; i quali così divengono essi stessi un problema, neanche il minore, anziché la panacea promessa.
Molte delle criticità che i riti speciali stanno evidenziando sono però solitamente accantonate per una pretesa copertura che loro deriverebbe sia dal diritto comunitario che dal diritto del Consiglio d’Europa. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo che ormai martella sistematicamente sulle nostre carenze ordinamentali, tanto della parte sostanziale quanto di quella processuale.
Effettivamente, il diritto europeo (inteso qui, con voluta sommarietà, nella somma dei due diversi diritti sopra ricordati) non è di per sé pregiudizialmente ostile ai riti speciali. Anzitutto, perché la materia del processo è ancora – nello stesso diritto dell’Unione europea – lasciato in principio (nei fatti è alquanto diverso) all’autonomia degli Stati membri.
In secondo luogo perché la specialità corrisponde, in giusta misura, ad oggettive necessità proprie di qualsiasi ordinamento. Non per caso, lo stesso diritto dell’Unione conosce per la propria parte dei riti speciali, accompagnati dal proliferare di nuovi giudici (come da ultimo il Tribunale della funzione pubblica), con discipline processuali che sono differenziate rispetto al modello “generale” della procedura della Corte di giustizia.
Tuttavia, esaminando la giurisprudenza sul tema dell’effettività e anche le “direttive ricorsi” in materia di appalti[1] (archetipo di un generale diritto processuale comune), è facile scorgere l’attenzione acché la specialità sia effettivamente uno strumento per aumentare il grado di tutela degli interessati, anche a costo di mettere in crisi l’applicazione del diritto comunitario. Di conseguenza, sconsigliandone implicitamente l’uso ogni volta che i riti speciali virino in senso opposto, tanto per difetti della disciplina quanto per l’applicazione che ne viene fatta.
Si tratta di una conclusione comunque cauta, che mostra un self-restraint del giudice comunitario rispetto alle scelte nazionali su temi assai sensibili.
Non casualmente, la stessa conclusione è fatta propria nell’ordinamento italiano dalla Corte costituzionale che, pur variamente sollecitata a valutare i profili di criticità dei riti speciali, finora ha sempre validato le scelte del legislatore. Già ai primordi di questa tendenza la Corte aveva affermato (sentenza n. 543/1973) che “la previsione di un rito speciale non è di per sé in contrasto con il diritto di azione e di difesa, in quanto quest’ultimo è variamente configurato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari processi”. In termini più generali, per la Corte “è da escludere che ogni rito processuale diverso da quello ordinario possa essere considerato in contrasto con l’art. 24 Cost., e ciò perché quest’ultimo rito non costituisce l’unico ed esclusivo strumento di attuazione delle garanzie costituzionali”.
Successivamente alla riforma dell’art. 111 Cost., la Corte ha mostrato una nuova sensibilità per il diritto di difesa inteso nella pienezza delle sue articolazioni, e non solo incentrato sul profilo della celerità del giudizio. Trattando del processo penale, ma con argomentazioni di carattere generale, la Corte ha sottolineato giustamente che il prius è il diritto di difesa; la celerità ha un ruolo servente (sent. n. 148/2005); spetta al giudice assicurare in concreto il bilanciamento dell’interesse alla celerità delle decisioni con le garanzie adeguate per i singoli (sent. n. 427/1999).
Diversa è la posizione della Cassazione, che ha mostrato un più diretto favore per le esigenze della difesa; arrivando a collegarsi al diritto di difesa come previsto all’art. 6, c. 1, della CEDU. A tale riguardo, recenti sentenze della Cassazione (es. SS.UU., 23.12.2005, n. 28507) hanno addirittura sostenuto che vi sia un obbligo di disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con la citata previsione della CEDU; oltre all’obbligo di interpretazione del diritto nazionale conforme ai canoni ermeneutici della Corte dei diritti dell’uomo.
Per quanto le conclusioni della Cassazione appaiano generose nella strenua tutela dei diritti di difesa, non si può condividere la tesi della disapplicazione del diritto nazionale per contrasto con le norme CEDU. L’istituto della disapplicazione è infatti utilizzabile solo nel quadro dei rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario; e, per la sua eccezionalità, non può essere utilizzato al di fuori di tale specifico contesto giuridico, segnato dal principio della supremazia del diritto comunitario. Al riguardo si attende la pubblicazione di due sentenze della Corte costituzionale sull’interpretazione dell’art. 117, c.1., Cost. in riferimento agli “obblighi internazionali”, ed alla differente posizione del diritto comunitario e del diritto internazionale (anche della particolare specie del diritto del Consiglio d’Europa)[2].
Celerità significa – o può significare in concreto – eccessiva semplificazione delle questione controverse; o, peggio, diminuzione delle garanzie di difesa. Il Convegno ha consentito, tra gli altri meriti, di discutere con franchezza lo scadimento – verrebbe da dire, la banalizzazione – della giustizia quale effetto non remoto dei riti speciali.
Il processo amministrativo è un ottimo esempio di questi effetti negativi; bastino alcuni casi di “specialità”: la decisione in forma semplificata; la pubblicazione quasi immediata del dispositivo della sentenza nei casi di cui all’art. 23 bis legge n. 1034/1971, tra i quali il più noto è quello degli appalti pubblici; gli adempimenti conseguenti alla trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale.
Il primo caso è espressione delle concomitanti esigenze di semplificazione ed accelerazione in circostanze processuali che, per il giudice, non necessitano di particolari approfondimenti. L’effetto qua è la “banalizzazione” della giustizia. Il secondo caso, invece, è tutto incentrato sulla celerità della pronuncia, ritenuta essenziale per definire la causa nel comune interesse, pubblico e privato.
Ebbene, l’esperienza attuativa di queste innovazioni mostra che la decisione in forma semplificata è stata assunta spesso in casi che avrebbero meritato un più completo ed approfondito giudizio; mentre il deposito anticipato del dispositivo rispetto alla motivazione della sentenza è quasi sempre segnato da un inaccettabile ritardo nella pubblicazione della motivazione, paradossalmente accentuato rispetto ai tempi usuali. Ciò comporta gravi incertezze – talora insuperabili – sul significato e sulla portata dei dispositivi subito pubblicati; con l’effetto di paralizzare l’azione amministrativa proprio là dove si intendeva definire immediatamente il giudizio. Ma anche con l’ulteriore effetto di paralizzare l’eventuale fase cautelare di secondo grado, perché il giudice di appello non ha elementi per decidere seriamente sui ricorsi delle parti.
Circa poi le questioni connesse alla trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, come rileva la più recente giurisprudenza amministrativa (Cons. St., V, 24.7.2007, n. 4136), mentre il termine per la notifica dell’atto con cui il ricorrente in via straordinaria dichiara di insistere nel ricorso davanti al TAR rimane sottratto alla regola del dimezzamento dei termini, perché riconducile alla categoria dei termini per la proposizione del ricorso, non è così per il successivo termine per il deposito dell’atto che, pur essendo termine processuale, non è compreso nel quadro delle attività di proposizione di ricorso; e dunque non sfugge alla regola del dimezzamento posto dall’art. 23 bis.
Anche da questi casi particolari, si conferma così che è necessario ripensare profondamente l’intero sistema dei riti speciali al fine di trovare un appropriato punto di equilibrio tra le esigenze di celerità e di semplificazione, da un lato; e di piena tutela di diritto di difesa, dall’altro.
Più in generale, sembra giunto il momento per porre termine alla stagione della continua creazione di riti speciali e per ripensare sulla necessità e/o sui risultati di quelli esistenti. Considerando seriamente la possibilità di un loro drastico sfoltimento.
Un’idea guida consigliabile è quella di prevedere un “rito speciale ordinario”, del tipo conosciuto nel diritto processuale civile nel Libro IV del codice. I pregi di questa opportunità – da non rigettare semplicisticamente quale ossimoro concettuale - sarebbero principalmente: a) la ricostruzione in termini tendenzialmente unitari dei riti speciali attuali, troppo vari e mal disciplinati; b) la possibilità di non allontanare eccessivamente il processo amministrativo da quello civile, in uno scenario generale di differenziazione e non di contrapposizione tra diritto civile e diritto amministrativo; c) una maggiore certezza del diritto, con conseguente migliore gestibilità del nuovo modello da parte dei difensori.
Altrimenti, diverrà presto una questione ineludibile la compatibilità dei riti speciali con il principio costituzionale del giusto processo, anche alla luce della CEDU e del principio comunitario di effettività della tutela.
Le relazioni ed il dibattito hanno poi posto in evidenza come il problema della specialità dei riti (qui tanto nel processo amministrativo che in quello civile) se in generale si inserisce in un contesto comune agli Stati europei, è tuttavia anche molto “domestico” rappresentando una variante della crisi della giustizia in Italia. La loro recente moltiplicazione denota infatti la difficoltà di addivenire ad una riforma generale della giustizia nel nostro Paese; ad iniziare dai tempi del giudizio. Se si vuole riportare ordine nel tema che nel Convegno abbiamo affrontato, non basta dunque razionalizzare il sistema dei riti speciali, ma occorre anche affrontare decisamente il tema della riforma della giustizia nella sua interezza.
C’è da chiedersi, infine, la ragione per la quale in Italia non hanno finora avuto reale sviluppo i c.d. riti alternativi alla giurisdizione; noti recentemente con l’acronimo inglese di ADR (Alternative Dispute Resolutions). I riti alternativi non hanno caratteri comuni, se non per risultare strumenti di prevenzione del contenzioso giurisdizionale o di soluzione transattiva e stragiudiziale per cause già insorte. Ma per le materie da cui si originano e per i caratteri che li ispirano hanno evidenti similitudini con i riti speciali. Pertanto, ove le ADR trovassero adeguata utilizzazione si ridurrebbe di conseguenza la spinta per i riti speciali.
Effettivamente, tanto nel diritto amministrativo che nel diritto civile, i riti alternativi non hanno finora avuto il successo che invece tali riti riscuotono in altri ordinamenti, soprattutto quelli angloamericani e del nord Europa. A tale risultato ha concorso certamente una nostra tradizione giuridica tutta incentrata sulla giurisdizione e sul processo; e, per il diritto amministrativo, la pessima prova data nel passato dai vari tipi di ricorsi amministrativi (lasciando da parte il ricorso straordinario, che ha caratteri del tutto particolari).
In un contesto giuridico sempre più integrato, però, la forza delle tradizioni dovrebbe progressivamente attenuarsi; così come dovrebbero rilevare positivamente i nuovi caratteri di riti alternativi “amministrativi”, come nel settore degli appalti pubblici. Ma è un fatto che, a tutt’oggi, questa riconsiderazione non è avvenuta e, malgrado le acerrime critiche alla giurisdizione, si continua a preferire pressoché esclusivamente la classica tutela giurisdizionale.
Concludendo, al di fuori di ogni ambizione di aver dato conto di un dibattito ricco e stimolante, posso affermare con certezza che i riti speciali hanno ormai raggiunto l’estensione massima compatibile con la Costituzione ed i principi europei; forse (a mio avviso, probabilmente) hanno anzi superato il punto di compatibilità. Si pone dunque il problema di una loro revisione, che per il diritto amministrativo non può che passare da una riforma sistemica del processo amministrativo. La riforma è stata anticipata da molte riforme particolari e dall’importantissima legge n. 205/2000, ma vi sono adesso le condizioni per una legge delega che consenta, con qualità di redazione e sistematicità di approccio, di ordinare l’intera materia; anche in riferimento ai profili di diritto comunitario.
A tale riguardo, un’ottima occasione è rappresentata dalla prossima riforma della “direttiva ricorsi” in materia di appalti pubblici[3], i cui principi vanno ben oltre la materia specifica dei contratti pubblici. Come è avvenuto per la riforma della parte sostanziale di tale disciplina (direttive 17 e 18 del 2004) - da cui si è originato il Codice dei contratti pubblici del 2006 - anche per la parte processuale, l’occasione dell’attuazione della direttiva consentirà un intervento organico di riforma sul processo amministrativo. Il legislatore nazionale è comunque libero, ovviamente, di affrontare direttamente il problema, senza prendere a spunto il diritto comunitario (talora in passato utilizzato strumentalmente quando non vi erano le condizioni politiche per un intervento diretto).
In sostanza, solo una riforma organica del processo amministrativo (ma la conclusione vale anche per il processo civile, qua non direttamente considerato) può dare risposta ai molti profili particolari di tutela che sono sintetizzati dall’espressione costituzionale del “giusto processo” e da quella comunitaria di “tutela effettiva”. I riti speciali sono invece una risposta parziale, scoordinata e non esaustiva rispetto alle medesime esigenze. Una scorciatoia fittizia che, anziché semplificare il percorso lo rende nella realtà più accidentato.
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[1]
Nelle more della pubblicazione del volume è stata approvata la
direttiva 07/66/CE dell’11.12.2007, che modifica ed integra le
precedenti 89/66 e 92/13.
[2] Dopo il Convegno sono state pubblicate
le attese sentenze della Corte costituzionale in materia: le nn. 348 e
349/2007. La Corte ha confermato quanto sostenute nelle presenti
Conclusioni, ovvero che la disapplicazione giurisprudenziale del diritto
nazionale per contrasto con norme giuridiche extrastatuali non è
istituto applicabile nei rapporti con la CEDU ed il diritto del
Consiglio d’Europa.
[3] Si tratta della nuova direttiva 07/66, già citata.