Dalla ‹‹Comunità di diritto›› alla Unione dei diritti
/MARIO P. CHITI
Indice sommario: 1. La Comunità di diritto; 2. L’iniziale impostazione del Trattato Cee del 1957; 3. L’evoluzione a seguito del TUE del 1992; 4. Il ruolo del Consiglio d’Europa e della Cedu; 5. Il Trattato del 2007 e il recente Trattato di Lisbona; 6. La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali; 7. Questioni aperte; 8. La tutela dei diritti quale fondamento primario dell’Unione europea.
Da "L'Unione europea nel XXI secolo. "Nel dubbio per l'Europa", volume a cura di Stefano Micossi e Gian Luigi Tosato.
1. La Comunità di diritto
Al
di fuori del mondo istituzionale e giuridico pochi conoscono una delle
più risalenti, ma anche preveggenti definizioni dell’allora Comunità
economica europea come ‹‹Comunità di diritto››. L’autore (Walter
Hallstein, che ne fece uso nel 1965 in un dibattito al Parlamento
europeo) intendeva in tal modo riprendere il succo della nozione del
RechtsStaatPrinzip, applicandola al nuovo pubblico potere europeo da
poco instaurato; ma anche sottolineare il ruolo fondamentale, senza
precedenti, del diritto quale architrave della Cee, caratterizzata così
in modo del tutto originale rispetto agli stati ed alle organizzazioni
internazionali precedenti. La Comunità non era, e tuttora non è, dotata
di un proprio potere coercitivo; come sintetizzò Jean-Victor Louis in
uno studio fondante dell’ordinamento giuridico europeo: ‹‹il diritto che
essa crea è la sola sua forza››.[1]
L’idea della ‹‹Comunità di
diritto›› sottostà alla giurisprudenza costituzionale della Corte di
giustizia negli anni Sessanta. Viene poi assunta in modo esplicito nella
sentenza Parti ecologiste Le Verts (23.4.1986, causa 294/83). Diviene
costante connotazione del plesso Ce/Unione europea in tutta la
successiva giurisprudenza.
Quaranta anni dopo, Biagio de Giovanni per
spiegare ‹‹l’ambigua potenza dell’Europa››[2] si riferisce al
‹‹diritto, alla legge, e poi ai diritti, con il connesso principio
dell’umanità dell’uomo››. Similmente, Tommaso Padoa-Schioppa – non
ancora appesantito dagli oneri di governo – ha intitolato una raccolta
di saggi del 2001 ‹‹Europa forza gentile››[3], con un omaggio allo
scozzese David Hume che della gentle force era stato il propugnatore
teorico e, allo stesso tempo, per definire le caratteristiche
dell’Unione europea quale pubblico potere il cui fondamento sta
esclusivamente nell’adesione volontaria, nella condivisione della nuova
‹‹sovranità sovranazionale›› e nell’avere messo da parte la forza
coercitiva.
In effetti, i cinquanta anni intercorsi dal primo
Trattato di Roma – preceduto dal rodaggio essenziale, ancorché tuttora
poco conosciuto, dell’integrazione europea tramite la Ceca, genuina
organizzazione sovranazionale, ad onta della sua impronta di
organizzazione di missione – mostrano un percorso che sarebbe stato
certo apprezzato da Hume e dai suoi coetanei illuministi, con
l’affermazione nell’Europa unita di uno spazio giuridico unico,
incentrato su la libertà, la sicurezza e la giustizia (per il TUE, art.
2, c. 1, obbiettivo fondamentale dell’Ue). Esito che in pochi anni ha
attirato in modo apparentemente irreversibile stati per lungo tempo
retti da dittature, o scossi da crisi democratiche, o rimasti per vari
decenni al di là del ‹‹muro dell’Europa››.
Va da sé che il processo
di integrazione europea non è stato lineare e costante. Al contrario,
segnato da momenti di stasi e di vera e propria crisi (specie dopo il
Trattato costituzionale del 2004), e costantemente al di fuori di una
precisa cornice istituzionale e di principi.
Malgrado questi limiti –
o, meglio, caratteristiche; dato che non si vede a quale parametro di
riferimento rapportare la vicenda dell’Unione europea, se è vero che si
tratta di un’esperienza senza precedenti – è sicuro che l’intuizione di
Hallstein è stata confermata e la ‹‹Comunità di diritto›› ha svolto e
continua ad esercitare il ruolo di ‹‹forza gentile››.
Come può
essersi verificato un simile sviluppo senza una Dichiarazione dei
diritti, un Bill of Rights o, comunque, senza la previsione nel diritto
primario della Comunità e dell’Unione di un catalogo di diritti? Qual è
oggi la situazione e che cosa si prevede dopo la firma del Trattato di
Lisbona?
È a questi interrogativi che intendo dare risposta, pur in una forma sintetica come richiesto dalla natura del volume.
La
tesi proposta – sviluppata nei successivi paragrafi - è che dai
caratteri della Ce (e, successivamente, della Ue) e dalle particolari
tradizioni costituzionali degli stati europei discendono conseguenze
dirette per il tema dei diritti fondamentali delle persone. Per quanto
riguarda la natura della Ce, la sua qualificazione come Comunità di
diritto non implica solamente che le Istituzioni comunitarie e gli stati
membri siano soggetti al controllo della conformità dei loro atti alla
carta costituzionale di base costituita dal Trattato; ma anche che da
quest’ultimo i singoli possono trarre direttamente i loro diritti (ed
ovviamente anche gli obblighi), a certe condizioni. I singoli rilevano
direttamente come soggetti del nuovo ordinamento giuridico, che in tal
modo si distingue da ogni altro ordinamento internazionale. La Ce opera
poi in un contesto di stati europei fortemente ‹‹costituzionalizzati››,
specie a seguito delle drammatiche vicende della seconda guerra
mondiale; ove i diritti fondamentali sono avvertiti come un patrimonio
costituzionale inalienabile, ben presto (1950) portato a patrimonio
comune per il tramite della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
promossa dal Consiglio d’Europa.
È dunque inerente al sistema Ce/Ue
che i singoli possano vantare diritti in modo diretto ed immediato, ad
iniziare ovviamente dai diritti fondamentali, sia verso i rispettivi
stati (i cui giudici sono tenuti ad applicare direttamente le relative
norme comunitarie) che le Istituzioni europee. Come la Corte di
giustizia sintetizza nella più recente sentenza in argomento (26.6.2007,
causa C-305/05, Ordini Avvocati Belgio/Consiglio), ‹‹i diritti
fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto
comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto,
ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri ed
in particolare alla Convenzione di Roma››.
2. L’iniziale impostazione del Trattato Cee del 1957
Il
Trattato Cee del 1957 evitava accuratamente ogni riferimento ai diritti
ed alle libertà fondamentali, conformemente al criterio funzionalistico
di realizzare il massimo possibile di risultati concreti senza una
forte premessa istituzionale e politica, per cui i tempi non erano
considerati ancora maturi.
Ma il medesimo Trattato prevedeva le
libertà economiche essenziali all’instaurazione del mercato unico
(stabilimento, circolazione, ecc.), presto intese dalla Corte di
giustizia come vere e proprie libertà costituzionali.
Oltre alle
libertà funzionali al mercato comune, la Corte di giustizia ha inteso
segnare l’assoluta originalità della Cee (tanto più tale con la
successiva evoluzione a Ce e con l’istituzione della Ue) sin dalla
giurisprudenza dei primi anni Sessanta dello scorso secolo. In
particolare con l’affermazione (sentenza Van Gend & Loos, 5.2.1963,
causa 26/62) che i soggetti dell’ordinamento comunitario non sono
soltanto gli stati, ma anche i loro cittadini; e che il sistema
comunitario va al di là di un singolo accordo che si limita a creare
degli obblighi reciproci fra gli stati membri contraenti, dato che
incide direttamente sui soggetti della Comunità.
Il singolo di cui
parla il giudice comunitario non può non avere diritti nei rispetti
della Comunità, oltre che degli stati membri; considerando anche che dal
sempre più vasto diritto comunitario derivano situazioni giuridiche per
i singoli e che questi possono invocare il principio dell’effetto
diretto (altra creazione originale della Corte di giustizia) per
un’effettiva tutela di queste situazioni giuridiche da parte dei giudici
nazionali.
Le libertà economiche intese come diritti fondamentali e i
sempre più frequenti diritti (intesi nel senso ampio, proprio del
diritto europeo, di situazioni giuridiche soggettive di vantaggio)
scaturenti dal diritto comunitario non potevano non portare alla
rifondazione nel nuovo ordinamento della questione dei diritti
fondamentali; come già avvenuto negli ordinamenti statali con le
costituzioni degli ultimi due secoli.
Nella medesima direzione
conduceva poi il metodo seguito dalla Corte di giustizia (è giusto
richiamare più volte il ruolo fondamentale di questa istituzione per
l’edificazione delle basi giuridiche dell’integrazione europea, senza
pari nelle esperienze ordinamentali sinora note) per l’individuazione
dei ‹‹principi generali del diritto comunitario››, incentrato nella
prima fase nell’individuazione delle tradizioni giuridiche comuni agli
stati membri. Era chiaro che individuando tali principi generali – atti
fonte con forza giuridica cogente – nel principio di legalità, nella
certezza del diritto, nell’eguaglianza e simili, ci si appropinquasse
direttamente alla tematica dei diritti fondamentali. Questi sono, in
effetti, parte essenziale delle tradizionali costituzionali comuni degli
stati membri ed inoltre sono affermati dalla Convenzione europea dei
diritti fondamentali, promossa dal Consiglio d’Europa ed alla quale
hanno aderito tutti gli stati membri della Ue.
Non era dunque
inaspettato che la Corte di giustizia affermasse già nel 1969, nel caso
Stauder (sentenza 12.11.1969, causa 26/69), che ‹‹i diritti fondamentali
della persona fanno parte dei principi generali del diritto
comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza››. A partire dalla
successiva sentenza Internationale Handelsgesellschaft (17.12.1970,
causa 11/70) la statuizione diviene costante nella giurisprudenza della
Corte di giustizia.
Come è stato rilevato da Federico Mancini,
‹‹leggere nel diritto comunitario un non scritto Bill of Rights
rappresenta invero il più incisivo contributo della Corte allo sviluppo
di una Costituzione per l’Europa››.[4]
La Corte non era comunque
interessata solo allo sviluppo dei diritti dei singoli, dato che un
risvolto essenziale della sua innovativa giurisprudenza riguardava anche
la ‹‹comunitarizzazione›› di una rilevante parte delle discipline
costituzionali nazionali, con l’accentuazione del ‹‹primato›› del
diritto europeo e del processo di integrazione tra ordinamenti nazionali
e ordinamento europeo. Il punto è già evidente nella citata sentenza
Internationale Handelsgesellschaft, ove si afferma che la tutela dei
diritti fondamentali ‹‹pur essendo informata alle tradizioni
costituzionali comuni agli stati membri, va garantita entro l’ambito
della struttura e delle finalità della Comunità››; altrimenti, il
richiamo a norme o nozioni di diritto nazionale ‹‹minerebbe l’unità e
l’efficacia del diritto comunitario››.
3. L’evoluzione a seguito del TUE del 1992
Con
l’istituzione dell’Unione europea nel 1992 i diritti fondamentali
trovano – si può dire, inevitabilmente – riconoscimento nel Trattato di
Maastricht. Dopo la conferma, al terzo alinea del Preambolo,
dell’‹‹attaccamento ai principi (…) del rispetto dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto››, all’art. F
(poi divenuto 6 TUE), si afferma (c. 1) che l’Ue si fonda sui principi
ora ricordati.
Ma con il passaggio da un approccio essenzialmente
giurisprudenziale al tema dei diritti fondamentali alla loro
costituzionalizzazione nel Trattato Ue, emergono i problemi della
triplice loro dimensione (nazionale, dell’Ue e della Cedu) e della
difficoltà alla loro piena giustiziabilità. Si tenga conto, in effetti,
che l’Ue non ha sino ad oggi aderito alla Cedu, anche per il contributo
della Corte di giustizia (basti ricordare il parere 2/94, secondo cui
non vi era competenza per aderire alla Cedu, espressione di un diverso
sistema giuridico internazionale); che i diritti fondamentali sono
riconosciuti quali parte dei ‹‹principi generali di diritto
comunitario››, che hanno una precisa posizione nel sistema delle fonti
di diritto; che le corti costituzionali degli stati membri sono
recalcitranti a dismettere le proprie competenze a tutela dei diritti
fondamentali (emblematiche le recenti sentenze nn. 348 e 349/2007 della
Corte costituzionale, in seguito meglio analizzate).
La soluzione a
questi problemi apparve la convocazione della Convenzione, organo
speciale costituito ad hoc, inedito nel diritto europeo, che già dal
nome richiamava gloriose esperienze costituzionali. Pur se non ancora
caratterizzata dal netto distacco dal ‹‹metodo intergovernativo›› che ha
avuto, poco tempo dopo, la Convenzione da cui è scaturito nel 2003 il
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, la prima Convenzione
ha lavorato in larga autonomia dagli stati membri ed ha prodotto un
testo di notevole rilievo.
La Carta dei diritti fondamentali per
l’Europa – pur discussa e su certe parti poco convincente, come le
‹‹disposizioni generali›› finali – manifesta l’evoluzione di molti
diritti di ‹‹prima generazione›› (così, al tradizionale diritto al
lavoro si affianca il diritto di lavorare e la libertà professionale,
art. 15), formalizza i diritti emersi negli ultimi decenni (es.
protezione dei dati di carattere personale, art. 8; diritti del bambino,
art. 24; diritti degli anziani, art. 25), afferma diritti originali,
come i diritti verso la pubblica amministrazione (art. 41, diritto ad
una buona amministrazione), che danno sostanza alla cittadinanza
europea.
L’atipicità del procedimento di elaborazione della Carta ha
avuto un seguito anche con l’atipicità della sua adozione, avvenuta
fuori degli schemi previsti dai Trattati con un’inedita
‹‹proclamazione›› da parte del Parlamento europeo, della Commissione e
del Consiglio nel dicembre 2000. Dopo l’epilogo negativo del Trattato
costituzionale del 2004, la Carta è stata oggetto di qualche ritocco
formale ed approvata dal Parlamento europeo, a larghissima maggioranza,
nel novembre 2007. Indi, con altro atto atipico, nuovamente
‹‹proclamata›› nell’Aula plenaria del Parlamento europeo dai Presidenti
del Parlamento, del Consiglio e della Commissione.
Era da aspettarsi
che l’originalità della Carta – suggello costituzionale alla nuova
Unione europea – determinasse resistenze e reazioni. In effetti, alla
Carta non è stato riconosciuto un preciso valore giuridico e il suo
inserimento nel Trattato costituzionale del 2004, quale Parte II, ha
contribuito alla crisi successiva.
Malgrado queste difficoltà, è
stata facile profezia affermare che la Carta di Nizza rappresenta un
risultato irreversibile, componente l’acquis comunitario. In effetti,
pur non avendo la Carta carattere vincolante ad essa si sono rifatti più
volte gli Avvocati generali per arricchire le loro conclusioni; i
giudici della Corte ne hanno parlato come ‹‹fonte di ispirazione››; i
tribunali nazionali si sono talora riferiti ad essa per corroborare le
proprie sentenze; la Corte costituzionale ne ha riconosciuto il rilievo
interpretativo (sentenza n. 349/2007).[5]
4. Il ruolo del Consiglio d’Europa e della Cedu
Parallelamente
alle vicende dell’Unione europea, si è molto rafforzato il ruolo della
Corte europea dei diritti dell’uomo, preposta a garantire i diritti
contemplati dalla Cedu.
Specialmente a seguito delle riforme del
1994-99, la Corte di Strasburgo è divenuta più accessibile per i singoli
e si è ampliato l’ambito delle questioni da essa esaminabili. Gli esiti
sono particolarmente incisivi nei confronti di stati che, pur aderendo
alla Convenzione, ne rimangono per vari aspetti lontani. Emblematico
proprio il caso italiano, che negli ultimi anni è stato ‹‹obbligato››
alla riforma dell’art. 111 Costituzione sul giusto processo, alle
conseguenti innovazioni legislative (come la legge n. 12/2006) e ad una
vera svolta in tema di diritto di proprietà e potere espropriativo
(quest’ultima vicenda si è per ora conclusa con la nota sentenza
Scordino, 29.3.2006, della Corte di Strasburgo e con le sentenze nn. 348
e 349/2007 della Corte costituzionale).
La Cedu si pone come un
cuneo tra la Carta di Nizza e le Costituzioni nazionali. Per quanto
riguarda il diritto dell’Ue, non si tratta tanto di impostazioni diverse
dei due testi fondamentali (che pure in parte esistono), quanto del
ruolo della Corte di Strasburgo che finisce per sottrarre spazio alla
Corte di giustizia. La giurisprudenza di quest’ultima cerca di combinare
le risultanze della prima con un proprio autonomo approccio, ma non
sempre con risultati convincenti. In ogni caso, la Corte di giustizia
deve assumere quale ‹‹dato›› le risultanze della giurisprudenza della
Corte dei diritti, per la sua esclusiva competenza nell’interpretazione
della Cedu.
I problemi maggiori emergono nella combinazione con gli
ordinamenti nazionali. Emblematico il caso italiano, ove, per quanto si
cerchi di dimostrare che la Cedu è sostanzialmente in linea con le
corrispondenti disposizioni nazionali, emergono vistose asimmetrie. Il
caso più evidente è quello del diritto di proprietà e del potere di
esproprio, ove varie parti della normativa italiana – più volte
considerate compatibili con l’art. 42 della Costituzione – sono apparse
contrastare con le garanzie della proprietà previste dalla Cedu (art. 6
Cedu e art. 1 Protocollo addizionale del 1952). In breve, mentre la
disciplina costituzionale della proprietà esalta anche la sua ‹‹funzione
sociale›› e ne legittima rilevanti condizionamenti per quanto attiene i
modi di acquisto e di godimento, la Cedu – come interpretata dalla
Corte di Strasburgo - non lascia adito ad una tutela dimidiata del
diritto di proprietà.
Alla rilevanza (e primazia) della Cedu non
segue però nel nostro ordinamento un corrispondente ruolo formale, dato
che la Convenzione è stata immessa nell’ordinamento con una legge
ordinaria di adattamento, come ogni altro trattato internazionale. Per
quanto evidente che la Cedu tratta di questioni oggettivamente
costituzionali (i diritti fondamentali, appunto), sino alla riforma
dell’art. 117, c. 1, Cost. non si è potuto seriamente porre una
questione particolare per la Convenzione rispetto al resto degli
obblighi internazionali. Solo da ultimo, per riconoscere il primato
della Cedu alcuni giudici hanno tentato – in modo giuridicamente
sbagliato, in quanto non si può riconoscere alle norme della Cedu il
carattere di effetto utile – di forzare le regole generali, tramite
l’istituto (di origine comunitaria e proprio solo di quel sistema) della
disapplicazione del diritto nazionale contrastante con la Cedu.
5. Il Trattato del 2007 e il recente Trattato di Lisbona
Il
sistema sta fortunatamente progredendo verso un chiarimento sui punti
di maggiore importanza, per il concorso di fattori europei e nazionali.
Per
quanto riguarda l’Ue, il Trattato di Lisbona prevede – nella parte che
modifica il Trattato sull’Unione europea – varie disposizioni che ben
esprimono la nuova centralità del tema dei diritti. Nel Preambolo è
introdotto un secondo capoverso, secondo cui dalle eredità dell’Europa
‹‹si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e
inalienabili della persona, della libertà, della democrazia,
dell’eguaglianza e dello Stato di diritto››.[6]
Si chiarisce poi
definitivamente che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, ‹‹ha lo stesso valore giuridico dei Trattati›› (punto 8, che
sostituisce l’art. 6 TUE). La Carta rimane dunque un testo a sé stante
rispetto ai due nuovi Trattati; ma la circostanza – voluta
principalmente dai britannici per attenuare la forma costituzionale del
nuovo Trattato Ue – può avere un effetto paradossalmente positivo,
ponendo la Carta quale atto che si pone prima e comunque a parte del
TUE, in modo similare al Bill of Rights nel sistema costituzionale degli
Stati Uniti.
Altri passaggi chiarificatori sono l’impegno espresso
per l’Ue di aderire alla Cedu (art. 6, c. 2, novellato) e la
(ri)collocazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu nel nuovo
quadro delle fonti del diritto dell’Ue (art. 6, c. 3, novellato).
Non
tutte le questioni sono state risolte dal Trattato di Lisbona (specie
per la giustiziabilità dei diritti ed il ruolo della Corte di
giustizia), ed altre se ne aprono (come per la peculiare posizione
in-out consentita a Regno Unito e Polonia), ma gli osservatori europei
sono avvezzi a soluzioni compromissorie e nel nuovo Trattato prevalgono
comunque le disposizioni innovative.
6. La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali
Nell’attesa
delle ratifiche e dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con
un processo politico-istituzionale che sulla carta si presenta meno
difficile del precedente relativo al Trattato costituzionale del 2004,
per il diritto italiano la questione più attuale e controversa attiene
alla compenetrazione tra il sistema dei diritti costituzionali e quello
della Cedu; alla luce della già ricordata riforma dell’art. 117, c. 1,
Costituzione.
La questione è stata finalmente affrontata appieno
dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007; la cui
importanza è inversamente proporzionale al silenzio mediatico che le ha
accompagnate (salvo che per le conclusioni sul tema degli espropri, che
ne rappresentava l’occasione), quasi che la tematica dei diritti
fondamentali sia argomento iniziatico per sette di edotti.
Le due
sentenze ora citate sono complesse, anche per la curiosa circostanza di
avere una motivazione generale sulla portata dell’art. 117, c. 1, Cost.
affidata a due diversi relatori e svolta con argomenti simili, ma non
identici. Vengono qua esaminate solo per le implicazioni generali che ne
derivano.
La Corte costituzionale ha seguito i seguenti principali
argomenti: a) allo stato dell’evoluzione giuridica (ben sa la Corte
dell’imminente assorbimento della tematica dei diritti fondamentali nel
sistema dell’Ue) il diritto Cedu rimane realtà giuridica distinta dalla
Ce; b) la Cedu è giuridicamente peculiare rispetto alla generalità degli
accordi internazionali, ad iniziare dal sistema di tutela uniforme dei
diritti fondamentali; c) il rapporto tra la Cedu e gli ordinamenti
giuridici degli stati rimane ‹‹saldamente disciplinato da ciascun
ordinamento nazionale››; d) la riforma dell’art. 117, c. 1, Cost. colma
finalmente la lacuna per questo tipo di rapporti e ‹‹si collega, a
prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Costituzione, al
quadro dei principi che espressamente già garantivano a livello primario
l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo
Stato››; e) con la nuova disposizione si determina un rinvio mobile alla
Cedu, qualificabile come norma interposta; f) ferma rimanendo la
competenza della Corte europea per l’interpretazione centralizzata della
Cedu, alla Corte costituzionale spetta in ultima istanza di verificare
che le norme Cedu, di volta in volta richiamate, assicurino una tutela
dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla
Costituzione italiana.
Le motivazioni sono condivisibili su vari
aspetti, ad esempio, per l’erronea utilizzazione da parte di alcuni
giudici nazionali del potere di disapplicazione delle norme interne e
sul carattere originale dell’art. 117, c. 1, novellato, rispetto
all’art. 10 Cost. e ad altre disposizioni ‹‹internazionalistiche›› della
Costituzione. Ma, nel complesso, lasciano l’impressione che il diritto
della Cedu sia stato considerato una variante del diritto
internazionale, per quanto importante, che si colloca come mera ‹‹norma
interposta›› rispetto alla Costituzione. Laddove per le particolari
caratteristiche della Convenzione, in sé ed alla luce dell’uso fattane
nel diritto dell’Ue, si sarebbe dovuto assicurare una collocazione a
parte rispetto ai normali obblighi internazionali. Lo stesso dicasi per
il potere che la Corte costituzionale si riserva in ordine alla
‹‹verifica di corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il
rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e
quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus
alla Costituzione stessa››.
Nell’insieme, dalle due sentenze si
ricava l’impressione che – una volta digerite le posizioni della Corte
di giustizia sul diritto Ue; con fatica, e non fino in fondo, come
dimostra la questione dell’unitarietà o meno degli ordinamenti – la
Corte costituzionale abbia inteso riservarsi in linea di principio un
ruolo ‹‹difensivo›› dei diritti a base costituzionale. Ancorché poi
debba accettare le conclusioni della Corte di Strasburgo, anche su temi
ove si manifestano oggettive diversità tra le due impostazioni.
Emblematica proprio la tematica dell’espropriazione, occasione delle due
sentenze sopra citate.
7. Questioni aperte
Rimangono
pure nel diritto dell’Ue, come detto, questioni irrisolte e difficoltà
applicative. Si pensi che nel contesto del futuro Trattato Ue (ovvero
come modificato dal Trattato di Lisbona) i diritti fondamentali derivano
sia dalla Carta che dalla Cedu, ma sono anche risultanti dalle
tradizioni costituzionali comuni agli stati membri. Per quanto riguarda
il sistema delle fonti, i diritti garantiti dalla Cedu e quelli
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni fanno parte del
diritto dell’Unione in quanto principi generali.
Il modello
complessivo non è di preclara chiarezza. Infatti, con la conclusione del
processo di revisione, da un lato, i diritti fondamentali previsti
dalla Carta avranno rango costituzionale (la Carta possedendo, come
detto, lo stesso valore giuridico dei trattati); dall’altro, i diritti
garantiti dalla Cedu e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli stati membri avranno invece rango di ‹‹principi generali››,
ovvero non costituzionale.
Inoltre, il riconoscimento del valore
giuridico della Carta è accompagnato da molte (troppe, probabilmente)
cautele, quali il ‹‹considerando›› del Protocollo sull’applicazione
della Carta alla Polonia e al Regno Unito secondo cui ‹‹la Carta
ribadisce i diritti, le libertà ed i principi riconosciuti nell’Unione e
rende detti diritti più visibili, ma non crea nuovi diritti o
principi››. Laddove per molti dei diritti ivi contemplati è evidente
l’assoluta novità.
8. La tutela dei diritti quale fondamento primario dell’Unione europea
Per
quanto rilevanti siano i problemi ancora aperti, è certo che nessun
altro ordinamento giuridico ha realizzato come l’Unione europea un
sistema integralmente basato sul diritto e sulle garanzie dei diritti
fondamentali delle persone. In specie, la libertà, il principio
democratico e la solidarietà assicurata dall’economia sociale di mercato
sono divenuti, pur nel volgere breve di alcuni decenni, una situazione
tanto acquisita e goduta dai cittadini europei da farla considerare un
fatto ‹‹naturale››, più che l’esito positivo di una politica
lungimirante. Nulla, in verità, è tanto costruito e voluto come questa
principale connotazione dell’Unione europea.
Lo ‹‹Stato di diritto››
ed i diritti fondamentali esercitano così un duplice ruolo: all’interno
dell’ordinamento europeo ne rappresentano il fondamento primario,
creando le premesse di un nuovo senso di appartenenza dei cittadini
europei; all’esterno, si pongono in modo propulsivo sia per i paesi
interessati a far parte dell’Unione che per tutti gli altri che con essa
hanno a che fare.
Per i cittadini dell’Unione si tratta di acquisire
la consapevolezza che l’Unione è più di ogni altro ordinamento un
sistema di libertà effettivamente funzionanti e garantite. È su questo
pilastro costruito dalla stessa Unione, più che su discutibili retaggi
del passato (le eredità europee di cui tanto si è discettato in
occasione del Trattato costituzionale del 2004) che si deve basare
l’identità europea.
All’esterno, l’Unione esercita, come detto, il
suo ruolo propulsivo per la progressiva estensione – sempre in modo
‹‹gentile›› e non coercitivo – della democrazia e della sicurezza
comune. Grazie alla peculiarità di uno spazio europeo non predefinito,
l’originaria Europa dei sei stati fondatori della Cee si è estesa, tappa
dopo tappa, agli attuali ventisette stati membri, determinando per
ciascuno di essi profondi adeguamenti. L’influenza positiva dell’Ue va
oltre i suoi mobili confini, condizionando positivamente gli stati
interessati all’adesione (dalla Turchia ai Balcani) e gli stati legati
da particolari rapporti commerciali. L’Unione europea sta così divenendo
il ‹‹faro delle libertà›› per il mondo intero.
Occorre dunque che
nel processo di ratifica del nuovo Trattato di Lisbona, per quanto
incentrato formalmente sul ruolo dei parlamenti nazionali, si sottolinei
all’opinione pubblica europea (la più avvertita e consapevole nel
mondo) il ruolo cruciale dei diritti e dello Stato di diritto. Non sono i
complessi meccanismi istituzionali ed economici che possono creare una
nuova ‹‹cittadinanza europea››, bensì l’effettività di un sistema in cui
‹‹il diritto decide il potere, non il potere il diritto››.[7]
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[1] J.V. Louis, L’ordinamento giuridico comunitario, Bruxelles-Luxembourg, Commissione delle Comunità europee, 19893, p. 43 ss.
[2] B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, p. 29.
[3] T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Bologna, Il Mulino, 2001.
[4] F. Mancini, The Making of a Constitution for Europe, in ‹‹Common Market Law Review››, 1989, p. 595, p. 611.
[5]
Nelle sterminata bibliografia sul tema, basti qua ricordare gli
ispirati scritti di J.H.H. Weiler, La Costituzione dell’Europa, Bologna,
Il Mulino, 2003. Una panoramica d’insieme assai efficace in F.
Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in ‹‹Rivista italiana di
diritto pubblico comunitario››, 2005, p. 79 ss. Cfr. inoltre: A.
Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, Il Mulino,
2002; S. Panunzio (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in
Europa, Napoli, ES, 2005; G. Silvestri, Verso uno jus comune europeo dei
diritti fondamentali, in ‹‹Quaderni costituzionali››, 2006, p. 7 ss.
Per quanto riguarda i nuovi diritti nei confronti dell’amministrazione,
previsti dalla Carta, cfr. F. Trimarchi Banfi, Il diritto ad una buona
amministrazione, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto
da M.P. Chiti e G. Greco, Milano, Giuffrè, vol. I°, p. 49 ss.
[6]
Sulle vicende del Trattato costituzionale del 2004 e della successiva
elaborazione del Trattato di Lisbona, le due opere di J. Ziller, La
nuova Costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2004 e Il nuovo Trattato
europeo, Bologna, Il Mulino, 2007.
[7] H.G. Poettering, Discorso al
Parlamento europeo in occasione dell’approvazione definitiva della Carta
dei diritti, novembre 2007.