Dichiarazione delle condanne penali ex art. 38: oneri del dichiarante tra esigenze di rigore e di buon senso
/F.B.
L’art. 38 è norma di ordine pubblico, e se non è applicabile analogicamente, va interpretata con rigidità. Lo ribadisce il Consiglio di Stato, con la decisione della V Sezione, n. 2364 del 20 aprile 2009, in materia di dichiarazione dei reati incidenti sulla moralità professionale.
È noto che l’art. 38 del Codice, tra le altre, vieta la partecipazione ai concorrenti i cui amministratori (chi di preciso essi siano peraltro non è univoco) e direttori tecnici – anche cessati – abbiano subito condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità professionale”. Stilare un elenco delle problematiche poste dalla norma sarebbe attività complessa, visto che non c’è profilo che, sia in dottrina che in giurisprudenza, non abbia posto dubbi interpretativi.
Tra le varie questioni emerse, si segnala quella all’attenzione del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento: se il concorrente possa limitarsi, nel rendere la dichiarazione di moralità, ad indicare le condanne per reati - a sua opinione – gravi, ovvero se l’onere in questione implichi la dichiarazione di tutti i reati, gravi o meno, spettando poi alla stazione appaltante valutare se si rientri o meno nelle ipotesi di esclusione.
Va evidenziato che buona norma imporrebbe – per opportuna cautela (fosse solo per le sanzioni sia penali sia interdittive alla partecipazione connesse alle false dichiarazioni) – di rendere comunque una dichiarazione completa, relativa sia ai reati gravi incidenti sulla moralità, sia ai reati non gravi e/o non incidenti sulla affidabilità professionale. D’altro canto, si tratta di uno di quei casi (come la regolarità contributiva) ove (cfr.art. 38 d.lgs. n. 163/2006) l’autodichiarazione resa ai sensi del d.p.r. n. 445/2000 non sostituisce la verifica diretta dell’Ente, tenuto comunque ad acquisire il certificato del casellario giudiziario; con la precisazione che il casellario in questione, poiché a richiesta della pubblica amministrazione, contempla l’annotazione di tutti quei precedenti (ad esempio, patteggiamenti e decreti penali di condanna) che non compaiono nel casellario a richiesta del privato. Cautela tantopiù opportuna, dal momento che la giurisprudenza in molti casi ha ritenuto “gravi e incidenti” condanne anche per reati di genere assai modesto (come le contravvenzioni) senza dare peso a profilo come la pena concretamente irrogata, la concessione della non menzione, la condizionale.
È discutibile, peraltro, se davvero il concorrente debba dichiarare tutti i reati anche quelli all’evidenza non gravi o non incidenti sulla moralità professionale; o, più in concreto, se possa dirsi mendace la dichiarazione di chi operi una simile cernita, pretermettendo di menzionare condanne che egli non ritiene rientrare nell’art. 38.
L’orientamento forse prevalente – qui ribadito da Palazzo Spada – è tuttavia estremamente rigoroso: “va decisamente ripudiata la tesi secondo cui l’art. 38 imporrebbe al singolo concorrente di dichiarare unicamente i reati gravi, e non già tutti quelli ascritti in via definitiva…. La legge obbliga i partecipanti alle gare a rendere dichiarazioni complete e veritiere, e quindi recanti l’esatta indicazione di tutti i precedenti penali, ivi inclusi quelli per i quali sia stato concesso il beneficio della non menzione …; qualora difettasse la precisa e esaustiva rappresentazione di tutte le condotte …, la stazione appaltante non sarebbe in grado di stimare la gravità e l’eventuale incidenza sul requisito della moralità”; e d’altronde, la normativa si presterebbe “a facili abusi, e verosimilmente ad una sistematica elusione”.
Si conferma pertanto la tesi di chi ritiene, per dirla con altra analoga e recentissima giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, n. 3215 del 27 marzo 2009), che “nelle gare di appalto pubblico, la mancata dichiarazione dell'esistenza di condanne penali costituisce una circostanza che ha valore autonomo e che incide sulla moralità professionale del soggetto, a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato… Il Consiglio di Stato ha infatti di recente statuito che l'esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti, quali la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna, si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara (Consiglio Stato, Sez. V, 12 aprile 2007, n. 1723; in termini, anche Consiglio di Stato, Sez. V, 6.6.2002, n. 3183) perché la valutazione circa la sussistenza del requisito della moralità professionale spetta alla stazione appaltante e non al concorrente, sicché quest'ultimo non ha il potere di anticipare tale giudizio omettendo nella sua dichiarazione dati penalmente rilevanti (Consiglio Stato, sez. V, 06 dicembre 2007, n. 6221)”.
Insomma, chi rende la dichiarazione deve – pena l’esclusione – far menzione di tutte le condanne, siano esse, o meno, per reati gravi incidenti sulla moralità (altra questione è se possano omettersi le pronunce per le quali sia intervenuta riabilitazione, estinzione o depenalizzazione, su cui – more solito – la giurisprudenza è più che mai divisa). Altra giurisprudenza aderisce invece ad un criterio sostanziale, e ritiene che sia del tutto legittimo che il concorrente – in mancanza di diversa previsione della lex specialis – indichi le sole sentenze che a suo ritenere rientrano nell’elencazione di cui all’art. 38.
Ad esempio, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 8 settembre 2008, n. 4244, per la quale “il fondamento dell'esclusione dalla gara pubblica per difetto del requisito della c.d. moralità professionale … è di evitare l'affidamento del servizio a chi ha commesso reati lesivi degli stessi interessi collettivi che, in veste d'aggiudicatario, sarebbe chiamato a realizzare; data la premessa, discende da essa la duplice conseguenza che il difetto del requisito della moralità professionale non concerne tutti i reati commessi dall'imprenditore …, e che il partecipante alla gara, nel rendere la dichiarazione… ben può operare un giudizio di rilevanza delle singole condanne subite e ritenere che i relativi fatti non incidano sulla moralità professionale, senza incorrere nel mendacio dell'autocertificazione resa”.
Nello stesso senso la recentissima pronuncia del T.A.R. Lazio Roma, n. 3984 del 20 aprile 2009 (per inciso tre settimana dopo la sentenza n. 3215, dietro citata, del medesimo T.A.R, di segno del tutto opposto): “ai fini dell’esclusione dalla gara di appalto per incompleta o infedele dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici) per il requisito della "moralità professionale", non è sufficiente la sola mancata dichiarazione, ma occorre indagare se il reato per il quale si è verificata la mancata dichiarazione incida effettivamente sul requisito di affidabilità morale richiesto dal Codice per essere destinatari dell’affidamento di una commessa pubblica”.
L’ennesimo contrasto interpretativo, insomma, posto da una norma, all’atto pratico, tutt’altro che azzeccata (nonostante all’atto di redigerla fosse già maturata l’esperienza del Regolamento di esecuzione della legge Merloni).
In verità, ad opinione di chi scrive, se è vero che la norma è poco chiara, è anche vero che, trattandosi di clausola sotto comminatoria di esclusione, il criterio della “stretta interpretazione” dovrebbe pur sempre fare da guida.
Da questo punto di vista, logica vorrebbe che si avesse riguardo alla lex specialis, la quale dovrebbe farsi carico, se mai, di chiarificare la portata dei vari adempimenti.
Quando la legge di gara si limita – come spesso accade – a imporre di dichiarare genericamente l’insussistenza di cause di esclusione, ovvero l’insussistenza di condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità”, magari predisponendo apposito modulo di dichiarazione di identico tenore, pretendere che il concorrente menzioni anche pregressi bagatellari appare francamente eccessivo.
E è proprio questo il punto: perché, se talvolta i bandi si prodigano nel richiedere (perché no, ripetendosi all’infinito) la dichiarazione di tutti i reati, nel qual caso almeno vi è chiarezza, spesso gli atti di gara utilizzano locuzioni generiche, che inducono davvero a ritenere che chi sottoscrive la dichiarazione ex art. 38 deve operare una cernita tra condanne rilevanti e irrilevanti.
Nel qual caso, quando il bando sia equivoco, sulle esigenze di rigore dovrebbe prevalere forse il principio di affidamento, anche tenuto conto che l’Amministrazione può ben operare un vaglio più approfondito in sede di verifica dei requisiti post aggiudicazione, sulla base del casellario.
La sentenza in questione – se con la motivazione esaminata si appalesa più che rigida – in ulteriore parte cede a una lettura più aperta.
Esaminando separato e diverso motivo, infatti, il Consiglio di Stato afferma invece che, per i soggetti cessati (ma ciò può valere anche più in generale), non sussiste un mendacio rilevante allorché venga omessa la dichiarazione di reati non risultanti dal casellario giudiziario.
Il problema è più che noto: secondo il Testo unico che disciplina la materia, il casellario a richiesta dell’amministrazione contempla tutte le varie tipologie di condanne, mentre quello a richiesta del privato (si noti: il “titolare” delle condanne, e non il soggetto terzo, che a quei dati non ha alcun accesso) non indica né i patteggiamenti né i decreti penali, e ciò a prescindere se sia stata concessa o meno la sospensione condizionale o la non menzione.
In breve, se un soggetto ha subito ad esempio un decreto penale, questo non risulta nel casellario comune, bensì risulta nel solo casellario a istanza dell’amministrazione. Con la conseguenza che l’Impresa non può materialmente avere conoscenza di tale reato in capo a un proprio amministratore, direttore tecnico, o procuratore, a meno che non sia questi a darne comunicazione: circostanza assai grave nel caso di soggetti cessati, perché in questi casi, giocoforza la dichiarazione non è resa dal cessato, bensì da altri per suo conto (ancorchè certa, per fortuna isolata, giurisprudenza si sia spinta, persino, a pretendere la dichiarazione personale del soggetto cessato dalla carica).
Pertanto, al momento di partecipare a una gara, il massimo della diligenza che può gravare sull’amministratore, per essere sicuri della veridicità della dichiarazione circa i cessati dalle cariche nel triennio, consiste nell’obbligare questi (tra l’altro, si tratta di un obbligo cui il destinatario potrebbe anche non voler adempiere) a produrre il casellario; il quale, nondimeno, non menziona né i decreti penali né le sentenze di patteggiamento, quale che sia il reato in questione.
Quid, pertanto, nel caso la dichiarazione circa il cessato si mostri mendace, senza colpa dell’amministratore dichiarante? Anche qui la giurisprudenza si è divisa.
Per un primo filone, quanto descritto non esime, pena l’esclusione, dall’obbligo di una dichiarazione veritiera, senza necessità di indagare sulla buona fede.
Ad esempio, T.A.R. Trentino Alto Adige, 2 dicembre 2008, n. 309, per la quale, nel caso di soggetti cessati, “è legittima l'esclusione dichiarata a carico dell'offerente a seguito dell'emersione, in seguito a verifica d'ufficio dei requisiti di partecipazione, a carico dell'amministratore cessato dalla carica nel triennio antecedente alla pubblicazione del bando di tre sentenze ex art. 444 c.p.p. iscritte nel certificato del casellario a tal fine acquisito, a nulla rilevando che la ditta offerente abbia usato l'ordinaria diligenza nell'acquisizione delle citate informazioni”. Per altra giurisprudenza, invece, “non può ritenersi scientemente falsa allorché corrisponda alle risultanze del certificato del casellario giudiziale rilasciato su richiesta dell’interessata ai sensi dell’art. 23 ss. d.p.r. n. 313/2002, posto che il certificato contenente la totalità delle iscrizioni che riguardano una determinata persona può essere acquisito esclusivamente dalla p.a. ed è inaccessibile all’interessato” (T.A.R. Veneto, I, 15 novembre 2005, n. 3949); cfr. anche A.V.CC.PP., determinazione n. 75 del 6.3.08, la quale ha dato atto della “impossibilità per l’impresa di conseguire certificazioni relative ai soggetti cessati, in quanto le stesse sono richiedibili solo da parte del soggetto interessato”. Di pari avviso la sentenza qui in commento, per la quale “non può non considerarsi che la condanna …obbiettivamente non risultava dal certificato generale del casellario, né emerge dagli atti che il dichiarante avesse precedentemente avuto in altro modo piena conoscenza del decreto in questione”, con le ricadute del caso in punto di insussistenza “dell’atteggiamento psicologico”.
Questa lettura è, ad opinione di chi scrive, non solo condivisibile, ma anche l’unica conforme ai criteri di logica e proporzione (tantopiù quando si ritenga, come affermato in talune recenti pronunzie, che la dichiarazione effettuata “per quanto a conoscenza” è da intendersi inutiliter data).
L’aderire all’orientamento diverso – per il quale ogni mendacio obiettivo, sia esso colpevole o incolpevole, comporta di per sé l’esclusione – porta a esiti davvero paradossali: semplificando, le Imprese con soggetti cessati nel triennio antecedente il bando non potrebbero mai partecipare alle gare con la certezza di non incorrere in false dichiarazioni, e quindi la presentazione di offerta equivarrebbe, sempre e comunque, a correre il rischio di dichiarare dati mendaci.
Giusto, allora, quando la dichiarazione non riguardi la posizione propria del dichiarante, e cioè in tutti i casi di dichiarazioni “per conto terzi”, dare rilievo alla buona fede, quando, come nel caso, non vi sia alcuno strumento giuridico (essendo il casellario inaccessibile ai terzi) per appurare con certezza assoluta l’assenza di condanne.
L’art. 38 del Codice dei contratti, tuttavia, resta tutt’oggi in equilibrio precario.