Non può partecipare alla gara l’Impresa il cui oggetto sociale non ricomprenda l’attività appaltata

M.M.
Il Consiglio di Stato con la decisione n. 1357 del 9 marzo 2009 afferma il principio per il quale per partecipare ad una gara di appalto occorre che lo specifico oggetto della commessa sia ricompreso nell’oggetto sociale, quantomeno quando la lex specialis richieda di depositare agli atti di gara la visura camerale.
Nello specifico, la stazione appaltante aveva provveduto ad escludere una società da una gara per “l’affidamento del servizio di raccolta differenziata” essendo richiesto, fra gli oggetti del servizio, lo svolgimento di una “campagna informativa annuale”, non risultante dall’oggetto sociale dell’impresa esclusa.
Il giudice di prime cure aveva provveduto ad annullare l’atto di esclusione, rilevando che ogni operatore commerciale è in quanto tale idoneo, oltre a svolgere l’attività d’impresa, anche a promuovere commercialmente i propri prodotti e servizi.
Tuttavia, come ha rilevato il Giudice di secondo grado, rilevano in via autonoma le previsioni della lex specialis di gara, per la quale le Imprese erano onerate di produrre in gara di un certificato camerale, dal quale avrebbe dovuto risultare la loro idoneità allo svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. Da cui la conclusione che, in tali casi, tra oggetto della commessa (ovvero: ciascuno degli oggetti della commessa) e oggetto sociale risultante dal certificato camerale deve esservi precisa corrispondenza.
In altre parole, in presenza di una specifica richiesta del Capitolato, non può desumersi aliunde il possesso della capacità di svolgere il servizio, occorrendo precisa contemplazione da parte dell’oggetto d’impresa comunicato alla Camera di commercio.
In materia,  costituisce principio consolidato (es. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, n. 670 del 8 febbraio 2008) quello per cui, per partecipare alle gare pubbliche di appalto, occorre che l’attività rientri nell’oggetto sociale (ed anzi, secondo l’interpretazione più rigorosa, deve trattarsi di attività, oltre che iscritta, anche concretamente esercitata, non essendo sufficiente il solo dato formale della corrispondenza con la visura camerale, cfr. T.A.R. Valle d'Aosta, sez. I, n. 12 del 13 febbraio 2008).
Da questo punto di vista, l’obbligo di corrispondenza sussiste, di fatto, anche a prescindere dal tenore della lex specialis, che tuttavia, usualmente, impone in maniera formale il requisito.
Se mai, è da dire che le maglie dell’interpretazione, sul punto, sono state sinora piuttosto larghe: in particolare, si è ritenuta non occorrente una corrispondenza rigorosa, bensì che l’oggetto sociale, nel suo complesso, fosse afferente il servizio messo in gara.
La decisione in commento si mostra invece estremamente restrittiva, con riferimento a un caso, tutt’altro che inusuale nella prassi, ove, accanto alla materiale prestazione del servizio, sia richiesta attività - connessa ma ulteriore – di informazione (solitamente estranea alle imprese che non operino in tale settore specifico).
In simili casi, pertanto, non resta che lo strumento dell’associazione temporanea.

Se la stazione appaltante sbaglia nell’apertura delle offerte, chi paga pegno è l’impresa, anche se l’errore non è ad essa imputabile

F.B.
Con la pronuncia n. 1134 del 25.2.2009, la Sezione V del Consiglio di Stato si pronuncia su un caso di anticipata apertura, per errore della stazione appaltante, dell’offerta di uno dei concorrenti.
Precisamente, nel caso era avvenuto che l’Ufficio protocollo, anziché limitarsi a prendere atto del pervenimento dell’offerta di un concorrente, avesse aperto il plico, per poi consegnarlo alla Commissione di gara, la quale, ancorché senza visionarne il contenuto, aveva proceduto oltre negli adempimenti di rito, provvedendo a prendere visione di tutte le offerte in unico contesto, e aggiudicando infine la commessa proprio alla concorrente la cui busta era stata aperta per sbaglio.
Ora, la procedura di gara, in casi del genere, è sicuramente viziata: comportano invero un tale esito, secondo giurisprudenza del tutto pacifica, non solo i vizi che abbiano concretamente inciso sulla procedura e sui suoi esiti, ma, anche, tutti quelli che si mostrino anche solo astrattamente idonei in tale direzione. L’apertura di una offerta in tempi diversi rispetto alle altre implica indubbiamente vizio della procedura incidente sulla sua legittimità, stante il rischio, anche solo ipotetico, di una calibrazione artefatta dei punteggi, in violazione delle regole di trasparenza e par condicio.
Se l’illegittimità della procedura, a fronte di simili evenienze, è quindi indiscutibile, si tratta di verificare le conseguenze ultime sulla gara: se, in particolare, la procedura debba essere integralmente ripetuta, ovvero se – come ritenuto dal Consiglio di Stato nella decisione in commento – debba invece essere escluso il concorrente che, pur senza colpa, abbia avuto la sventura di incorrere nell’errore della stazione appaltante: “né rileva in contrario la circostanza, del tutto pacifica, che l’apertura della busta non sia soggettivamente imputabile né al concorrente né alla commissione, ma solo a un errore dell’ufficio protocollo. E’ infatti sufficiente il mero fatto oggettivo dell’apertura di una domanda di partecipazione prima del momento in cui la commissione debba avere cognizione dei relativi contenuti, perché tale offerta vada definitivamente esclusa dalla gara”. In senso analogo militano, anche, taluni precedenti dello stesso Consiglio di Stato.
In verità, la diversa opzione per l’illegittimità toutcourt della procedura sarebbe maggiormente conforme al principio, connesso ai canoni di imparzialità dell’azione amministrativa, per cui l’esclusione di un’impresa ha natura sostanzialmente sanzionatoria, e da questo punto di vista appare inusuale che le conseguenze di un difetto della stazione appaltante possano gravare sulla concorrente incolpevole.
Tra l’altro, tali conclusioni potrebbero prestarsi anche a possibili abusi, essendo in astratto possibile che l’apertura anticipata di una richiesta di partecipazione avvenga a titolo doloso, proprio al fine di pretermettere una singola concorrente dalla procedura.
L’opposta soluzione dell’esclusione limitata al concorrente (anche incolpevole), d’altro canto, può essere giustificata ricorrendo al principio di c.d. conservazione degli atti amministrativi, in forza del quale devono farsi salve, nei limiti del possibile, le attività compiute.
Resta da vedere, peraltro, se l’interpretazione qui in commento escluda anche una strada spesso praticata nel caso di errori, imputabili alla stazione appaltante, di tal genere, ovvero quella dell’autotutela amministrativa. Il fatto che la giurisprudenza indichi come corretta l’esclusione limitata al concorrente, in proposito, non sembra escludere in radice che l’Ente possa, anche, decidere di annullare tutta la procedura, dandone adeguata motivazione, quantomeno quando non siano stati assegnati ancora i punteggi qualitativi ai vari concorrenti (mentre, superata tale fase, un’autotutela tardiva si presterebbe alle medesime valutazioni, in punto di possibili abusi, dietro esposti).
In ogni caso, per la concorrente esclusa restano salve le aspirazioni risarcitorie, tanto più in considerazione dello stato dell’arte in materia di c.d. pregiudiziale amministrativa. In tale caso, infatti, l’impresa esclusa per fatto dell’ente potrà richiedere alla stazione appaltante il risarcimento del danno per equivalente monetario, per perdita di chance di aggiudicazione.

Ai fini della equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo sussiste unicità processuale tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza? La Cassazione dice no

D.S.
In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo si segnala una recente - condivisibile ad opinione di chi scrive - sentenza della Corte di Cassazione, la n. 1732 del 23 gennaio 2009.
La Corte, pur evidenziano le differenze con la ricostruzione dualistica propria del processo civile di cognizione rispetto al processo esecutivo, ha chiarito che il giudizio di cognizione avanti al giudice amministrativo ed il conseguente giudizio di ottemperanza non rappresentano, ai fini della domanda di equa riparazione (proposta ex artt. 2 e 4 legge n. 89 del 2001 e 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo), fasi di un unico iter procedimentale, senza soluzione di continuità.
La definitività della decisione, che segna il dies a quo del termine semestrale di decadenza ex art. 4 l. n. 89/2001, ha aggiunto la Corte, richiamando un proprio precedente (Cass., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5212), coincide infatti con il conseguimento dell'irrevocabilità ed immodificabilità del dictum del giudice: e cioè, nell'ambito del giudizio di cognizione, con la cosa giudicata formale, ex art. 324 c.p.c..
Del resto, la contraria opinione dell'unicità processuale avrebbe l'effetto paradossale di una rimessione in termini della parte decaduta dalla domanda di equa riparazione, in ipotesi tardivamente proposta rispetto al processo di cognizione irrevocabilmente definito: onde, secondo la Corte di Cassazione, annettere continuità di svolgimento al processo di cognizione ed a quello d'esecuzione susseguente, al fine di escludere il decorso intermedio del termine preclusivo in questione, appare incompatibile con la definitività della cosa giudicata formale.
Dalla autonomia dei giudizi in parola consegue dunque che deve ritenersi inammissibile, per tardività, la domanda di indennizzo, per violazione della citata durata ragionevole, proposta dopo il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza con cui si è definito il giudizio.

Collegamento sostanziale nelle gare a lotti plurimi

F.B.
Mentre la Corte di giustizia delle Comunità europee esamina la legittimità della normativa nazionale in tema di collegamento sostanziale (ritenuta non conforme dall’Avvocato generale), il Consiglio di Stato allarga le maglie del divieto, fino a ricomprendervi le partecipazioni avvenute in lotti distinti (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 848/09, del 16.2.2009).
Come noto, l’art. 34 d.lgs. n. 163/2006 stabilisce l’obbligo di esclusione delle offerte provenienti da un “unico centro decisionale”.
La fattispecie, già elaborata dalla giurisprudenza – anche sulla scorta del d.p.r. n. 554/99 – prima del nuovo Codice, è stata consacrata nel d.lgs. n. 163/2006, il quale, tuttavia, ne ha opportunamente ridelineato i confini, prevedendo l’esclusione dei concorrenti per i quali le stazioni appaltanti “accertano che le relative offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale, sulla base di univoci elementi”.
Ancorché le interpretazioni sul punto non siano esattamente univoche (in più di un vaso la disposizione, pur se eccezionale in quanto recante eccezione al principio di libera partecipazione, è stata letta in maniera a dir poco estensiva), il teso dell’art. 34 richiede oggi non solo un “sospetto” circa la provenienza da un “unico centro”, bensì un vero e proprio accertamento di tale evenienza, fondato su una pluralità di elementi chiari, precisi e concordanti.
Di regola, si tratta di casi in cui le offerte mostrano, per il loro contenuto, di provenire da un solo soggetto sostanziale (si pensi alle offerte con medesimi errori formali, alle offerte progettuali di medesimo contenuto sostanziale, ai casi di spedizione dal medesimo fax, o con fideiussioni progressive, etc.). Oppure, in altri casi, di offerte provenienti da soggetti riconducibili ad unitarietà in ragione di elementi di comunanza estrinseci (intrecci societari e parentali, comunanza di cariche, etc.), quando, tuttavia, il dato formale sia comunque comprovato dal tenore sostanziale delle offerte, dalle quali possa desumersi, con ragionevole certezza,  la provenienza da una medesima fonte.
La decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 848/09, del 16.2.2009, si è occupata di un caso davvero peculiare, relativo ad offerte (pacificamente provenienti da unica fonte, sussistendo sia rapporti formali tra i soci e gli amministratori dei concorrenti, sia soprattutto legami sostanziali quali l’identità dei fax e l’identità testuale delle offerte) presentate tuttavia in lotti diversi della medesima gara.
La conclusione del Consiglio di Stato è che anche in tal caso sussiste l’obbligo di esclusione, trattandosi di “gara inaugurata da un unico bando, e caratterizzata dalla possibilità per ogni impresa di partecipare a tutti i lotti”. Nonché, in considerazione del “reciproco condizionamento dei lotti, sub specie di aggiudicazione del solo lotto di importo più elevato in caso di presentazione di offerte per più di un lotto”, dato idoneo a dimostrare che “si tratta di una gara sostanzialmente unica”.
Tali conclusioni appaiono, ad opinione di chi scrive, opinabili.
La ratio del divieto di partecipazione in regime di collegamento sostanziale è quella di evitare che offerte provenienti da un unico centro, e quindi concordate (o potenzialmente tali), possano incidere sulla genuinità della concorrenza e della procedura. Non a caso, la fattispecie è strettamente connessa al delitto di turbativa di asta, reato di pericolo, che si concreta non solo quando la gara sia stata effettivamente incisa negli esiti, ma anche quando si sia determinato un pericolo, anche solo astratto, verso la regolarità della procedura.
Concretamente, un simile rischio può configurarsi in particolare nelle gare con esclusione automatica e con c.d. “taglio delle ali”, senza possibilità di verifica caso per caso dell’anomalia: in tal caso, più offerte concordate (talune tese a spostare la media, e talaltre poste in “zona di aggiudicazione”) potrebbero incidere sui ribassi, sulle medie, e sulla soglia di anomalia.
Al di fuori di tali casi – pur se la legge effettivamente non distingue – non risulta probabile quel rischio di inquinamento della procedura che la norma mira ad evitare, in quanto la sub procedura di verifica dell’anomalia consente l’aggiudicazione, previa verifica dell’anomalia ove occorrente, anche all’offerta di maggior ribasso (per formulare la quale non vi è necessità di accordarsi con chicchessia).
Tuttavia, anche al di fuori di tali ipotesi, deve pur sempre trattarsi di un rischio per la singola procedura, che pare davvero difficile ravvisare nelle gare a lotti plurimi, ove le imprese in collegamento non partecipano agli stessi lotti.
Ciascun lotto, infatti, ancorché facente parte di una procedura unitaria, vive di vita propria: anche qualora due offerte fossero tra loro coordinate, ma formulate su lotti distinti (ma allora non si comprende l’utilità dell’accordo), la graduatoria di ciascun lotto non risente delle sorti dell’altro. Pertanto, in tali fattispecie, non sembra plausibile possa trovare applicazione il divieto di partecipazione di cui all’art. 34, che, si ritiene, fa riferimento alla nozione di “gara” in senso sostanziale, e quindi, nelle procedure a lotti plurimi, al singolo lotto.
Nel caso di specie, la lex specialis stabiliva un legame tra i diversi lotti, prevedendo che, quando un’impresa fosse risultata prima in graduatoria in più lotti, si sarebbe aggiudicata un solo lotto (quello di importo maggiore), con esclusione della possibilità di divenire aggiudicataria anche dei rimanenti.
Anche di fronte a una situazione del genere, tuttavia, resta difficile comprendere ove risiederebbe il rischio di un inquinamento della procedura, quando le due imprese contestate come collegate abbiano partecipato, ciascuna, ad un solo lotto.
Tra l’altro, simile interpretazione, tutt’altro che imposta dalla lettera della legge e dalla ratio della medesima, esclude toutcourt ogni chance di partecipazione delle imprese in condizione, ad esempio, di controllo societario.
Mentre sinora si riteneva che controllante e controllata non potessero partecipare alla stessa gara, ma dovessero necessariamente, nelle gare a lotti plurimi, scegliere in quale lotto partecipare, senza possibilità di interferenza, secondo il Consiglio di Stato è invece da escludere anche questa possibilità, con grave vulnus sia per le imprese (ove i rapporti reciproci, di per sé legittimi, sono oramai necessari, usuali, e all’ordine del giorno), sia per il principio di massima partecipazione, funzionale all’interesse, pubblico, al reperimento della migliore offerta tramite l’interpello del maggior numero possibile di concorrenti.
Tutto ciò mentre, come accennato, la Corte di giustizia europea è in procinto di decidere sulla legittimità della normativa nazionale in proposito (su remissione del T.A.R. Lombardia, che, pure, della norma ha tradizionalmente fatto una applicazione tutt’altro che restrittiva) in causa ove, pochi giorni fa, l’Avvocato generale ha concluso per l’incompatibilità della norma verso il diritto comunitario, in quanto non consente, nel caso di offerte provenienti da imprese in condizioni di controllo societario, di dimostrare che, in concreto, non vi è stato reciproco condizionamento.

Il Consiglio di Stato riconferma la sussistenza della pregiudiziale amministrativa, in contrasto con le Sezioni Unite della Cassazione

A.V.
Con la decisione n. 587 del 3 febbraio 2009, VI sez., il Consiglio di Stato si inserisce nel solco prodotto dalla decisione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12 del 2007 e conferma il principio secondo cui, ai fini dell’ottenimento del risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, sia necessario il previo annullamento dell’atto amministrativo che si assume essere la fonte del suddetto danno.
Ne discende che a tale risarcimento non si potrà accedere, non solo nell’eventualità in cui il ricorso avverso il provvedimento amministrativo sia ritenuto infondato, ma anche in ipotesi di sua inammissibilità o irricevibilità per ragioni formali/processuali.
Ciò in quanto, la permanente operatività del provvedimento amministrativo, seppur conseguente ad una tardiva o erronea impugnazione dello stesso, rende infondata (non già inammissibile) la relativa domanda di risarcimento del danno: il provvedimento amministrativo, infatti, esplica i propri legittimi effetti, imponendone l’osservanza a tutti i soggetti coinvolti, ed inducendo, in tal modo, a dover escludere la natura ingiusta del danno eventualmente subito dal ricorrente ed a ritenere illecita la condotta tenuta al riguardo dall’Amministrazione procedente.
Il Consiglio di Stato si conferma giudice dell’Atto e non del Rapporto.
Si segnala che solo alla fine di dicembre 2008, era stata pubblicata una decisione delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, n. 30254 di avviso totalmente contrario a quello suddetto: secondo la Corte, lo stato attuale della normativa e della giurisprudenza non consente di ricondurre e circoscrivere le ipotesi risarcitorie ai soli casi di lesione derivanti dal’applicazione di provvedimenti amministrativi illegittimi, dovendosi ravvisare, nell’ampio scenario dei possibili rapporti tra amministrazione e privati, numerose ipotesi di “contatto” dannoso per quest’ultimo, non necessariamente riconducibili ad un provvedimento.
Da ciò deriva, secondo la Suprema Corte, la facoltà per il privato di scegliere quale forma di tutela perseguire, optando anche per quella esclusivamente risarcitoria al posto di quella anche demolitoria.
Tra i presupposti per l’eventuale accoglimento della domanda risarcitoria la Corte non ravvisa quello del previo annullamento dell’atto ritenuta la fonte del danno.

Danno da ritardo: non sussiste il diritto al risarcimento automatico

A.V.
Con la sentenza n. 2694 del 16 marzo 2009, il Tar del Lazio, sez. II bis, conferma il principio già consolidato e autorevolmente sancito dal Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 7/2005) secondo cui la domanda di risarcimento del danno nei confronti di una pubblica amministrazione, per ritardo nella conclusione di un procedimento e amministrativo, ed in particolare nel rilascio di un titolo abilitativo, può trovare accoglimento solo qualora il ricorrente danneggiato possa fornire la prova dell’antigiuridicità del contegno della P.A. e dell’ingiustizia del danno subito, oltre che della sua entità e quantificazione.
Il semplice superamento dei termini massimi previsti dalla legge di riferimento (nel caso di specie trattavasi della L. n. 493/93) per la conclusione di un procedimento amministrativo non costituisce di per sé motivo di accoglimento della domanda risarcitoria, essendo onere del ricorrente fornire la dimostrazione della negligenza dell’Ente o addirittura della volontà dei suoi funzionari di nuocere il privato o comunque della contrarietà dell’operato dell’Ente rispetto ai principi di imparzialità e buona andamento sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
L’azione di risarcimento dei danni nei confronti di una P.A., pur essendo astrattamente ammessa, deve essere ricondotta nell’ambito dell’art. 2043 c.c., quanto alla individuazione degli elementi costitutivi, e dell’art. 2236 c.c.c quanto alla determinazione dei confini di tale responsabilità.
Con la decisione n. 1162 del 2 marzo 2009, il Consiglio di Stato era intervenuto sul medesimo argomento, precisando ed aggiungendo che l’accertamento circa la risarcibilità del danno lamentato dal privato non può essere scisso dalla valutazione in merito alla meritevolezza di tutela dell’interesse pretensivo sotteso. Nel concreto, occorre che l’Amministrazione abbia concluso o concluda – laddove ancora possibile – il procedimento amministrativo con l’adozione di un atto favorevole per il privato, ovvero che il Giudice investito della domanda di risarcimento dei danni effettui una positiva valutazione prognostica al riguardo.
Nessun risarcimento potrà dunque essere riconosciuto nel caso in cui, pur in presenza di un colpevole ritardo, il procedimento si sia concluso, o si concluda con un rigetto della richiesta del privato, ovvero ancora con una valutazione negativa da parte del Giudice in merito alla sua accoglibilità.
Dalle pronunce in esame si può dedurre che, ai fini dell’accoglimento di una eventuale domanda di risarcimento dei danni, è necessaria la contestuale sussistenza di due requisiti: la dimostrazione giudiziale che l’interesse pretensivo fatto valere sia meritevole di tutela e che possa, quindi, condurre al rilascio del titolo abilitativo, qualunque esso sia, e che la mancata o tardiva conclusione del procedimento sia da ricondurre al colpevole contegno dell’amministrazione, riconducibile a negligenza o dolo.
Ne discende l’impossibilità di definire un criterio generale per la risarcibilità del danno da ritardo che – pur teoricamente ammesso – può trovare concreto accoglimento solo laddove sia puntualmente dimostrata nei fatti la responsabilità dell’ente, secondo una valutazione di merito da effettuarsi caso per caso, preceduta dalla valutazione, anch’essa.

Il giudice amministrativo può sindacare in via incidentale l’irregolarità del D.U.R.C.: un revirement del Consiglio di Stato

M.M.
Il Presidente del T.A.R. Toscana, all’atto dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha evidenziato come una rilevante parte del contenzioso in materia di appalti abbia avuto per oggetto le questioni connesse alla regolarità contributiva delle imprese, e analogamente è accaduto in tutti i Tribunali amministrativi, con speciale riferimento al Documento unico di regolarità contributiva (D.U.R.C.).
Si rammenta che il c.d. D.U.R.C. è stato previsto, in via generale, dal d.lgs. n. 276/2003, di modifica del d.lgs. n. 494/96 in materia di sicurezza nei cantieri, ma, per gli appalti pubblici, esso era già prescritto dall’art. 2 d.l. n. 210/02.
L’art. 38 d.lgs.n. n. 163/2006, al co. 1 – similmente da quanto previsto dall’art. 75 d.p.r. n. 554/1999 – stabilisce l’esclusione per coloro che “hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di sicurezza e a ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro, risultanti dai dati in possesso dell'Osservatorio”, o che “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali”.
Il co. 2 dell’art. 38 stabilisce inoltre che “resta fermo, per l'affidatario, l'obbligo di presentare la certificazione di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, del decreto-legge 25 settembre 2002, n. 210, convertito dalla legge 22 novembre 2002, n. 266 e di cui all'articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 (oggi d.lgs. n. 81/08) e successive modificazioni e integrazioni”.
Infine, il decreto ministeriale del 24 ottobre 2007 ha precisato la nozione di “regolarità contributiva”, chiarendo tra l’altro che essa sussiste anche in caso di richieste di rateizzazione (approvata) o di istanze di compensazione, prevedendo anche una “soglia di tolleranza” per somme a non superiori ad € 100,00, e regolando l’incidenza dei contenziosi in materia di contributi.
La giurisprudenza è stata, quindi, più volte interpellata in merito alla questione – rilevante a fronte del complesso quadro normativo citato – se ai fini della partecipazione alle gare di appalto occorra necessariamente un D.U.R.C. in regola; a quale data eventualmente il requisito debba sussistere; e se il Giudice amministrativo abbia o meno la possibilità di valutare autonomamente la regolarità contributiva.
In argomento si registrano due orientamenti.
Secondo il primo (cfr. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, I, n. 3740 del 19 giugno 2008), l’irregolarità contributiva rileva ai fini dell’ammissione alle gare solo quando, secondo valutazione rimessa alla stazione appaltante, integri una “violazion[e] grav[e] debitamente accertat[a]”. In senso analogo, il parere n. 102/2008, dell’A.V.CC.PP., per la quale “la semplice menzione nel DURC dell’assenza di regolarità contributiva non può condurre di per sé all’esclusione”.
Secondo altra (sostanzialmente maggioritaria) giurisprudenza, invece, un conto sono le “violazioni gravi accertate” (che escludono la partecipazione anche se pregresse, e nonostante la presenza di un D.U.R.C. regolare), altro conto è il D.U.R.C., che costituisce autonoma causa di esclusione, a prescindere da causa ed entità dell’irregolarità.
Tale filone giurisprudenziale rinviene la causa di esclusione (e di impedimento alla stipula del contratto) non nel co. 1 dell’art. 38, bensì del combinato disposto del co. 2 dell’art. 38 e dell’art. 2 d.l. n. 210/02. Occorre quindi, al fine di partecipare alle gare, un D.U.R.C. attestante la regolarità contributiva, e ciò sia all’epoca della presentazione dell’offerta, sia all’epoca dell’aggiudicazione, sia della stipula del contratto (cfr. T.A.R. Toscana, Sez. I, n. 182/2009 del 2 febbraio 2009, e Consiglio di Stato, sez. V, n. 5575 del 23 ottobre 2007).
A fronte di un Documento irregolare, insomma, alla stazione appaltante – secondo questa lettura – non residua alcuna discrezione, non potendo fare altro che provvedere all’esclusione dell’impresa (ed essendo irrilevante l’eventuale regolarizzazione successiva”).
Nel caso in commento, il Consiglio di Stato sembra invece cambiare registro (Consiglio di Stato, V sez., 13 febbraio 2009, n. 817).
Un’impresa, nel I grado, aveva impugnato gli atti di gara in quanto l’amministrazione aveva aggiudicato l’appalto ad altro concorrente, titolare di un D.U.R.C. inizialmente negativo, e poi, tramite autotutela dell’I.N.P.S., divenuto positivo. La ricorrente sosteneva che permanesse tuttavia una condizione di irregolarità contributiva, con conseguente illegittimità del D.U.R.C. attestante la regolarità, e vizio, quindi, dell’aggiudicazione.
Il giudice di prime cure ha denegato la propria giurisdizione, ritenendo che in materia di DURC vengano in rilievo posizioni non conoscibili dal giudice amministrativo, pur essendovi stato esercizio di poteri di autotutela da parte dell’Autorità preposta al rilascio del documento.
Diversamente opinando, il Consiglio di Stato ha annullato tale sentenza, rilevando che in materia di pubblici appalti il giudice amministrativo è investito di giurisdizione esclusiva, e quindi ha titolo a compiere “a prescindere dalla consistenza della corrispondente posizione soggettiva, ogni accertamento che gli sia domandato dalla parte per verificare il rispetto dei principi comunitari in materia di concorrenza (tra i quali la regolarità contributiva delle imprese partecipanti)”.
Ciò tantopiù – ma il principio affermato ha portata generale – in presenza di un atto di autotutela.
Quindi, il Giudice amministrativo ha titolo a verificare, in maniera autonoma, la regolarità contributiva: “il giudice amministrativo … ben può incidentalmente valutare la sussistenza dei requisiti di partecipazione, siano essi o meno attestati da atti della p.a.”, qualora a ciò sia chiamato dall’atto di ricorso.
Tale principio è affermato in fattispecie indubbiamente peculiare: a fronte di un’istanza, da parte di altro concorrente, tesa ad accertare l’irregolarità contributiva a fronte di un D.U.R.C., invece, positivo.
Tuttavia, esso dovrebbe valere, sussistendo eadem ratio, anche nel caso opposto: quando cioè l’impresa esclusa a causa di un D.U.R.C. negativo censuri la propria esclusione, allegando la regolarità sostanziale verso le previdenze, che le citate sentenze sinora escludevano.
Vacilla fortemente, quindi, il principio del rigido riparto di competenze in tema di D.U.R.C., con la remissione al Giudice amministrativo di un potere di verifica  che la giurisprudenza, sinora, denegava.

Risarcimento del danno da illegittima esclusione solo se l’amministrazione versa in condizione di colpa

F.B.
La Sesta sezione del Consiglio di Stato, con la decisione n. 1732 del 23 marzo 2009 si sofferma sul requisito dell’elemento soggettivo ai fini del risarcimento del danno da esclusione illegittima, già oggetto di precedenti pronunzie, ma qui trattato con ampia meditazione.
Nel caso sottoposto, un’Amministrazione aveva appellato la decisione di primo grado che l’aveva condannata al risarcimento per equivalente monetario in favore di un’Impresa che, anni addietro, era stata esclusa – illegittimamente, come appurato in altro giudizio – dalla procedura di gara.
La sentenza di primo grado aveva condannato l’appellante alla corresponsione del risarcimento del danno, da cui l’appello dell’Ente, teso a contestare i presupposti della decisione.
La Sesta Sezione premette anzitutto che costituisce onere del privato che domandi il risarcimento del danno, principalmente, la prova della illegittimità dell’esclusione dalla gara, nonché l’avvenuta partecipazione alla stessa. Più liberale, invece, l’apprezzamento della prova del quantum, in quanto, se le spese di partecipazione alla procedura devono, come ritenuto correntemente, essere specificamente dimostrate (e, da questo punto di vista, la dimostrazione è spesso diabolica), per il resto possono soccorrere criteri presuntivi.
E’ noto in particolare che, tradizionalmente, la perdita di chance è forfetariamente quantificata nella misura del 10% (es. Consiglio Stato, sez. V, n. 3806 del 30 luglio 2008), passibile peraltro di riduzione proporzionale a seconda del numero dei concorrenti, della graduatoria, e financo del contenuto dell’offerta (Consiglio Stato, sez. V, n. 491 del 28 gennaio 2009). La giurisprudenza, ancorchè tutt’altro che univoca sul punto, ha in proposito stabilito taluni criteri allo scopo.
Deve solo aggiungersi, se mai, che recente giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, n. 2751 del 9 giugno 2008) ha, anche, riconosciuto il danno ulteriore connesso alla perdita di immagine e all’impossibilità di partecipare ad altre gare (impossibilità di spendere i requisiti che si sarebbero maturati con l’aggiudicazione in quella procedura), denominato “danno curriculare”.
Ciò ancorchè altra giurisprudenza (T.A.R.  Friuli Venezia Giulia, I, n. 639 del 17 novembre 2008) sia pervenuta a soluzione alternativa originale, per la quale da una parte non spetta il risarcimento del danno al curriculum, ma dall’altra l’Impresa illegittimamente esclusa può spendere, quale requisito di partecipazione, il contratto cui (virtualmente) avrebbe avuto titolo qualora non fosse stata esclusa.
Più problematico, sin dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999, il requisito della “colpa” in capo all’amministrazione.
Secondo l’interpretazione corrente, non si tratta, nel caso, di una responsabilità di tipo oggettivo, bensì, ai sensi dell’art. 2043, di responsabilità colpevole. Con l’esigenza di interpretare la misura dell’elemento soggettivo.
Da questo punto di vista, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che l’illegittimità dell’esclusione costituisca indice presuntivo della colpa: si tratta, tuttavia, di presunzione semplice, dovendosi escludere la responsabilità dell’amministrazione quando l’errore sia incolpevole.
Si discute, tuttavia, sul soggetto titolare del relativo onere probatorio.
Secondo un primo orientamento, la prova dell’inescusabilità dell’errore grava su chi domanda il risarcimento (es., T.A.R. Puglia, Bari,  sez. I, n. 2249 del 29 settembre 2008: “l'accoglimento della domanda postula che … il ricorrente abbia dimostrato, … oltre addurre l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa, … che si sia trattato di errore inescusabile”).
Secondo altro orientamento, cui aderisce la sentenza qui in commento, al contrario, per il ricorrente è sufficiente la dimostrazione dell’illegittimità dell’esclusione, che fonda, presuntivamente, la responsabilità colpevole che è requisito per la condanna alla rifusione dei danni; mentre, l’Amministrazione può – ed è suo onere – dimostrare che si è trattato di errore incolpevole: “spetterà di contro all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali, … di formulazione incerta di una norma da poco entrata in vigore, di rilevante complessità del fatto …”.
Spetta all’Amministrazione, in buona sostanza, la prova dell’assenza di qualsivoglia profilo di (dolo o), e quindi l’onere di dimostrare l’assenza di quell’ elemento soggettivo rilevante ai fini della configurazione di una condotta colpevole.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato, giustappunto, ritiene insussistente l’elemento soggettivo, anche sotto il profilo della colpa, in quanto l’esclusione della Società appellata era conseguita, a suo tempo, in conseguenza dell’applicazione di un orientamento giurisprudenziale all’epoca consolidato, oggetto di un revirement solo successivo all’avvenuta esclusione.
Del resto, come fa conclusivamente notare la Sesta Sezione, qualora la stazione appaltante non avesse escluso l’Impresa appellata, e quindi non si fosse conformata all’orientamento giurisprudenziale all’epoca dominante, con ogni probabilità la mancata esclusione sarebbe stata ugualmente oggetto di impugnativa da parte delle Imprese controinteressate, con tutte le analoghe conseguenze che ne sarebbero seguite.
Tale lettura, fondata sul raffronto con la giurisprudenza prevalente, mette certamente a riparo le amministrazioni (cui spetta, sostanzialmente, l’onere di aggiornarsi con compiutezza rispetto allo stato della giurisprudenza). D’altro canto, se mai, così facendo si rischia di appiattire l’operato delle stazioni appaltanti in punto di interpretazione, poiché una lettura autonoma diversa da quella dei Giudici amministrativi (spesso in contrasto tra di loro), le espone a rischi risarcitori, con possibili risvolti anche contabili; ma d’altronde, non può negarsi che l’interpretazione della legge spetta, in primo luogo, alla magistratura.
Da ultimo, in argomento, si segnala come isolata, ma estremamente “rischiosa” per gli enti, la diversa tesi, per vero minoritaria, per cui in materia di interpretazione della normativa non è mai configurabile l’errore scusabile (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, n. 224 del 21 marzo 2007, per la quale “la limitazione di responsabilità al solo caso di dolo o colpa grave di cui all'art. 2236 c.c. … presuppone una prestazione che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e non può riferirsi all'attività di mera interpretazione di norme giuridiche, quale è quella che può dare luogo all'erronea individuazione dell'aggiudicatario in una gara di appalto; infatti, l'Amministrazione interpreta a propria discrezione, ma per questo altresì a proprio rischio, le norme giuridiche via via introdotte nell'ordinamento (c.d. interpretazione amministrativa), …; cioè senza alcuna certezza dell'esattezza di tale propria esegesi, e … senza poter vantare alcuna speciale irresponsabilità per le conseguenze economicamente pregiudizievoli dell'esegesi eventualmente erronea della nuova norma (in altri termini, essa non può translare sui terzi il danno ingiusto cagionato da un proprio eventuale errore esegetico)”.

La denuncia di inizio attività (DIA) è atto privato contro il quale il terzo leso può promuovere azione atipica di accertamento sulla inesistenza dei suoi presupposti legittimanti

D.S.
Pronunciandosi su un tema, oggetto di notevoli contrasti giurisprudenziali, il Consiglio di Stato (IV Sezione, 9 febbraio 2009, n. 717) ha di recente sostenuto che la DIA deve essere qualificata non come provvedimento amministrativo, ma come atto privato.
Secondo il Collegio, ciò si evince dall’art. 19 della L. 241/1990 ss.mm.ii. che, in sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione, ha introdotto un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private.
A conforto di detta tesi, il giudice amministrativo ha richiamato poi la disciplina del silenzio-assenso, chiarendo che, se effettivamente con la DIA si fosse inteso individuare un atto destinato ad avviare un procedimento da concludere con un provvedimento di accoglimento per silentium, allora non avrebbe senso la scelta del legislatore di disciplinare gli istituti della DIA e del silenzio-assenso in due differenti norme (gli artt. 19 e 20 della richiamata L. 241/1990). Vero è – secondo il Consiglio di Stato – che con esse si è inteso attribuire agli stessi una diversa funzione.
Assunto che la DIA non è un provvedimento a formazione tacita, il Collegio si è dunque soffermato sulle problematiche legate alla tutela da accordare ai terzi lesi dalla DIA, atteso che la natura privata della DIA rende inammissibile per il terzo l'esperibilità dell'ordinario giudizio impugnatorio.
Seguendo un percorso logico argomentativo, che ad opinione di chi scrive può essere condiviso, il Consiglio di Stato ha concluso per l’ammissibilità di un’azione – sottoposta allo stesso termine di decadenza di sessanta giorni, previsto per il diverso caso dell’azione di annullamento esperibile avverso il permesso di costruire -  volta a far accertare la insussistenza dei presupposti per il legittimo esercizio dell’attività denunciata: spetterà poi all’Amministrazione ottemperare alla sentenza di accertamento ordinando la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato.
Al fine di far convivere le peculiarità dell’atto privato con la tutela dei diritti dei terzi, la sentenza in commento ha pertanto ammesso, prescindendo da una espressa previsione normativa, l’esercizio di un potere di mero accertamento (sulla esperibilità di detto rimedio si erano in precedenza già pronunciati, ammettendolo, T.A.R. Liguria, 22.1.2003, n. 113 e T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, 14 maggio 2008, n. 111). Infatti, secondo il Consiglio di Stato, detto potere è comunque connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto.
Sono state pertanto affrontate dal Consiglio di Stato, per la prima volta a 360°, le problematiche legate alla qualificazione giuridica della DIA. Ma, data la complessità delle tematiche trattate, sin qui caratterizzate dalla non univocità delle soluzioni prospettate in dottrina e giurisprudenza, appare arduo poter affermare, senza il rischio di essere smentiti, che si tratti di una sentenza destinata a fare scuola. Non ci resta che aspettare e vedere come si orienteranno i giudici amministrativi allorché saranno chiamati a decidere sulle domande che saranno proposte dai terzi danneggiati per far accertare l’assenza dei presupposti legittimanti l’attività oggetto di denuncia.

Importanti novità in arrivo in materia di sospensione dell’attività imprenditoriale

M.M.

L’art. 14 del d.lgs. 81 del 2008, in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, disciplina l’istituto della sospensione dell’attività imprenditoriale, quando sia riscontrata la presenza di lavoratori “irregolari” per una percentuale pari o superiore al 20% della forza lavoro, nonché in caso di “gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”.
La disposizione in parola ha già subito talune modifiche: è stato ad esempio espunto il riferimento alla terza fattispecie originariamente sanzionata, ovvero la violazione della normativa in materia di orario di lavoro, ed è stato inoltre aggiunta la previsione che “ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241”; tale ultima addenda è stata posta in essere al fine di arginare un piccolo “caso” giurisprudenziale, creatosi a seguito di talune pronunce dei giudici amministrativi (da ultimo, cfr. T.A.R. Liguria, n. 322 del 17 marzo 2009) che avevano sancito la necessità della comunicazione di avvio del procedimento.
Il complessivo disegno di riforma dell’intero d.lgs. 81/2008, recentemente annunciato dal Governo, dovrebbe apportare consistenti modifiche all’istituto.
Dall’analisi dello schema di decreto legislativo, licenziato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 27 marzo, si registra, anzitutto, la conferma della fattispecie dell’impiego di lavoratori irregolari, ma è stata eliminato l’inciso “considerando le specifiche gravità di esposizione al rischio di infortunio”: quindi, la sanzione è destinata ad essere automaticamente ricollegata alla mera presenza, sul luogo di lavoro, di lavoratori privi di regolare contratto, in misura pari o superiore al 20% dell’intera forza lavoro, senza che residui in capo agli ispettori alcun margine di discrezionalità.
Rilevante modifica viene poi apportata all’altra fattispecie, in materia di violazioni “gravi e reiterate”, che diventano, nella nuova dicitura, gravie “plurime”, anziché “reiterate”.
Il significato della nuova terminologia è illustrato dalla norma stessa, per la quale, perciò, si intende “la contestuale realizzazione di almeno tre ipotesi di gravi violazioni rilevate in occasione di un medesimo accertamento ispettivo o la ripetizione per la seconda volta in un biennio di una stessa grave violazione”.
In altre parole, si è in presenza di violazioni “plurime” laddove, alternativamente:
1) il personale ispettivo abbia rilevato nell’ambito del medesimo accesso almeno tre gravi violazioni;
2) il personale ispettivo che abbia rilevato una grave violazione, riscontri l’avvenuto accertamento di “una stessa grave violazione” nel biennio precedente.
Viene, quindi, confermata la rilevanza della “recidiva”, non più, tuttavia, infraquinquennale, bensì infrabiennale.
La locuzione “una stessa grave violazione” potrebbe invece comportare qualche problema interpretativo: non è chiaro, infatti, se a questo punto le violazioni rilevanti debbano essere della medesima specie oppure anche diverse, purchè entrambe gravi.
Quanto al rilievo contemporaneo di tre gravi violazioni da parte degli ispettori, anche sul punto la norma non appare chiara, in quanto non spiega se a tal fine il contesto cui fare riferimento è solo quello del luogo di lavoro, o se invece le tre violazioni sono rilevanti solo se riferibili ad un medesimo datore di lavoro.
Si pensi, a titolo di esempio, all’ipotesi di un cantiere in cui “convivano” più Imprese appaltatrici e/o subappaltatrici: c’è da chiedersi se, ai fini della sospensione dell’attività imprenditoriale ai sensi del nuovo art. 14, dovranno “cumularsi” le gravi violazioni poste in essere da una sola Impresa, oppure dovrà tenersi cumulativamente conto di tutte le “gravi violazioni” eventualmente commesse da tutte le Imprese presenti sul cantiere.
Per il resto, la disposizione conferma la comunicazione del provvedimento sospensivo all’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici e al Ministero per le Infrastrutture, ai fini dell’interdizione dell’Impresa dalla contrattazione con le Amministrazioni.
Viene infine confermata la non applicabilità dell’art. 7 l. 241/90 in materia di avvio del procedimento.