La D.I.A. edilizia è equiparata al permesso di costruire quanto all’impugnazione

G.A.

Nella querelle giurisprudenziale in merito alla natura del titolo abilitativo edilizio formatosi a seguito di denuncia di inizio attività, ed ai rimedi esperibili avverso di esso, il TAR Toscana pronuncia a favore della tesi della autonoma impugnabilità.
Con sentenza della III Sezione del 16.3.2009, n. 428 il Giudice Amministrativo toscano ha affermato che la d.i.a. rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine dalla presentazione della denuncia. Col decorso del termine si forma un’autorizzazione implicita di natura provvedimentale, che può essere contestata entro l’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrenti dalla conoscenza del perfezionamento della d.i.a..
Pertanto il ricorso avverso la stessa ha ad oggetto l’assentibilità o meno dell’intervento, cosicché il predetto titolo abilitativo è equiparato al permesso di costruire quanto all’impugnazione.
In questa sezione del sito può leggersi l’opposta ricostruzione della materia (la natura privata della DIA rende inammissibile per il terzo l’esperibilità dell’ordinario giudizio impugnatorio) offerta dalla di poco precedente decisione della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 717/2009.

La valutazione del fatturato pregresso in appalti analoghi deve essere rigorosa (con il problema dell’avvalimento)

F.B.

Fra i requisiti economico finanziari per la partecipazione a una gara di appalto può esservi quello del fatturato reso nel triennio per “servizi analoghi”, e sull’analogia tra servizi precedenti e oggetto di gara la valutazione dell’Ente deve essere approfondita.
Nel caso di specie (Consiglio di Stato, V, n. 1589 del 16 marzo 2009), relativo a gara per la realizzazione di impianti di trattamento rifiuti, il fatturato era stato dimostrato con riferimento, anche, ad attività di gestione di rifiuti: servii, e non lavori, con conseguente inammissibilità della spendita del requisito.
Pertanto, ancorché il riferimento sia alla medesima materia (nella vicenda, pur sempre riferita ai rifiuti), occorre distinguere – chiarisce il Consiglio di Stato – tra lavori e servizi, non potendosi riscontrare, nel caso di divergenza tra i due tipi, la prescritta analogia.
Accanto a questo “peccato originale”, ancorché incidenter tantum, la decisione in commento si sofferma anche su ulteriori ragioni di inammissibilità della documentazione circa il fatturato pregresso, alcune delle quali di una certa significatività.
Tra di esse, oltre l’inconferenza temporale e la mancanza di certificazione probatoria, va segnalato il caso di servizi svolti in ATI: nel qual caso, evidenzia opportunamente la  pronunzia, è inammissibile la spendita del requisito ove non sia indicata la partecipazione all’associazione temporanea; con ciò chiarendo, tra l’altro, che il fatturato spendibile non è quello dell’intero raggruppamento, bensì la quota proporzionale alla partecipazione. Conclusione corretta, ma non sempre scontata in giurisprudenza.
La decisione si mostra di interesse anche con riferimento all’avvalimento di cui all’art. 48 d.lgs. n. 163/06.
Chiarito che l’avvalimento può essere utilizzato anche per i requisiti economico-finanziari (e d’altronde lo prevede espressamente la legge), secondo il Consiglio di Stato è legittima l’elencazione di più imprese ausiliarie, quando l’indicazione avvenga in via non cumulativa, bensì alternativa: o meglio, (allorché l’alternatività non sia esplicita) quando, nel caso di più ausiliarie, sia sufficiente una di esse a conseguire il possesso del requisito.
Da ultimo, la Sezione ritiene infine legittima la circostanza che il Consorzio documenti i lavori svolti da una consorziata per altra consorziata o addirittura per un’impresa ausiliaria. Il Consiglio di Stato esclude trattarsi di una “partita di giro”, da cui la legittimità sia rispetto al testo della legge, sia vista la sua ratio.
Via libera, quindi, a una lettura tutt’altro che restrittiva in materia di avvalimento, consorzi, e fatturato; con attenzione tuttavia alla tipologia delle attività da cui il fatturato deriva, che non devono essere necessariamente identiche, ma pur sempre similari, quantomeno per macrotipologia di appalto.

Il proprietario dell’area non è passibile dell’obbligo a provvedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato (chi inquina paga)

G.A.

In ossequio al principio comunitario “chi inquina paga”, solo l’autore dell’inquinamento, e non già il mero proprietario dell’area inquinata, è destinatario dell’obbligo di messa in sicurezza e bonifica.
Il TAR Toscana, con sentenza della III Sez. del 17.3.2009, n. 665/2009, conferma la piena validità del principio di cui all’art. 17, comma 2 del D.Lgs. n. 227/1997, anche nella vigenza del Codice dell’ambiente.
L’art. 17 cit. impone l'obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa. Ne consegue che l'amministrazione non può imporre ai privati che non hanno alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari del bene, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento. L'enunciato è conforme al principio a cui si ispira la legislazione comunitaria "chi inquina paga" (art. 174, ex art. 130/R, Trattato CE) che impone a chi fa correre un rischio di inquinamento o a chi provoca un inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione.
Tale impostazione viene confermata e specificata dagli artt. 240 e ss. del D.Lgs. n. 152/2006, che impongono l'esecuzione di interventi di recupero ambientale, anche di natura emergenziale, al responsabile dell'inquinamento che può non coincidere con il proprietario ovvero con il gestore dell'area interessata.

È perentorio il termine per l’esercizio del potere inibitorio dei lavori oggetto di D.I.A.

G.A.
Trascorso inutilmente il termine entro il quale la p.a. potrebbe inibire l’attività edilizia soggetta a denuncia di inizio attività  – venti giorni ex art. 84, comma 5,  L.R.T. n. 1/2005, dalla presentazione della D.I.A. o delle integrazioni eventualmente richieste -, il titolo abilitativo si perfeziona per silentium, ed in capo agli uffici residua l’esercizio dei soli poteri di autotutela e sanzionatorio.
Lo ricorda la III Sezione del TAR Toscana con sentenza 16.3.2009, n. 430.
Il potere inibitorio previsto dall’art.84, comma 5, della L.R.T. n.1/2005 può essere esercitato entro il termine perentorio di venti giorni ivi previsto; invero alla scadenza di detto termine matura l’autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati ed indicati nella d.i.a., cosicché il Comune, anche se riscontri un contrasto del progetto rispetto alle statuizioni delle norme urbanistiche, non può più diffidare dall’eseguire i lavori, ma deve avviare uno specifico procedimento di autotutela preordinato all’annullamento dell’autorizzazione implicita; una volta caducata quest’ultima, qualora i lavori siano già stati eseguiti in tutto o in parte, l’Amministrazione adotterà l’idoneo provvedimento sanzionatorio, previsto dall’art.84, comma 7, della L.R.T. n.1/2005, di tipo ripristinatorio o pecuniario, secondo i casi, in base alla normativa disciplinante la repressione degli abusi edilizi.

Project financing: la proposta dichiara di pubblico interesse non è accessibile fino alla conclusione della gara

F.B.
Il Consiglio di Stato si pronuncia – nell’ambito di un ricorso verso diniego di accesso – sulle procedure di finanza di progetto, con riferimento ai rapporti tra la fase di apprezzamento della proposta, culminante con la dichiarazione di pubblico interesse, e quella successiva di svolgimento della gara.
Da premettere, quanto alla legge applicabile, che la fattispecie è maturata nel regime antecedente il Terzo decreto correttivo del Codice dei contratti: ciò nondimeno, la pronuncia si mostra di interesse anche alla luce della novella del 2008, trattandosi di motivazione che analizza compiutamente l’istituto e le sue peculiarità.
A fronte della conclusione della prima fase (tramite la c.d. “dichiarazione di pubblico interesse”), e bandita la gara sul progetto presentato dal promotore, uno dei concorrenti aveva domandato l’accesso agli atti della predetta “prima fase”, ricevendo il diniego dell’ente concedente.
Il T.A.R. del Lazio aveva annullato tale diniego, ritenendo l’accessibilità degli atti, sul presupposto che, nelle procedure di project, le fasi che la caratterizzano (dichiarazione di pubblico interesse; scelta del concedente tramite gara, sia essa con o senza prelazione) sono distinte. Conclusa la “prima fase” – secondo il giudice di I grado – i relativi atti sono pertanto visionabili, senza possibilità di differimento. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, ribalta tali conclusioni.
Opportunamente, nella decisione in parola, il Consiglio di Stato evidenzia, come, in concreto, la possibilità di visionare in particolare il Piano economico finanziariocomporterebbe significativa lesione della regolarità della procedura di gara per la scelta dell’aggiudicatario, con violazione del principio di par condicio. Sul piano teorico – ed è questo il punto di vista maggiormente di rilievo – il Consiglio di Stato, ripercorsa la normativa in materia, delinea la procedura di finanza di progetto come un procedimento unitario (più precisamente composto di due fasi “non solo funzionalmente collegate …, ma bi univocamente interdipendenti, così che la prima non è giuridicamente concepibile senza la seconda, e viceversa”. Di conseguenza, trattandosi di un “procedimento contraddistinto da una indiscutibile unitarietà logico-giuridica”, l’accesso agli atti della “prima fase” deve essere differito, da parte dell’Amministrazione, finchè non sia intervenuta l’aggiudicazione della concessione. La unificazione concettuale delle fasi in cui si suddivide la finanza di progetto, mai sino ad ora affermata con tanta chiarezza,  può peraltro importare conseguenze anche oltre la materia dell’accesso.
In particolare, affermata l’organicità della procedura, ciò potrebbe comportare, se non vi è autonomia tra le fasi, anche conseguenze ulteriori, in particolare circa il dies a quo per l’impugnativa degli atti: in altri termini, potrebbe aprirsi la strada, con più di una difficoltà all’atto pratico stante la lunghezza delle procedure di tale genere, per un’impugnativa della procedura, all’esito della gara, anche per vizi propri della “prima fase”.
Ad opinione di chi scrive – e ferma l’esigenza di una disamina caso per caso – tuttavia, l’affermare che le due tranches del procedimento non sono tra di loro autonome non può importare la conseguenza di disconoscere che, tramite la dichiarazione di pubblico interesse, si conclude una subprocedura che, ancorchè non viva di vita propria, cristallizza la scelta della proposta, con la conseguenza che, secondo i comuni princìpi, non è possibile differirne, a differenza che l’accesso, l’impugnazione, quando ne derivi una immediata lesione delle posizioni giuridiche.

È illegittima la lex specialis che implichi una restrizione della concorrenza, e che sia equivoca circa la natura dell’appalto

F.B.

È rigida la lettura del Consiglio di Stato in tema di tutela della concorrenza e di onere di chiarezza in capo alla stazione appaltante sulla natura del servizio appaltato.
Con la decisione n. 700 del 6.2.2009 il Consiglio di Stato si pronuncia anzitutto in merito al divieto di cui all’art. 68 co. 13 d.lgs. n. 163/2006, per il quale “le specifiche tecniche non possono menzionare una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare né far riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti”.
Norma applicabile, secondo la pronuncia in questione, non solo al caso, tipico, in cui l’ente che bandisce la fornitura domandi una determinata tipologia di prodotto, ma, anche, quando, per un determinato macchinario, pretenda la fornitura di “ricambi originali”.
Nel caso di specie, la stazione appaltante aveva domandato, per la commessa di manutenzione di veicoli Iveco, la fornitura di ricambi originali della casa costruttrice, oppure di prodotti equivalenti, ma solo se “certificati” da apposito organismo, tuttavia allo stato inesistente; e così, di fatto, escludendo la legittimità dell’offerta di prodotti non realizzati dalla casa automobilistica costruttrice.
Corrispondentemente ai recenti interventi di matrice comunitaria, tesi ad escludere la “privativa” sui ricambi di automezzi, anche ai fini della operatività della garanzia, un simile modus operandi si appalesa pertanto illegittimo.
Altrettanto rilevante il prosieguo della pronuncia, nella parte in cui censura la lex specialis in quanto, inoltre, essa domandava ai concorrenti non solo la fornitura dei ricambi, ma anche la manutenzione del parco veicoli dell’ente.
Se nulla esclude che venga bandito un appalto di natura mista, conclude il Consiglio di Stato, anche è vero che l’indicazione nominativa (che viene diffusa tramite la pubblicazione del bando nei modi di legge) deve essere precisa: costituisce ragione di illegittimità, pertanto, la definizione di una gara di appalto come relativa alla fornitura, quando, in realtà, il disciplinare contempli poi, ancorché in via solo eventuale, anche la manutenzione, che va ricondotta all’appalto di servizi, ciò determinando una “obiettiva incertezza nell’oggetto del contratto e alimentando, di conseguenza, la contrazione della partecipazione alla gara”.

Non perentorietà del termine per presentare giustificativi e offerta di utile simbolico

F.B.

Il termine per produrre alla stazione appaltante, nell’ambito della procedura di verifica delle offerte anomale, i giustificativi domandati, non è perentorio, in mancanza di una diversa previsione nella lex specialis (o, aggiungiamo, nella richiesta di giustificativi).
Lo afferma, confermando una lettura piuttosto liberale emersa negli ultimi mesi in tema di verifica dell’anomalia, il Consiglio di Stato, con la decisione n. 1018 del 20 febbraio 2009.
Alla pari della normativa previgente, il d.lgs. n. 163/06 regola la fase della giustificazione delle offerte anomale, non prevedendo, tuttavia, alcuna comminatoria per il caso di intempestività dei chiarimenti, così come per l’ipotesi, in rilievo nella vicenda contenziosa qui in esame, di omessa presentazione dei medesimi, che abbia costretto la stazione appaltante a un nuovo interpello.
In passato, peraltro, la giurisprudenza maggioritaria aveva optato, invocando il generale principio di par condicio, per un’interpretazione più restrittiva, considerando il termine concesso dall’amministrazione comunque perentorio. In questo senso, anche da ultimo, cfr. TAR Lazio, Roma, n. 2502 del 20 marzo 2008, per la quale “tale legittimo contraddittorio non può mai essere dilatato ulteriormente a danno di altri concorrenti principi, ai quali la procedura concorsuale deve attenersi, vale a dire la "par condicio" tra i partecipanti, la trasparenza, la speditezza delle operazioni concorsuali. Ne consegue che il problema del termine entro cui presentare gli elementi giustificativi circa l'affidabilità dell'offerta presentata, richiesti dalla stazione appaltante, va risolto nel senso che detto termine ha natura perentoria , avendo come finalità sia quella di garantire il contraddittorio in condizioni di parità tra i concorrenti, sia quella di garantire il pubblico interesse, assicurando la definizione della gara in tempi rapidi e, comunque, certi” (analogamente, Consiglio Stato, sez. VI, n. 2780 del 18 maggio 2001). Diversa la lettura della V Sezione del Consiglio di Stato, sul presupposto – formalistico – che “in assenza di specifica comminatoria in seno alla legge ed alla lex specialis l’amministrazione ha il potere discrezionale di prorogare il termine”, e su quello – sostanziale – per cui “lo stesso principio del contraddittorio che permea la fase della verifica di anomalia impedisce di accedere a soluzioni rigide”. Stessa ratio, in buona sostanza, che aveva portato ad affermare, sempre in tempi recenti, che la fase di giustificazione delle offerte anomale ha natura per così dire dinamica, con possibilità, pertanto, non solo di provvedere tramite “aggiustamenti progressivi” (invece ritenuti inammissibili dalla giurisprudenza precedente), ma anche taluni scostamenti, qualora su profili non essenziali, rispetto all’offerta presentata.
Sono di particolare interesse anche i princìpi rinvenibili, nella sentenza in commento, con riferimento al principio di serietà delle offerte, anch’esso già oggetto di rimeditazione in tempi recenti. L’interpretazione tradizionale, sul punto, è che l’offerta di un servizio a costo simbolico (c.d. nummo uno) sia inammissibile, in quanto incidente sulla serietà dell’offerta e perciò sull’affidabilità del contraente (es. Consiglio Stato, sez. VI, n. 4210 del 21 luglio 2003).
Già con una sentenza di qualche tempo addietro, in relazione ad un appalto per servizi di consulenza, Palazzo Spada era tuttavia addivenuto ad un vero e proprio ripensamento (che aveva suscitato più d’una perplessità), stabilendo che, nello specifico settore, non può escludersi la (lecita) volontà del professionista di privilegiare, rispetto al guadagno immediato, l’ingresso nel mercato e la propria visibilità. Anche la giurisprudenza che richiede un utile specifico, in ogni caso, ne ha escluso la possibilità di una preventiva quantificazione (per tradizione stabilita nella misura del 10% della base d’asta o dell’offerta), ritenendo che “non esiste una quota di utile rigida al di sotto della quale la proposta dell'appaltatore debba considerarsi per definizione incongrua” (Consiglio Stato, sez. V, n. 3819 del 5 luglio 2007).
Con la decisione in commento, il Consiglio di Stato prosegue sulla strada intrapresa, ribadendo che non è configurabile una quota minima di utili, precisando che “assume rilievo invece la circostanza che l’offerta si appalesi seria, cioè non animata dall’intenzione di trarre lucro dal futuro inadempimento delle obbligazioni contrattuali”.
Il quadro che si delinea, pertanto, è quello di una verifica di anomalia sempre più svincolata da requisiti sia di forma, che di sostanza: sempre più snella, ma a rischio di risultare priva dell’efficacia selettiva che le è propria.

Il Consiglio di Stato individua i criteri per il risarcimento del danno derivante dalla mancata aggiudicazione di un appalto pubblico

L.S.
Con la sentenza n. 1180 del 2 marzo 2009, il Consiglio di Stato individua alcune regole per la quantificazione del risarcimento del danno spettante ad un’impresa illegittimamente esclusa da una gara pubblica della quale sarebbe risultata aggiudicataria in caso di corretta applicazione delle regole e dei criteri di gara da parte dell’Amministrazione Appaltante, laddove non sia più possibile (nel caso in esame per il sopravvenuto fallimento dell’Impresa stessa) la reintegrazione in forma specifica.
Ritiene il Consiglio di Stato che in primo luogo debba essere considerato il “lucro cessante” da rapportarsi all’utile che l’impresa avrebbe conseguito, a seguito dell’aggiudicazione illegittimamente negata. Tale utile, che la prevalente giurisprudenza mutua dall’art. 345 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. F (riprodotto dall’art. 122 del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e dall’art. 37 septies, comma 1, lettera c, della legge 11.2.1994, n. 109), nella misura del 10% dell’importo dell’appalto, secondo il Consiglio di Stato deve essere tuttavia parametrato al ribasso praticato in sede di offerta. Detta quantificazione deve considerarsi comprensiva anche del “danno emergente”, identificato nel costo affrontato dall’Impresa per la presentazione dell’offerta, precisando il Consiglio di Stato che detto costo costituisce un investimento, ma anche un rischio che l’impresa deve sopportare.
Infine, il Consiglio di Stato riconosce la risarcibilità di un’ulteriore voce di danno e cioè del cd “danno curriculare”, definito come “deminutio di peso imprenditoriale della società per omessa acquisizione dell’appalto che la medesima avrebbe avuto titolo a conseguire”. Tale danno, che consiste certamente in un inferiore radicamento nel mercato dell’impresa sino a poter essere concausa della crisi economica o imprenditoriale della medesima, è di difficile determinazione e viene quantificato dal Consiglio di Stato – secondo una stima già ritenuta equa (Cons. St., sez. VI, 9.6.2008, n. 2751) –  fra l’1% e il 5% dell’importo globale del servizio da aggiudicare.

Aspiranti avvocati: per la valutazione della prova scritta è (definitivamente?) sufficiente il voto numerico

M.M.
Sembra trovare definizione, nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 30 gennaio 2009, l’annosa querelle giurisprudenziale in merito al giudizio delle Commissioni esaminatrici sulle prove scritte dell’esame per l’abilitazione alla professione forense.
Si fa riferimento in particolare alla ritenuta sufficienza, o meno, del voto numerico ai fini della predetta valutazione: a favore della prima tesi si colloca la giurisprudenza prevalente, forte di un orientamento ormai consolidatosi presso il Consiglio di Stato (da ultimo, sez. IV, 24 dicembre 2008, n. 6562, e 26 gennaio 2009, n. 406); a favore della tesi opposta, milita invece una giurisprudenza nettamente minoritaria, pressoché solo di prime cure (da ultimo, ord. TAR Calabria – Reggio Calabria, sez. I, n. 368 del 9 ottobre 2008; cfr., altresì, TAR Emilia Romagna – Bologna, sez. I, n. 566 del 21 aprile 2004), tuttavia mai del tutto “domata” dalle opposte pronunce di secondo grado.
Nel caso di specie, l’intervento del Giudice delle leggi è stato invocato dal Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento (ordinanza n. 31 del 2008ordinanza n. 32 del 2008, e ordinanza n. 40 del 2008)  il quale ritiene non infondata la questione sottoposta, sotto il profilo della potenziale lesione del diritto di difesa in giudizio del candidato il cui elaborato fosse stato valutato mediante assegnazione allo stesso di mero punteggio alfanumerico, con dedotta violazione quindi degli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione.
Sul punto, la Corte Costituzionale già era stata in passato chiamata in causa, con costanti esiti, tuttavia, di dichiarata inammissibilità della questione, per ritenuta “insussistenza in giurisprudenza di un vero e proprio diritto vivente”. Con autentico revirement, nella sentenza in commento la Corte ritiene invece per la prima volta ammissibile la questione: partendo dalla considerazione che, alla luce delle recenti pronunce del Consiglio di Stato, l’orientamento favorevole alla sufficienza del voto numerico è da ritenersi ormai consolidato, si giunge ad affermare che tale “soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio diritto vivente”. Nel prosieguo della pronuncia, il Giudice delle leggi ritiene comunque infondata la questione, con motivazione invero lapalissiana: le modalità di assegnazione del voto, infatti, atterrebbero il “profilo sostanziale” del provvedimento di valutazione (negativa) del candidato, mentre “l’aspetto processuale degli strumenti predisposti dall’ordinamento per l’attuazione in giudizio dei diritti non è chiamato in gioco dalla norma [di “diritto vivente”, ndr], che non preclude il ricorso al giudice amministrativo”.
L’ordinanza di rimessione del T.R.G.A. di Trento pare pertanto aver provocato un vero e proprio effetto-boomerang sulle ragioni, favorevoli all’orientamento contrario, ivi affermate; infatti, mediante l’assunto che riconosce quale diritto vivente (in quanto tale, passibile di vaglio di costituzionalità) un orientamento, sia pur consolidato, espresso dal Consiglio di Stato, e al di là di implicazioni più squisitamente costituzionali (laddove si riconosce forza normativa ad un orientamento giurisdizionale), la pronuncia in commento sembra porre la parola “fine” al surriferito contrasto giurisprudenziale, affermando la definitiva vigenza nel nostro ordinamento (con riferimento alle prove scritte dell’esame di Avvocato, ma con portata che pare ben più generale) del principio di sufficienza del voto numerico.