Il collegamento sostanziale fra Imprese partecipanti ad una gara d’appalto ne importa l’esclusione anche quando la responsabilità sia del consulente esterno

F.B.
Il Consiglio di Stato ribadisce il principio, già consolidato nella giurisprudenza, per cui, il collegamento sostanziale tra imprese, desumibile da dati molteplici, precisi e concordanti, che comprovano la provenienza delle offerte da un unico centro decisionale, comporta l’esclusione delle offerte: è questa l’indicazione proveniente dalla decisione della V Sez. del Consiglio di Stato, n. 4850 del 7 ottobre 2008.
Il divieto di partecipazione, spiega Palazzo Spada, è posto a tutela della par condicio dei concorrenti, oltre che della segretezza, della completezza, serietà, autenticità e compiutezza delle offerte; in ultima analisi, l’obiettivo finale è la scelta del miglior contraente, senza che i concorrenti possano conoscere le rispettive offerte prima dell’apertura in sede di gara.
In nome di tale esigenza, affermata anche a livello comunitario, il Consiglio di Stato rimarca che le fattispecie di esclusione per collegamento sostanziale non sono da intendersi tassativamente indicate dalla norma di riferimento, vale a dire l’art. 2359 c.c., bensì devono essere individuate di volta: viene pertanto definitivamente accantonato l’orientamento espresso dal TAR Lazio negli anni 2005-2006, che si fondava sul tenore letterale dell’art. 10-1bis l. 109/94, d’altronde superato dall’art. 34 del Codice dei Contratti.
Ormai pacifico, quindi, che il divieto sussiste anche in mancanza di una specifica clausola nella lex specialis, trattandosi di norma di ordine pubblico, si tratta di vedere quali siano i casi cui il divieto si applica, valutazione che ha dato luogo, anche in passato, a conclusioni, talvolta, eccessivamente rigorose.
Nel caso di specie, è stata ritenuta sussistente fattispecie di collegamento sostanziale in presenza di identiche polizze fideiussorie rilasciate dalla medesima compagnia e contrassegnate da numero ordinale progressivo; identiche erano altresì le dichiarazioni di conformità all’originale delle attestazioni SOA e del certificato ISO; nonché, altre identità formali dei documenti di gara. Tutti, in buona sostanza, elementi a carattere formale.
Da questo di vista punto la decisione in questione è di particolare interesse, in quanto afferma il principio per cui la circostanza che le Imprese si siano rivolte, per la preparazione della gara, al medesimo “Centro servizi”, non attenua, bensì se mai aggrava, il rischio di quel flusso informativo che implica l’inammissibilità delle offerte.
La decisione dà quindi luogo a un precedente significativo, e per nulla tranquillizzante per quelle Imprese che sono use a rivolgersi a Società di servizi per la predisposizione formale degli atti di partecipazione, anche quando la consulenza sia richiesta solo per preparare gli atti formali (soprattutto la busta amministrativa), esclusi, se del caso, offerta tecnica e offerta economica.
Se questo è il principio, sussiste in fin dei conti un onere, da parte della concorrente, di accertarsi che la Società di Servizi non curi per altri concorrenti la medesima gara, e per la Società di servizi, di avvisare le concorrenti di una simile evenienza.

Il c.d. danno esistenziale: eliminato o ridimensionato dalla Corte di Cassazione?

L.S.
Con le sentenze n. 26972 e n. 26973 dell’11 novembre 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno voluto porre un freno alla “proliferazione delle liti bagatellari” e delle “più fantasiose ed a volte risibili” sentenze di merito (per lo più emesse dal giudice di pace) che danno asilo ad interessi “palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale”.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che in realtà il danno non patrimoniale è connotato da tipicità ed è pertanto risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato dalla lesione di specifici diritti inviolabili della persona.
In altri termini, attraverso la “tipizzazione” del danno esistenziale, la Corte non ha voluto eliminare tale fattispecie di danno dall’ordinamento giuridico, ma ne ha più semplicemente ridimensionato la portata applicativa, che risultava in precedenza “potenzialmente incontrollabile”. La Corte ha inoltre lasciato quanto mai aperta la determinazione di quali siano i casi in cui tale danno può essere invocato e riconosciuto, precisando che “Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso. La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell‘apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”.
In conclusione, il risarcimento del danno non patrimoniale non viene escluso a priori, ma deve fondarsi sulla previsione dell’art. 2059 cod. civ., che accorda tutela ai soli casi determinati dalla legge ed ai casi in cui venga leso un interesse di rango costituzionale inerente ad una posizione inviolabile della persona umana.

La prosecuzione del rapporto di appalto, nel caso di cessione di azienda, è tutt’altro che scontata

F.B.
È quanto sostiene la V sezione del Consiglio di Stato, con decisione n. 4865 del 7 ottobre 2008.
Nel caso di specie, una società originariamente affidataria del servizio di raccolta di rifiuti solidi urbani nel territorio di un Comune cedeva l’azienda ad altra Società, ai sensi dell’art. 2558 c.c.; la società subentrante, pertanto, proseguiva l’erogazione del predetto servizio, nonostante l’opposto intendimento del Comune appaltante, che concludeva per la risoluzione del contratto, e per il riappalto del servizio.
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla fattispecie, ribadisce la non automaticità del proseguimento del servizio da parte del soggetto subentrante: la decisione è di apprezzabile rilievo, in quanto, seppure nel caso la lex specialis escludeva espressamente tale esito, la pronuncia si spinge nel merito della questione di diritto sottoposta, con spunti di interesse.
Come noto, l’art. 35 l. 109/94 stabiliva, nel caso di cessione di azienda e atti assimilabili (fusione, trasferimento, etc.), la possibilità di subentro previa verifica dei requisiti, ed il corrispondente onere di comunicazione all’amministrazione, la quale aveva la possibilità di opporsi al subentro in presenza di specifiche fattispecie. Analogamente l’art. 116 d.lgs. n. 163/2006.
Il Consiglio di Stato afferma il valore essenziale di tale procedimentalizzazione, nel caso di specie non esperita: mancando quindi le prescritte comunicazioni e verifiche, discende la conseguenza dell’esecuzione sine titulo del di servizio, e la riconduzione della vicenda ad un caso di “cessione del contratto” inammissibile.
Di particolare interesse, in simile contesto, il rigetto della censura afferente la mancata partecipazione al procedimento della Società subentrante, sostanzialmente considerata priva di un qualsivoglia interesse apprezzabile nella procedura. Implicitamente, quindi, la vicenda viene ricondotta ad una ipotesi di decadenza di diritto, con effetti immediati, dal rapporto, con conseguente in configurabilità di possibili sanatorie postume, anche nel caso di sussistenza dei requisiti sostanziali per il subentro.

L’errore “normativo” dovuto all’errato coordinamento fra disciplina precedente e successiva al Codice dei Contratti comporta l’illegittimità della lex specialis

F.B.
Le stazioni appaltanti poco aggiornate sulla nuova normativa in materia di appalti – fattispecie che di tanto in tanto si verifica – rischiano di vedersi pronunciata l’illegittimità della lex specialis, quando il divario è sostanziale.
È questo l’oggetto della controversia venuta all’attenzione della V Sezione del Consiglio di Stato, con decisione n. 5384 del 28 ottobre 2008.
Una stazione appaltante aveva indetto un appalto di servizi, redigendo la lex specialis di gara in base alla vecchia disciplina ex art. 157/95, nonostante la già avvenuta entrata in vigore del nuovo Codice degli Appalti; un’impresa aspirante concorrente impugna immediatamente il bando chiedendone l’annullamento.
L’amministrazione ha eccepito trattarsi di un mero lapsus calami, di rilievo quindi esclusivamente formale ai fini del corretto svolgimento della gara, trattandosi di normative sostanzialmente sovrapponibili. Il Consiglio di Stato respinge tale ricostruzione del rapporto fra le due normative (d.lgs. 157/95 e d.lgs. 163/06), prendendo atto che il Codice degli appalti non ha soltanto recepito passivamente le “vecchie” articolazioni del procedimento ad evidenza pubblica, bensì ha potenziato ed esteso alcuni istituti in nome dei principi di diretta derivazione comunitaria non ancora pienamente espressi in precedenza nell’ordinamento nazionale (ciò che comporta per le “nuove” procedure di gara una maggiore competitività, una più estesa concorrenza etc.).
L’errore sopra evidenziato si pone pertanto, di per sé solo, come ostacolo al corretto svolgimento della procedura.
L’interesse della decisione, i cui principi hanno portata generale e quindi valgono in presenza di una qualsivoglia modifica di legge, è apprezzabile sotto il profilo seguente.
Il Consiglio di Stato, infatti, esclude che occorra una qualsivoglia prova di resistenza per sostenere l’interesse al ricorso: ed in effetti, appurato che le modifiche apportate dal Nuovo Codice sono tutt’altro che di dettaglio, tale interesse va ravvisato a prescindere dal fatto che le vecchie regole erroneamente richiamate impediscano in via immediata la partecipazione. Tale interesse sussiste, quindi, per il solo fatto della difformità del bando rispetto alla legge sopravvenuta rispetto alla normativa della quale esso fa applicazione.
La decisione non scioglie invece il nodo se simili censure debbano fare oggetto di immediata impugnativa, ovvero possano essere sottoposte in uno all’atto finale, ma, salvo forse il caso che la norma abrogata richiamata a sproposito sia da subito impeditiva della partecipazione, non si ravvisano impedimenti in questo senso.

DURC: la regolarità contributiva, in presenza di apposita clausola della lex specialis

Deve sussistere a far data dalla pubblicazione del bando, senza possibilità di sanatoria neppure all’epoca della presentazione delle offerte

F.B.
È questo il principio ricavabile dalla pronuncia della V sezione del Consiglio di Stato, n. 4871 del 7 ottobre 2008.
Nel caso di specie, la lex specialis stabiliva che i requisiti, compresa la regolarità nei confronti delle previdenze, dovessero essere conseguiti al momento della pubblicazione del bando. L’appellante aveva dichiarato il possesso dei requisiti già a tale epoca, e, tuttavia, la regolarità contributiva era stata conseguita postuma.
La tesi dell’appellante era che la regolarizzazione successiva al bando, ma antecedente la presentazione delle offerte, avrebbe reso possibile la partecipazione. Di contrario avviso il Consiglio di Stato, il quale ha affermato i princìpi per cui:
a)      la clausola della lex specialis che stabiliva il possesso dei requisiti già all’epoca del bando è legittima;
b)      a fronte della violazione di tale clausola, discende la conseguenza dell’esclusione.
Circa il primo profilo (a)), afferma il Consiglio di Stato, la clausola rientra tra quelle immediatamente impeditive la partecipazione, da cui la tardività della censura mossa dall’Impresa non in possesso dei requisiti solo in uno all’impugnazione dell’esclusione.
Tuttavia, la decisione si spinge comunque nel merito, evidenziando che, seppure il principio generale è quello per cui i requisiti devono sussistere all’epoca della presentazione delle offerte, una anticipazione di tale momento alla pubblicazione del bando è lecita, in quanto proporzionata e ragionevole, stante l’esigenza di garantire che la S.A. abbia a interloquire con soggetti di comprovata affidabilità.
Ne è seguita (b)) la declaratoria di esclusione, questa volta in ossequio a regole consolidate, quale quella del divieto di sanatoria postuma in materia di requisiti, e di esclusione delle imprese che abbiano reso dichiarazioni mendaci.
Il principio, reso con riferimento alla previgente normativa, trova applicazione anche per la disciplina attualmente vigente, recata dal d.lgs. n. 163/2006.

La responsabilità precontrattuale della p.a. può essere causa di risarcimento del danno anche a fronte di atti amministrativi legittimi

G.A.
La V Sezione del Consiglio di Stato, con decisione 8 ottobre 2008, n. 4847 ha ribadito che anche nel caso di revoca legittima degli atti di una procedura di gara può sussistere la responsabilità della pubblica amministrazione per responsabilità precontrattuale, qualora essa abbia suscitato affidamenti dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi (fattispecie relativa a procedura esplorativa negoziale per l’affidamento della gestione di un piano di emergenza di smaltimento rifiuti, revocata nell’imminenza della stipula del contratto).
Nell’occasione, il Consiglio di Stato conferma una innovativa pronuncia del TAR del Lazio (Roma, Sez. I ter, n.5109/2003 del 20 giugno 2005), antesignana della importante Adunanza Plenaria n. 6/2005, richiamata anche dalla decisione in rassegna.
E’ sempre più vero, pertanto, che nel giudizio amministrativo la tutela risarcitoria non è ancorata al previo formale annullamento di atti tipici, essendo invece sovente riconducibile alla violazione dei principi generali dell’ordinamento quali, nel caso di specie, la buona fede ex artt. 1337 c.c..

L'autorità di vigilanza non pone particolari paletti all'utilizzo delle offerte economicamente più vantaggiose negli appalti di lavori pubblici

M.P.C.
L’Autorità di vigilanza, con la determinazione 8 ottobre 2008, n. 5, è tornata a considerare le forme di utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa negli appalti dei lavori pubblici.
Come è noto, il Codice dei contratti pubblici ha introdotto a tale proposito una significativa innovazione rispetto alla legge Merloni, prevedendo che l’aggiudicazione tramite l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente diviene il criterio ordinario, rispetto a quello del prezzo più basso. L’innovazione non è stato il frutto di una scelta “autoctona”, ma la conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia (7 ottobre 2004, C-247/02) che aveva concluso per il contrasto con il diritto comunitario di una normativa (come appunto quella italiana) che imponga come criterio unico o prevalente quello del prezzo più basso.
Le pubbliche amministrazioni godono così di un ampio potere discrezionale; ma, poste dinanzi alla necessità di dover motivatamente scegliere quale criterio adottare, “in relazione alle caratteristiche dell’oggetto del contratto” (art. 81, c.2, del Codice), hanno manifestato una sorta di agorafobia e chiesto indicazioni operative all’Autorità.
La determinazione in esame, correttamente, rileva i vincoli comunitari che presiedono alla richiamata disposizione; nonché l’impossibilità di dare indicazioni preventive ed astratte. Pertanto, dopo un’utile ricapitolazione di tutti i dati rilevanti, l’Autorità si limita a ribadire taluni criteri generali già noti. Ovvero che il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa può essere adottato quando le caratteristiche oggettive dell’appalto inducano a ritenere rilevanti, ai fini dell’aggiudicazione, uno o più aspetti qualitativi, quali, ad esempio, l’organizzazione del lavoro, le caratteristiche tecniche dei materiali, l’impatto ambientale, la metodologia utilizzata.
Per converso, il criterio del prezzo più basso è – per l’Autorità – preferibile quando l’oggetto del contratto ha basso valore tecnologico o si svolge con procedura largamente standardizzate.
Dopo queste opportune conferme dell’Autorità, è da sperare che finalmente le amministrazioni facciano il più ampio uso del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; stante che nella maggioranza dei casi l’aggiudicazione degli appalti di lavori richiede l’applicazione di elementi qualitativi e di criteri non automatici. Il tutto senza mettere a rischio, naturalmente, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di garanzia della concorrenza.

Istituti di vigilanza privata: arriva la liberalizzazione "forzata"

M.M.
In materia di requisiti per il rilascio di licenze di P.S. ai fini dell’attivazione di un istituto di vigilanza privata, la “liberalizzazione” non prende le mosse dal “foro interno”, ma proviene da una pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità Europee.
Il punto sulla “nuova” situazione in materia lo fa la recente decisione della VI Sezione del Consiglio di Stato, n. 5052, pubblicata in data 17.10.2008; tale pronuncia è stata resa a seguito di appello promosso dall’Amministrazione avverso una sentenza di prime cure che aveva annullato il diniego, opposto da una Prefettura, ad una richiesta di rilascio della licenza ex art. 134 T.U.L.P.S.
In particolare, nel caso in parola si versa nella ipotesi comune di diniego opposto dall’Amministrazione ai sensi dell’art. 136, II co. T.U.L.P.S., ovvero per il caso in cui il rilascio possa essere negato “in considerazione del numero o della importanza degli istituti già esistenti”: tale motivazione è stata sovente utilizzata dalle Prefetture di tutta Italia per evitare scompensi numerici fra forze “private” di polizia e addetti di pubblica sicurezza, con possibile danno per la pubblica incolumità, nonché per mantenere la qualità del servizio evitando un ingresso indiscriminato sul mercato dei soggetti interessati; si è altresì consolidato via via in giurisprudenza l’orientamento che vuole tale ragione di diniego necessariamente sorretta da puntuale motivazione, anche in ordine agli altri fattori “contestuali” che inducano l’Amministrazione a negare il richiesto rilascio, così “sganciando” di fatto la discrezionalità dell’Amministrazione dal mero dato formale e fattuale (id est, mero “calcolo” del numero di licenze già rilasciate in una certa area geografica) e aggiungendovi un quid pluris istruttorio, di natura sostanziale, in tema di tutela dell’interesse pubblico.

A ben vedere, come anche puntualmente rileva Palazzo Spada nel caso in esame, l’equivoco di fondo di tale orientamento stava proprio nell’eccessiva discrezionalità concessa alle Amministrazioni in sede di verifica della sussistenza o meno di ragioni di pericolo per l’interesse pubblico nel caso di rilascio della licenza ex art. 134 T.U.L.P.S.; tale verifica, troppo spesso, comportava da parte delle Autorità preposte valutazioni sconfinanti e incidenti nel campo della concorrenza, la cui tutela per l’effetto usciva necessariamente e sistematicamente sconfitta dalla comparazione con la ben più penetrante tutela della pubblica incolumità.
In altre parole, la concorrenza fra istituti privati di vigilanza finiva per essere di fatto condizionata dalla (probabilmente eccessiva) discrezionalità delle Prefetture.
Tali ambiguità, ad ogni buon conto, sono state ora spazzate via dalla recente sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, C-465/05 (Commissione vs. Italia) del 13 dicembre 2007, che ha ritenuto contrarie alla tutela della libera circolazione dei servizi e del diritto di stabilimento alcune disposizioni in materia, fra cui specificamente il secondo comma del predetto art. 136 T.U.L.P.S.
In altre parole, la Corte Europea, in disparte il sospetto “straripamento” di discrezionalità da parte delle Prefetture di cui si è detto, ha senz’altro sancito la contrarietà di parte della disciplina di cui agli artt. 134 ss. T.U.L.P.S. ai principi in materia di mercato comune europeo, ritenendo eccessivamente gravosi i requisiti ivi richiesti e, soprattutto, non trovando i medesimi alcuna giustificazione in speciali ragioni di ordine pubblico che possano giustificare la deroga ai principi di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato di Roma istitutivo delle Comunità Europee.
Il legislatore nazionale, adeguandosi all’indicazione proveniente dalla Corte di Lussemburgo, ha quindi provveduto all’abrogazione della disposizione in parola, ovvero il II co. dell’art. 136 T.U.L.P.S., con il d.l. 59 del 8 aprile 2008, poi convertito con legge n. 101 del 6 giugno 2008.

Di tale evoluzione giurisprudenziale e legislativa dà quindi puntualmente conto la decisione sopra richiamata, che ha il pregio, anche in ragione della sede autorevole in cui è stata resa, di porsi come “sigillo” definitivo all’annosa questione interpretativa dell’ormai abrogato art. 136 co. II T.U.L.P.S.

Si può essere esclusi dalle prove orali di un concorso pubblico solo se assenti all’ora prevista per l’inizio della propria prova

D.S.
Il  TAR Lazio - Roma (sez. II bis, sentenza 1° luglio 2008, n. 6339), chiamato a pronunziarsi sulla legittimità di un provvedimento di esclusione da un pubblico concorso, ha statuito che la previsione contenuta in un bando secondo cui va escluso dal concorso il candidato che non si presenti all’ora fissata per lo svolgimento di ciascuna prova, deve essere interpretata, se riferita alle prove orali, nel senso che la esclusione può essere legittimamente disposta solo in caso di assenza all’ora prevista per l’inizio della prova per quel candidato, secondo l’ordine prefissato dalla stessa Commissione (ad es. per sorteggio), e non già all’ora prevista genericamente per l’inizio dei colloqui.
Una diversa interpretazione della prescrizione contenuta nel bando – secondo il GA – verrebbe, infatti, a porsi irragionevolmente in contrasto con il principio del favor partecipationis giacché l’esclusione conseguente alla mera assenza all’apertura dei colloqui del candidato, ma regolarmente presente al momento stabilito per lo svolgimento della sua prova, non rinviene giustificazione né in esigenze di salvaguardia della par condicio fra i concorrenti, né in esigenze di tipo organizzativo apprezzabili.
Conseguenza pratica di questa pronuncia, quindi, è che chiunque prenda parte ad un concorso e debba sostenere la prova orale non può essere escluso per il sol fatto di non essersi presentato all’ora stabilita nel bando per l’inizio dei colloqui, richiedendosi di contro ai fini della legittimità del provvedimento di esclusione che il candidato non sia presente nel momento in cui, secondo l’ordine seguito per lo svolgimento della prova, lo stesso è chiamato a sostenere il proprio esame orale.
Con la interessante pronuncia in commento, nel dare seguito ad un unico precedente, risalente all’anno 1993, rinvenibile nella giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 25 ottobre 1993, n. 1104), si è dunque tentato di fare chiarezza sulla corretta interpretazione dei bandi concorsuali nel rispetto, in primis, del richiamato principio del favor partecipationis.

Procedura di gara sospesa cautelativamente dal giudice amministrativo? Consentito all’Amministrazione attivare la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando

D.S.
In materia di trattativa privata ed estrema urgenza, si segnale una sentenza del TAR Piemonte (sez. I, 1° settembre 2008, n. 1887) in cui si afferma che la non imputabilità di detta urgenza che, ai sensi dell'articolo art. 57, comma 2, lett. c) del d.lgs. 12.4.2006, n. 163, legittima il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, deve interpretarsi come non dipendenza della situazione di urgenza da ritardi dipesi dalla omissione degli atti di avvio e di coltivazione delle procedure di gara da parte della stazione appaltante.
A tale conclusione è pervenuto il giudice amministrativo richiamando a sostegno della interpretazione in commento la  giurisprudenza formatasi sulle analoghe disposizioni limitative presenti nella pregressa normativa (l'art. 41, lett. e, r.d. 23 maggio 1924, n. 827) (TAR Lazio – Latina, 14 febbraio 2006, n. 146; Consiglio di Stato, Sez. V, 16 novembre 2005, n. 6392). Non solo. Secondo il TAR, in presenza di appalti pubblici di servizi può anche invocarsi come ausilio interpretativo l’abrogata norma di matrice comunitaria di cui all’art. 7, comma 2, lett. f) del d.lgs. 18 marzo 2005 n. 157, di recepimento della direttiva CEE n. 92/50 del Consiglio, secondo il quale l’urgenza legittimante la trattativa privata deve essere determinata da avvenimenti imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice. Nell’applicare il predetto principio, il TAR ha escluso però che vi possa essere automaticità tra illegittimità della procedura di gara (anche eventualmente delibata in fase cautelare) e prevedibilità/coscienza, da parte dell’Amministrazione, che si tratti di gara viziata, tale dunque da escludere il ricorso al modulo negoziale in questione. Ritenere, infatti, ha aggiunto il TAR, che l’Amministrazione possa sin dall’origine dirsi cosciente del fatto di aver posto in essere una gara viziata, rappresenterebbe “una petizione di principio, indimostrata e probabilmente anche indimostrabile”. Da qui la scelta di ritenere la sospensione della procedura di gara per effetto di un provvedimento cautelare del giudice amministrativo evento suscettibile di determinare una situazione di urgenza e di eccezionalità tale da legittimare l’attivazione della procedura negoziata in questione, se finalizzata – come nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Piemonte – a sopperire alle impellenti necessità di interesse pubblico di assicurare la non interruzione del servizio di appalto oggetto del giudizio.
La conclusione cui è pervenuto il TAR è senz’altro condivisibile, ma ci saremmo attesi maggiore chiarezza su una questione di non facile interpretazione quale è quella della condizione ostativa delineata dal richiamato art. 57.