Requisiti e limiti dell'affidamento “in house”

L.S.

La disciplina prevista dall’art. 23 bis del D.L. n. 112 del 2008 - affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica - costituisce la regola per l’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali; l’affidamento in house rappresenta un’eccezione e può essere disposto solo nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria.
Il Tar Toscana, trattando l’annoso e quanto mai attuale problema dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, rileva che, in applicazione dell’art. 23-bis, comma 3, del D.L. 112/08, gli affidamenti diretti della gestione di servizi pubblici locali, rappresentando un’eccezione all’ordinaria regola dell’evidenza pubblica, devono avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria, come possono evincersi dalla più ecente giurisprudenza comunitaria e nazionale (cfr tra le tante Cons. Stato, Ad. Ple., 03.03. 2008 n.1; e C.G.A. 04.09.07 n. 719; Cons. Stato, sez. V, 26.08.2009 n. 5082), e previa richiesta di parere – corredata da informazioni e dai documenti rilevanti (in particolare da una relazione contenente gli esiti delle indagini di mercato, da cui risulti la convenienza dell’affidamento diretto rispetto all’esperimento di una procedura ad evidenza pubblica, dall’indicazione delle modalità di pubblicità utilizzate e dalle indicazioni soggettive dell’impresa interessata) – all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Concorso pubblico: il candidato non è tenuto a certificare mediante firma o sigla l’avvenuta correzione di un errore

D.S.

In materia di concorsi pubblici, merita segnalare una decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa (sentenza 28 agosto 2009 n. 708), chiamato a pronunciarsi sull’appello promosso da un candidato che si era visto escluso dai posti utili ai fini dell’assunzione di una (riformulata, in via di autotutela, da parte dell’Amministrazione banditrice) graduatoria concorsuale, per non aver provveduto, una volta avvedutosi di taluni errori durante lo svolgimento della prova scritta, a certificare la correzione mediante firma o sigla; il candidato si era, infatti, limitato nell’occasione ad apporre la sigla "deleta" sulla risposta errata ed a fornire quella corretta a margine del foglio.
Il Collegio siciliano, condividendo la tesi del ricorrente, ha sancito che non è previsto alcun obbligo di certificare le correzioni a carico dei concorrenti, essendo quest’ultimi tenuti a fare solo in modo che il testo corretto risulti ancora leggibile. Né può considerarsi applicabile – ha aggiunto lo stesso Collegio -  l’art. 13 della legge n. 15/1968, sulle modalità di redazione degli atti pubblici, peraltro, abrogata dal D.P.R. n. 445/2000.
Non solo. Richiedere l’apposizione della firma o di una sigla accanto alla correzione – come correttamente rilevato dal C.G.A. – equivarrebbe a sacrificare l’esigenza dell’anonimato, imprescindibile ai fini della par condicio tra i concorrenti e, dunque, di una imparziale gestione delle procedure concorsuali da parte delle Commissioni esaminatrici.

Il dipendente pubblico esercita un’attività extra-istituzionale retribuita, ma senza autorizzazione? Non commette (necessariamente) un illecito erariale

D.S.

La Corte dei Conti (Sez. I, Giurisdizione Centrale d’Appello, sentenza del 16 settembre 2009 n. 554) si è recentemente pronunciata su un caso di danno erariale per “illecita sottrazione di energie lavorative ed intellettuali alla pubblica amministrazione a fini privati”, conseguente – secondo l’assunto della Procura Regionale appellante - all’esercizio non autorizzato di un’attività extra-istituzionale retribuita (nel caso trattato dalla Corte, di amministratore di condominio) da parte di un dipendente pubblico.
La Corte, confermando la sentenza di primo grado, ha condivisibilmente affermato che non v’è automatismo tra esercizio di un’attività extra-istituzionale non autorizzata e danno erariale, richiedendosi, ai fini della sua configurabilità, la prova di una riscontrata minore resa del servizio, con abbassamento anche qualitativo delle prestazioni lavorative (come potrebbe, ad esempio, attestare – ha aggiunto la Corte - una accertata situazione di disordine amministrativo o contabile riconducibile al funzionario).
Pertanto, l’assenza di autorizzazione non può condurre di per sé alla condanna del dipendente che svolge una simile attività.
I funzionari pubblici potranno dunque liberamente svolgere attività extra-istituzionali senza temere a questo punto di incorrere in alcuna responsabilità?
Nient’affatto. Non si è ritenuto – e, del resto, non si vede come si sarebbe potuto pervenire ad una simile conclusione, stante, tra l’altro, il chiaro dettato dell’art. 53, comma 7, del D.Lgs. 165/2001 (cd. Testo Unico sul pubblico impiego) -  che la condotta del dipendente pubblico che eserciti una siffatta attività vada esente da ogni “rischio”: ferma restando, infatti, la responsabilità disciplinare, non va dimenticato che lo svolgimento di attività senza preventiva autorizzazione comporta per il dipendente, a prescindere dalla produzione di un danno all’Amministrazione connesso ad un comportamento gravemente colposo, l’obbligo di versare all’Erario i compensi percepiti. Ma, come ha correttamente osservato la Corte dei Conti, perché possa configurarsi (altresì) un illecito erariale, occorre dimostrare che dallo svolgimento di quell’attività sia effettivamente derivato un pregiudizio economico per l’Ente di appartenenza.

Contributi pubblici ai nubendi per l’acquisto di alloggi di edilizia economica e popolare: il TAR sospende il provvedimento di revoca, ma pone dubbi sulla giurisdizione

A.V.

Con ordinanza n. 732 del 4/9/2009, il Tar della Toscana ha concesso la sospensione del provvedimento impugnato, con il quale la Regione Toscana aveva disposto la revoca del contributo pubblico concesso al ricorrente per l’acquisto di un alloggio di edilizia economica e popolare ed aveva imposto la restituzione di quanto già a tale titolo erogato. 
Nella decisione del Tar ha prevalso, come era corretto che fosse, l’attenzione alla condizione economica del ricorrente, tale per cui, l’esborso della non trascurabile somma richiesta dalla Regione, seppur a rate come consentito dalla normativa regionale, avrebbe potuto essere fonte di un danno grave ed irreparabile per il ricorrente e la sua famiglia, investendo direttamente le condizioni di vita del nucleo familiare dell’interessato.
A differenza di quanto recentemente accaduto in casi analoghi, in cui il Tar aveva ravvisato nella rateizzazione dell’importo oggetto di restituzione, la possibilità di scongiurare qualunque pregiudizio per il privato, nel caso in esame è stata dato il giusto rilievo alla condizione familiare ed economica dell’interessato ed è stato effettuato il giusto contemperamento tra le diverse posizioni delle due parti in causa, un privato cittadino da una parte ed un Ente Pubblico dall’altra.
Si ritiene, in sostanza, che nel caso in esame lo strumento della tutela cautelare abbia raggiunto appieno la propria finalità conservativa, senza ridursi ad una prematura e sommaria anticipazione dell’esito della fase di merito del giudizio, per la cui definizione è, come noto, necessario seguirne l’integrale svolgimento.
Nella medesima ordinanza, tuttavia, il Tar mantiene ferma la questione già prospettata in precedenza, circa il possibile difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo adito in favore del Tribunale Ordinario.
Si tratta di questione tutt’altro che pacifica, soprattutto in casi quale quello oggetto della ordinanza in esame, in cui la Regione solleva al ricorrente una contestazione che, a seconda dei diversi punti di vista, potrebbe avere ad oggetto requisiti mai posseduti dal ricorrente medesimo, oppure requisiti non acquisiti e/o non mantenuti in epoca successiva all’erogazione del contributo in parola; determinandosi per ciascuno dei due casi, una diversa giurisdizione.

I presupposti per l’emanazione dell’ordinanza contingibile ed urgente in materia di abbandono di rifiuti ex art. 192 d.lgs. n. 152/2006

Ancora non uniforme l’orientamento della giurisprudenza sul punto

F.O.

Due recenti sentenze, la prima del Consiglio di Stato n. 3765, 12 giugno 2009, e la seconda del TAR Lombardia n. 4379, 16 luglio 2009, richiamano l’attenzione sul tema della ammissibilità di un’ordinanza contingibile e urgente in materia di abbandono di rifiuti ex art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (T.U. Ambiente), giungendo però a conclusioni diverse. Come è noto la giurisprudenza ha ormai acquisito che il potere extra ordinem riconosciuto in capo al Sindaco dall’art. 54 T.U. enti locali, ovvero il potere di adottare con atto motivato provvedimenti, anche contingibili ed urgenti, per prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, può essere legittimamente esercitato solo quando concorrano tre presupposti: “1) una situazione, eccezionale e non prevedibile, di grave pericolo che minaccia l’incolumità dei cittadini; 2) l’urgenza di provvedere; 3) la non fronteggiabilità della situazione con i normali rimedi apprestati dall’ordinamento” (TAR Piemonte, sez. II, 12.6.2009, n. 1680). Nell’ordinanza, pertanto, il Sindaco dovrà dare conto della sussistenza di tali presupposti, nonché dare ampia motivazione sull’impossibilità di poter far fronte alla attuale ed eccezionale situazione di pericolo con gli ordinari poteri ad esso attribuito o attraverso i normali strumenti apprestati dall’ordinamento (TAR Toscana, 18.6.2009, n. 1070).
Con riguardo poi alla materia di gestione dei rifiuti, l’art. 192 T.U. Ambiente al comma 3 prevede: “Fatta salva l’applicazione della sanzione di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.

L’espresso riferimento all’ordinanza quale strumento attraverso il quale l’Amministrazione può imporre al responsabile del danno ambientale l’obbligo di rispristino dei luoghi ha posto in giurisprudenza dubbi sulla sua configurabilità quale ordinanza contingibile ed urgente. Dubbi che la sentenza del Consiglio di Stato in commento sembra aver definitivamente chiarito nel senso di escludere la possibilità del ricorso all’ordinanza contingibile e urgente in ipotesi di abbandono di rifiuti ex art. 192 cit..In particolare i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che il potere extra ordinem, ex art. 54 T.U. Enti Locali, “deve essere atipico e residuale e cioè esercitabile (sempre che ne ricorrano i presupposti dell’urgenza, della gravità e del pericolo, ecc.), quante volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare atti tipici in presenza di presupposti indicati da specifiche normative di settore; viceversa, proprio l’art. 14, co. 3, cit. [d.lgs. n. 22/1997] configura una siffatta specifica normativa con la previsione d’un ordinario potere d’intervento attribuito all’autorità amministrativa.
In conclusione, l’art. 14 (ed oggi l’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006), prevede un’ordinanza di sgombero a carattere sanzionatorio tanto è vero che per la sua applicazione a carico dei soggetti obbligati in solido, prevede in capo agli stessi l’imputazione a titolo di dolo o colpa del comportamento tenuto in violazione dei divieti di legge”.
Secondo il Consiglio di Stato, quindi, sarebbe sempre escluso il ricorso all’ordinanza contingibile e urgente nell’ipotesi di abbandono di rifiuti, in quanto tale specifica ipotesi trova compiuta disciplina nell’art. 192 cit. attraverso la previsione di un ordinario potere di intervento dell’Amministrazione, esercitabile in presenza di specifici presupposti, consistenti nella violazione del divieto di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti ovvero di immissione di rifiuti, ai sensi dei commi 1 e 2.

Dall’analisi esegetica delle disposizioni citate emergono chiaramente le ragioni di tale decisione. In particolare stante la fattispecie di illecito ambientale prevista dal comma 2 dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006, ovvero immissione di rifiuti, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee, non vi è chi non veda in tale ipotesi l’automatica configurabilità del pericolo grave ed imminente di inquinamento delle falde e delle sorgenti acquifere, tale per cui l’urgenza e la tempestività dell’intervento sono da considerarsi in re ipsa. Ebbene, configurata la fattispecie nei suddetti termini, il legislatore ha poi disciplinato compiutamente le modalità di intervento in via ordinaria dell’Amministrazione, contemperando da un lato il principio di matrice comunitaria “chi inquina paga”, dall’altro quello di fornire una risposta eventualmente anche immediata al rischio imminente di inquinamento. L’equilibrio tra le due esigenze è dato: da un lato dalla previsione dell’onere a carico dell’Amministrazione di individuare il responsabile dell’illecito nei soli confronti del quale si potrà emanare l’ordinanza di ripristino di cui al comma 3; dall’altro dalla previsione dell’esecuzione, direttamente da parte dell’Amministrazione, delle opere di ripristino in danno dei soggetti obbligati, se questi ultimi non vi abbiano provveduto (dovendosi annoverare in questa ipotesi anche il caso in cui non è stato possibile individuare tempestivamente il responsabile, o i soggetti coobligati, per far fronte alla situazione di urgenza).

Tanto più se, come ribadisce il Consiglio di Stato, si considera che “sia il d.p.r. n. 915 del 1982 sia il d.lgs. n. 22 del 1997, sia il d.lgs. n. 152 del 2006, hanno espressamente attribuito al sindaco la titolarità del potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di rifiuti, rispettivamente agli art. 12, 13 e 191. In questa disciplina, pertanto, si ritrovano gli elementi propri del potere di ordinanza ex art. 38, l. n. 142 del 1990 (oggi art. 54, t.u. enti locali), ossia il riferimento ad una situazione di necessità ed urgenza oltre all’impossibilità di provvedere in altro modo (cfr. Cons. St., sez. V, 25 agosto 2008, n. 4067; Cons. giust. amm., 2 marzo 2007, n. 97)”.

Una interpretazione della norma nel senso che si è appena prospettato appare la più coerente con il principio “chi inquina paga”, in quanto evita, in ipotesi di pericolo grave ed imminente per la salute ambientale, che l’Amministrazione possa eludere la normativa di settore facendo sistematico ricorso, come in effetti accade, allo strumento eccezionale dell’ordinanza contingibile ed urgente, senza procedere agli accertamenti necessari per individuare il responsabile dell’illecito.
In senso apparentemente contrario, però, si è pronunciato il TAR Lombardia, con l’altra sentenza in commento, nella quale, richiamati i presupposti per l’emanazione dell’ordinanza ex art. 54 T.U. Enti Locali, si afferma: “Di conseguenza sono consentiti tali provvedimenti anche quando un’apposita disciplina regola in via ordinaria determinate situazioni, laddove la necessità di provvedere risulti tanto urgente da non consentire il tempestivo utilizzo.
L’ordinanza può essere adottata anche a fronte di sole situazioni di pericolo, allo scopo di evitare la produzione di un danno per la salute pubblica, senza che si debba attendere che si sia verificato il danno medesimo”….. “Inoltre, il provvedimento contingibile ed urgente che impone interventi su un’area inquinata prescinde dalla responsabilità del proprietario nel cagionare l’inquinamento, a differenza di quanto previsto per i provvedimenti bonifica di cui al D.lgs. 152/2006, cha ha sostituito il D.lgs. 22/1997”.

La sentenza del TAR Lombardia parrebbe sovvertire completamente, fino ad eluderla, la disciplina prevista dall’art. 192 T.U. ambiente. I punti critici della decisione sono: 1) la possibilità per l’Amministrazione di emenare, previa sussistenza dei necessari presupposti, un’ordinanza contingibile ed urgente non solo quando il danno è già avvenuto, ma già prima quando vi è solo una situazione di pericolo; 2) svincolare l’ordinanza contingibile ed urgente dalla necessità di individuare l’effettivo responsabile del danno, facendo ricarede l’obbligo di ripristino sul proprietario in base al solo rapporto di disponibilità con l’area inquinata e a prescindere dalla sua responsabilità soggettiva. In merito al primo punto la criticità consiste, secondo chi scrive, nel fatto che si consentirebbe all’Amministrazione la possibilità di utilizzare uno strumento eccezionale ed extra ordinem anche in un momento anteriore alla effettività e imminenza del danno, ovvero alla situazione di pericolo, quindi in difetto del presupposto dell’urgenza. A ciò si aggiunga, poi, che l’art. 192 d.lgs. 152/2006 – come sopra esposto – già di per sé considera sia la situazione di pericolo (abbandono incontrollato di rifiuti), sia quella in cui il danno si è già realizzato (immissione di rifiuti nelle acque superficiali e sotterranee), predisponendo un intervento in via ordinaria; il T.U. Ambiente, cioè, disciplina una situazione che è già di pericolo grave e imminente, optando per un intervento ordinario dell’Amministrazione, senza dare possibilità di fare ricorso al potere extra ordinem ex art. 54 T.U. enti locali.

Difficilmente superabile, poi, appare la prenscindibilità dell’ordinanza dall’individuazione del responsabile del danno, alla luce dello stringente principio “chi inquina paga” e della disciplina attuativa ex art. 192 cit..
In realtà la sentenza in commento va “confinata” nei termini della questione sottesi al caso di specie esaminato, al quale non parrebbero potersi applicare i principi generali richiamati dai Giudici Lombardi nella prima parte della decisione. L’ordinanza contingibile ed urgente oggetto di impugnazione, infatti, era stata motivata dall’Amministrazione con riferimento all’art. 217 r.d. n. 1265/1934, nel quale si prevede che in caso di lavorazioni insalubri, se vi è pericolo o danno alla salute pubblica, il sindaco può prescrivere gli interventi atti a prevenirlo o impedirlo. Ebbene, il precedente art. 216 r.d. cit. prevede che chiunque intenda attivare un’attività con lavorazioni insalubri deve richiedere apposita autorizzazione al sindaco, in capo al quale, comunque, rimane ampio potere, anche successivamente all’autorizzazione, di intervenire per impedire le lavorazioni che possano in qualsiasi tempo recare danno alla salute pubblica. In questo contesto, pertanto, l’ordinanza contingibile ed urgente è legittima in quanto la fattispecie è profondamente diversa da quella contemplata dall’art. 192 T.U. ambiente. Questo per due ordini di motivi:
1) nel caso di lavorazioni insalubri l’amministrazione non ha necessità di individuare il responsabile del danno, essendovi a monte una precedente autorizzazione che individua nel beneficiario della stessa il responsabile delle attività autorizzate;
2) le ipotesi di inquinamento previste all’art. 217 r.d. n. 1265/1934 sono espressione di un’attività lecita e legittimata dall’autorizzazione, mentre quelle di cui all’art. 192 T.U. ambiente riguardano ipotesi di illecito per violazione del divieto di abbandono incontrollato di rifiuti o di immissione di rifiuti in acque superficiali e sotterranee, non autorizzate.
Il TAR Lombardia, pertanto, attraverso il richiamo a principi generali ha affrontato le problematiche relative all’ammissibilità di ordinanze contingibili ed urgenti in caso di ripristino di aree inquinate pronunciandosi in senso favorevole, salvo poi fare applicazione dei suddetti principi in un caso in cui le medesime problematiche, a rigore, non si presentavano, per i motivi sopra esposti. Per inciso, il richiamo operato dai Giudici Lombardi (e già prima dal Consiglio di Stato, sent. n. 6055/2008) al criterio della c.d. successione economica, introdotto dalla Corte di Giustizia CE con la sentenza C-280/2006, va rettamente inteso. Nell’occasione la Corte di Lussemburgo, chiamata a pronunciarsi su una questione di diritto della concorrenza, ha affermato che: “Occorre inoltre rilevare che, se nessun’altra possibilità di imposizione della sanzione ad un ente diverso da quello che ha commesso l’infrazione fosse prevista, alcune imprese potrebbero sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa…
Di conseguenza, qualora un ente che ha commesso l’infrazione sia oggetto di una modifica di natura giuridica o organizzativa, tale modifica non ha necessariamente l’effetto di creare una nuova impresa esente dalla responsabilità per i comportamenti anticoncorrenziali del precedente ente se, sotto l’aspetto economico, vi è identità tra i due enti” (par. 41 e 42). Il criterio della successione economica parrebbe trovare applicazione in presenza di due condizioni: 1) tra l’ente che ha commesso l’infrazione e l’ente “successore” non vi è soluzione di continuità, in quanto il nuovo ente è solo il risultato della modifica dell’entità dell’ente predecessore attraverso modifiche di natura giuridica o organizzativa; 2) tra l’ente che ha commesso l’infrazione e l’ente “successore” deve persistere una identità sotto l’aspetto economico. Da questo punto di vista, sussistendo identità tra i due enti, l’applicazione del criterio in materia ambientale della successione economica non pare contrastare con il principio “chi inquina paga”, come tra l’altro conferma il Consiglio di Stato nella sentenza n. 6055/2008. Ma la Corte di Giustizia ha introdotto il criterio della successione economica per garantire l’effetto dissuasivo delle sanzioni previste in caso di violazione della concorrenza, colpendo ovviamente il centro economico che dalla violazione ha tratto vantaggi. Tant’è che, anche qualora l’ente che abbia commesso la violazione continui ad esistere giuridicamente, ma non eserciti più attività economica, secondo i Giudici di Lussemburgo da sanzionare è l’ente successore secondo il criterio, appunto, della successione economica (identità degli enti). Non si vuole in questa sede approfondire la complessa tematica relativa al criterio della successione economica, ma solo evidenziare le problematiche che si possono presentare nel caso di una sua estensione in altri ambiti, quale quello della responsabilità per illecito ambientale, in cui vigono principi di segno contrario.

Nel trarre le conclusioni alla luce delle considerazioni svolte, pertanto, si ritiene, seguendo le indicazioni del Consiglio di Stato nella sentenza in commento, di doversi escludere l’ammissibilità dell’ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54 T.U. Enti Locali per fronteggiare gli eventi di cui all’art. 192 T.U. Ambiente, salvo constatare che il TAR Lombardia, seppur pronunciandosi su una fattispecie diversa, ha comunque avuto modo di esprimere sul punto una posizione chiaramente contraria.

Sempre obbligatoria e a pena di esclusione la dichiarazione di moralità, anche se non prevista dalla lex specialis

F.B.

La dichiarazione circa l’insussistenza delle cause di esclusione ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006 è sempre obbligatoria, anche se non prevista dalla lex specialis.

Lo conferma il Consiglio di Stato con la sentenza della V Sezione, n. 3742 depositata il 12 giugno 2009, relativa a fattispecie in cui la concorrente aveva omesso la dichiarazione circa la moralità professionale ai sensi dell’art. 38 del Codice dei contratti pubblici (e già in passato, art. 75 d.p.r. n. 554/99 e analoghe norme del d.lgs. n. 157/1995 e del d.lgs. n. 358/1992).

In effetti, la legge pone i limiti alla partecipazione, e rimette (co. 2 dell’art. 38) al concorrente la relativa dimostrazione proprio per tramite dell’autodichiarazione (“il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle disposizioni del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, in cui indica anche le eventuali condanne per le quali abbia beneficiato della non menzione”).
Ancorchè per taluni casi specifici, poi, l’Amministrazione sia poi obbligatoriamente tenuta a verificare le dichiarazioni in parola (come avviene per i precedenti penali, tramite la verifica del casellario), pertanto da una parte vi sono requisiti generali a pena di esclusione, dall’altra il concorrente è tenuto alla relativa dichiarazione.

Pienamente condivisibile, quindi, la conclusione di cui alla sentenza in commento per cui sussiste comunque “la piena obbligatorietà della dichiarazione (CdS, 7 maggio 2008, n. 2090; 15 gennaio 2008, n. 36). Le dichiarazioni sono in realtà richieste per finalità che non è solo di garanzia sull’assenza di ostacoli …, ma anche per una ordinaria verifica sull’affidabilità… : la carenza di condizioni ostative costituisce un elemento successivo rispetto alla conoscenza di una situazione di astratta sussistenza dei requisiti morali”. Insomma: la mancata produzione della dichiarazione ex art. 38 ciostituisce causa di esclusione a prescindere se poi, in concreto, sussistano o meno le cause ostative.

E poiché la norma è imperativa, e di ordine pubblico, essa opera giocoforza anche in caso non sia ribadita dalla lex specialis della gara.

Si comprende, quindi, come l’onere di attenzione richiesto dall’ordinamento alle imprese all’atto di partecipare alle gare raggiunga – e giustamente – livelli estremamente elevati.

Non solo, infatti, una volta sancito in via generale l’obbligo di rendere le dichiarazioni esso vale per tutte le numerose ipotesi che la giurisprudenza ha elaborato (si pensi all’estensione dell’obbligo agli institori e ai procuratori speciali).

Ma, anche, diventa davvero modesto l’affidamento che può farsi sulla lex specialis, che, se mal redatta, può risultare financo ingannevole. La sentenza in esame offre spunti significativi anche su altra tematica significativa, connessa alla validità della SOA.

Infatti, l’art. 15 del d.p.r. n. 34/2000, come novellato, sancisce la regola della efficacia quinquennale della SOA, salva verifica triennale della stessa da parte dell’organismo di attestazione.  
La questione che ha dato esito al contrasto interpretativo riguarda proprio la verifica triennale sul mantenimento dei requisiti, in quanto parte della giurisprudenza ritiene (ferma l’efficacia per cinque anni) che la SOA perda valenza solo quando la verifica triennale si sia svolta ma abbia avuto esito negativo (cfr. es. Consiglio di Stato, sez. V, n. 4817/2005 e CGA Sicilia n, 1/2008, citate nella decisione in commento); mentre altra giurisprudenza equipara a tale ipotesi quella del mancato svolgimento della verifica.

La decisione n. 3742 esaminata aderisce a tale seconda, e più rigida, lettura, in quanto 

“ove il mancato compimento della verifica triennale fosse privo di effetti non avrebbe alcuna ragione prevedere un adempimento che non modifica in alcun modo la validità quinquennale dell’attestazione” (in senso analogo, T.A.R. Calabria, Catanzaro, 28 luglio 2008, n. 1100).

Il primo e diverso orientamento, peraltro, è stato anche recentemente confermato da T.A.R. Lazio, Roma, 8 maggio 2009, n. 4999 (“l’art. 15 bis, comma 1, del d.P.R. n. 34 del 2000, dispone che l’impresa deve sottoporsi alla verifica di mantenimento dei requisiti presso la stessa SOA che ha rilasciato l’attestazione oggetto di revisione almeno sessanta giorni prima della scadenza del previsto termine triennale e che la SOA , nei trenta giorni successivi, deve compiere l’istruttoria. Detta disposizione deve essere interpretata nel senso che all’omissione dell’adempimento della verifica triennale non possono connettersi, in via ermeneutica, effetti solutori o decadenziali che la disposizione omette di sancire e che, anzi, ricollega esplicitamente al solo esito negativo della verifica”. La questione resta pertanto aperta.

In caso di patteggiamento per reati gravi incidenti sulla moralità occorre una formale dichiarazione di estinzione

F.B.

Nulla di nuovo sul fronte dell’estinzione dei reati patteggiati: perché le condanne per reati incidenti sulla moralità, impeditive della partecipazione a gare ex art. 38, siano irrilevanti occorre un formale provvedimento di estinzione da parte del Giudice dell’esecuzione penale.
Se è vero che l’art. 38 del Codice dei contratti, nel prevedere le cause di esclusione anche connesse ai giudicati penali, stabilisce che “resta salva in ogni caso l'applicazione dell'articolo 178 del codice penale e dell'articolo 445, comma 2, del codice di procedura penale” (ovvero, dichiarazione di estinzione del reato patteggiato e concessione della riabilitazione), è altrettanto vero che tali eventi devono essere solennizzati in un procedimento giudiziale, mentre il semplice decorso del tempo si mostra irrilevante.
La giurisprudenza – cui aderisce la decisione in commento – su questo punto è granitica, e restano sostanzialmente isolati i precedenti contrari, tesi – pur se in fattispecie diversa dalle gare – a riconoscere come automatico l’effetto estintivo del patteggiamento (cfr. es. Consiglio Stato  sez. VI 8 agosto 2008, n. 3902).
La questione si pone in particolare per l’applicazione di pena su richiesta, mentre risulta più semplice per il caso di riabilitazione.
Quest’ultima, in effetti, a mente dell’art. 178 c.p. suppone la prova della buona condotta, e l’adempimento, tendenzialmente, delle obbligazioni risarcitorie.
Diverso il caso del patteggiamento, in quanto (cfr. art. 445 c.p.p.) l’effetto estintivo in tal caso consegue automaticamente al decorso del tempo, in uno alla mancata commissione di determinati reati.
Anche per questo, nondimeno, la giurisprudenza richiede un provvedimento formale, che, se è vero che esso opera con efficacia ex tunc, deve essere positivamente delibato in sede penale.
Se questa è la regola, ormai consolidata, resta davvero misterioso perché, all’atto pratico, siano moltissimi i casi di concorrenti, condannati tramite patteggiamento, che vantano magari da anni le condizioni per l’estinzione, ma non attivano i relativi procedimenti in sede di esecuzione penale. Per poi vedere emergere le conseguenze di tale, spesso inutile, inerzia nel modo peggiore: nel corso delle procedure di gara.

Dichiarazione delle condanne penali ex art. 38: oneri del dichiarante tra esigenze di rigore e di buon senso

F.B.

L’art. 38 è norma di ordine pubblico, e se non è applicabile analogicamente, va interpretata con rigidità. Lo ribadisce il Consiglio di Stato, con la decisione della V Sezione, n. 2364 del 20 aprile 2009, in materia di dichiarazione dei reati incidenti sulla moralità professionale.
È noto che l’art. 38 del Codice, tra le altre, vieta la partecipazione ai concorrenti i cui amministratori (chi di preciso essi siano peraltro non è univoco) e direttori tecnici – anche cessati – abbiano subito condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità professionale”. Stilare un elenco delle problematiche poste dalla norma sarebbe attività complessa, visto che non c’è profilo che, sia in dottrina che in giurisprudenza, non abbia posto dubbi interpretativi. 
Tra le varie questioni emerse, si segnala quella all’attenzione del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento: se il concorrente possa  limitarsi, nel rendere la dichiarazione di moralità, ad indicare le condanne per reati  - a sua opinione – gravi, ovvero se l’onere in questione implichi la dichiarazione di tutti i reati, gravi o meno, spettando poi alla stazione appaltante valutare se si rientri o meno nelle ipotesi di esclusione.
Va evidenziato che buona norma imporrebbe – per opportuna cautela (fosse solo per le sanzioni sia penali sia interdittive alla partecipazione connesse alle false dichiarazioni) – di rendere comunque una dichiarazione completa, relativa sia ai reati gravi incidenti sulla moralità, sia ai reati non gravi e/o non incidenti sulla affidabilità professionale. D’altro canto, si tratta di uno di quei casi (come la regolarità contributiva) ove (cfr.art. 38 d.lgs. n. 163/2006) l’autodichiarazione resa ai sensi del d.p.r. n. 445/2000 non sostituisce la verifica diretta dell’Ente, tenuto comunque ad acquisire il certificato del casellario giudiziario; con la precisazione che il casellario in questione, poiché a richiesta della pubblica amministrazione, contempla l’annotazione di tutti quei precedenti (ad esempio, patteggiamenti e decreti penali di condanna) che non compaiono nel casellario a richiesta del privato. Cautela tantopiù opportuna, dal momento che la giurisprudenza in molti casi ha ritenuto “gravi e incidenti” condanne anche per reati di genere assai modesto (come le contravvenzioni) senza dare peso a profilo come la pena concretamente irrogata, la concessione della non menzione, la condizionale. 
È discutibile, peraltro, se davvero il concorrente debba dichiarare tutti i reati anche quelli all’evidenza non gravi o non incidenti sulla moralità professionale; o, più in concreto, se possa dirsi mendace la dichiarazione di chi operi una simile cernita, pretermettendo di menzionare condanne che egli non ritiene rientrare nell’art. 38.
L’orientamento forse prevalente – qui ribadito da Palazzo Spada – è tuttavia estremamente rigoroso: “va decisamente ripudiata la tesi secondo cui l’art. 38 imporrebbe al singolo concorrente di dichiarare unicamente i reati gravi, e non già tutti quelli ascritti in via definitiva…. La legge obbliga i partecipanti alle gare a rendere dichiarazioni complete e veritiere, e quindi recanti l’esatta indicazione di tutti i precedenti penali, ivi inclusi quelli per i quali sia stato concesso il beneficio della non menzione …; qualora difettasse la precisa e esaustiva rappresentazione di tutte le condotte …, la stazione appaltante non sarebbe in grado di stimare la gravità e l’eventuale incidenza sul requisito della moralità”; e d’altronde, la normativa si presterebbe “a facili abusi, e verosimilmente ad una sistematica elusione”.
Si conferma pertanto la tesi di chi ritiene, per dirla con altra analoga e recentissima giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, n. 3215 del 27 marzo 2009), che “nelle gare di appalto pubblico, la mancata dichiarazione dell'esistenza di condanne penali costituisce una circostanza che ha valore autonomo e che incide sulla moralità professionale del soggetto, a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato… Il Consiglio di Stato ha infatti di recente statuito che l'esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti, quali la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna, si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara (Consiglio Stato, Sez. V, 12 aprile 2007, n. 1723; in termini, anche Consiglio di Stato, Sez. V, 6.6.2002, n. 3183) perché la valutazione circa la sussistenza del requisito della moralità professionale spetta alla stazione appaltante e non al concorrente, sicché quest'ultimo non ha il potere di anticipare tale giudizio omettendo nella sua dichiarazione dati penalmente rilevanti (Consiglio Stato, sez. V, 06 dicembre 2007, n. 6221)”.
Insomma, chi rende la dichiarazione deve – pena l’esclusione – far menzione di tutte le condanne, siano esse, o meno, per reati gravi incidenti sulla moralità (altra questione è se possano omettersi le pronunce per le quali sia intervenuta riabilitazione, estinzione o depenalizzazione, su cui – more solito – la giurisprudenza è più che mai divisa). Altra giurisprudenza aderisce invece ad un criterio sostanziale, e ritiene che sia del tutto legittimo che il concorrente – in mancanza di diversa previsione della lex specialis – indichi le sole sentenze che a suo ritenere rientrano nell’elencazione di cui all’art. 38.
Ad esempio, cfr. Consiglio di Stato,   sez. V, 8 settembre 2008, n. 4244, per la quale “il fondamento dell'esclusione dalla gara pubblica per difetto del requisito della c.d. moralità professionale … è di evitare l'affidamento del servizio a chi ha commesso reati lesivi degli stessi interessi collettivi che, in veste d'aggiudicatario, sarebbe chiamato a realizzare; data la premessa, discende da essa la duplice conseguenza che il difetto del requisito della moralità professionale non concerne tutti i reati commessi dall'imprenditore …, e che il partecipante alla gara, nel rendere la dichiarazione… ben può operare un giudizio di rilevanza delle singole condanne subite e ritenere che i relativi fatti non incidano sulla moralità professionale, senza incorrere nel mendacio dell'autocertificazione resa”.
Nello stesso senso la recentissima pronuncia del T.A.R. Lazio Roma, n. 3984 del 20 aprile 2009 (per inciso tre settimana dopo la sentenza n. 3215, dietro citata, del medesimo T.A.R, di segno del tutto opposto): “ai fini dell’esclusione dalla gara di appalto per incompleta o infedele dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici) per il requisito della "moralità professionale", non è sufficiente la sola mancata dichiarazione, ma occorre indagare se il reato per il quale si è verificata la mancata dichiarazione incida effettivamente sul requisito di affidabilità morale richiesto dal Codice per essere destinatari dell’affidamento di una commessa pubblica”.
L’ennesimo contrasto interpretativo, insomma, posto da una norma, all’atto pratico, tutt’altro che azzeccata (nonostante all’atto di redigerla fosse già maturata l’esperienza del Regolamento di esecuzione della legge Merloni).
In verità, ad opinione di chi scrive, se è vero che la norma è poco chiara, è anche vero che, trattandosi di clausola sotto comminatoria di esclusione, il criterio della “stretta interpretazione” dovrebbe pur sempre fare da guida.
Da questo punto di vista, logica vorrebbe che si avesse riguardo alla lex specialis, la quale dovrebbe farsi carico, se mai, di chiarificare la portata dei vari adempimenti.
Quando la legge di gara si limita – come spesso accade – a imporre di dichiarare genericamente l’insussistenza di cause di esclusione, ovvero l’insussistenza di condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità”, magari predisponendo apposito modulo di dichiarazione di identico tenore, pretendere che il concorrente menzioni anche pregressi bagatellari appare francamente eccessivo.
E è proprio questo il punto: perché, se talvolta i bandi si prodigano nel richiedere (perché no, ripetendosi all’infinito) la dichiarazione di tutti i reati, nel qual caso almeno vi è chiarezza, spesso gli atti di gara utilizzano locuzioni generiche, che inducono davvero a ritenere che chi sottoscrive la dichiarazione ex art. 38 deve operare una cernita tra condanne rilevanti e irrilevanti.
Nel qual caso, quando il bando sia equivoco, sulle esigenze di rigore dovrebbe prevalere forse il principio di affidamento, anche tenuto conto che l’Amministrazione può ben operare un vaglio più approfondito in sede di verifica dei requisiti post aggiudicazione, sulla base del casellario.
La sentenza in questione – se con la motivazione esaminata si appalesa più che rigida – in ulteriore parte cede a una lettura più aperta.
Esaminando separato e diverso motivo, infatti, il Consiglio di Stato afferma invece che, per i soggetti cessati (ma ciò può valere anche più in generale), non sussiste un mendacio rilevante allorché venga omessa la dichiarazione di reati non risultanti dal casellario giudiziario.
Il problema è più che noto: secondo il Testo unico che disciplina la materia, il casellario a richiesta dell’amministrazione contempla tutte le varie tipologie di condanne, mentre quello a richiesta del privato (si noti: il “titolare” delle condanne, e non il soggetto terzo, che a quei dati non ha alcun accesso) non indica né i patteggiamenti né i decreti penali, e ciò a prescindere se sia stata concessa o meno la sospensione condizionale o la non menzione.
In breve, se un soggetto ha subito ad esempio un decreto penale, questo non risulta nel casellario comune, bensì risulta nel solo casellario a istanza dell’amministrazione. Con la conseguenza che l’Impresa non può materialmente avere conoscenza di tale reato in capo a un proprio amministratore, direttore tecnico, o procuratore, a meno che non sia questi a darne comunicazione: circostanza assai grave nel caso di soggetti cessati, perché in questi casi, giocoforza la dichiarazione non è resa dal cessato, bensì da altri per suo conto (ancorchè certa, per fortuna isolata, giurisprudenza si sia spinta, persino, a pretendere la dichiarazione personale del soggetto cessato dalla carica).
Pertanto, al momento di partecipare a una gara, il massimo della diligenza che può gravare sull’amministratore, per essere sicuri della veridicità della dichiarazione circa i cessati dalle cariche nel triennio, consiste nell’obbligare questi (tra l’altro, si tratta di un obbligo cui il destinatario potrebbe anche non voler adempiere) a produrre il casellario; il quale, nondimeno, non menziona né i decreti penali né le sentenze di patteggiamento, quale che sia il reato in questione.
Quid, pertanto, nel caso la dichiarazione circa il cessato si mostri mendace, senza colpa dell’amministratore dichiarante? Anche qui la giurisprudenza si è divisa.
Per un primo filone, quanto descritto non esime, pena l’esclusione, dall’obbligo di una dichiarazione veritiera, senza necessità di indagare sulla buona fede.
Ad esempio, T.A.R.  Trentino Alto Adige, 2 dicembre 2008, n. 309, per la quale, nel caso di soggetti cessati, “è legittima l'esclusione dichiarata a carico dell'offerente a seguito dell'emersione, in seguito a verifica d'ufficio dei requisiti di partecipazione, a carico dell'amministratore cessato dalla carica nel triennio antecedente alla pubblicazione del bando di tre sentenze ex art. 444 c.p.p. iscritte nel certificato del casellario a tal fine acquisito, a nulla rilevando che la ditta offerente abbia usato l'ordinaria diligenza nell'acquisizione delle citate informazioni”. Per altra giurisprudenza, invece, “non può ritenersi scientemente falsa allorché corrisponda alle risultanze del certificato del casellario giudiziale rilasciato su richiesta dell’interessata ai sensi dell’art. 23 ss. d.p.r. n. 313/2002, posto che il certificato contenente la totalità delle iscrizioni che riguardano una determinata persona può essere acquisito esclusivamente dalla p.a. ed è inaccessibile all’interessato” (T.A.R. Veneto, I, 15 novembre 2005, n. 3949); cfr. anche A.V.CC.PP., determinazione n. 75 del 6.3.08, la quale ha dato atto della “impossibilità per l’impresa di conseguire certificazioni relative ai soggetti cessati, in quanto le stesse sono richiedibili solo da parte del soggetto interessato”. Di pari avviso la sentenza qui in commento, per la quale “non può non considerarsi che la condanna …obbiettivamente non risultava dal certificato generale del casellario, né emerge dagli atti che il dichiarante avesse precedentemente avuto in altro modo piena conoscenza del decreto in questione”, con le ricadute del caso in punto di insussistenza “dell’atteggiamento psicologico”.
Questa lettura è, ad opinione di chi scrive, non solo condivisibile, ma anche l’unica conforme ai criteri di logica e proporzione (tantopiù quando si ritenga, come affermato in talune recenti pronunzie, che la dichiarazione effettuata “per quanto a conoscenza” è da intendersi inutiliter data).
L’aderire all’orientamento diverso – per il quale ogni mendacio obiettivo, sia esso colpevole o incolpevole, comporta di per sé l’esclusione – porta a esiti davvero paradossali: semplificando, le Imprese con soggetti  cessati nel triennio antecedente il bando non potrebbero mai partecipare alle gare con la certezza di non incorrere in false dichiarazioni, e quindi la presentazione di offerta equivarrebbe, sempre e comunque, a correre il rischio di dichiarare dati mendaci.
Giusto, allora, quando la dichiarazione non riguardi la posizione propria del dichiarante, e cioè in tutti i casi di dichiarazioni “per conto terzi”, dare rilievo alla buona fede, quando, come nel caso, non vi sia alcuno strumento giuridico (essendo il casellario inaccessibile ai terzi) per appurare con certezza assoluta l’assenza di condanne. 
L’art. 38 del Codice dei contratti, tuttavia, resta tutt’oggi in equilibrio precario.

La cauzione provvisoria come parte integrante dell’offerta: problematicità della sottoscrizione in caso di partecipazione ad una gara di ATI costituenda

C.M.

Con le sentenze qui in esame il Consiglio di Stato torna a pronunciarsi sulle formalità della sottoscrizione della polizza fidejussoria o c.d. cauzione provvisoria di cui all’art. 75 del D. lgs. 163/2006, la cui funzione, secondo consolidata lettura, è quella di garantire la serietà ed l’affidabilità dell’offerta, fin dal primo momento in cui si relazionano la Stazione appaltante e il privato. La cauzione provvisoria, dunque, rappresenta una garanzia “anticipata” per l’Amministrazione in caso di violazione degli obblighi assunti da parte del concorrente, e “è destinata a garantire tutti gli aspetti della partecipazione e quindi la correttezza di tutti i comportamenti posti in essere a tal fine dal concorrente, ivi comprese le dichiarazioni relative al possesso dei requisiti che connotano l’offerta e ne caratterizzano la serietà” (Autorità per la Vigilanza, delib. 10 dell’8 febbraio 2006).
Dunque, la cauzione provvisoria ha funzione indennitaria dei danni cagionati dall’eventuale rifiuto di stipulare il contratto e sanzionatoria degli inadempimenti procedimentali relativi alla veridicità delle dichiarazioni fornite in ordine al possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa richiesti dalla lex specialis (cfr. Cons. St., Sez. V, 30 giugno 2003, n. 3866; Sez. IV, 20 luglio 2007, n. 4098).
Il problema si pone quando a partecipare sia un’ATI non ancora costituita, con riferimento alle modalità della sottoscrizione della fidejussione.

Infatti, in tali casi occorre, alternativamente, che siano tutte le imprese a sottoscrivere la polizza fidejussoria oppure che, pur sottoscritta da una sola impresa (capogruppo), comunque essa contenga al suo interno esplicita previsione di copertura anche per le eventuali responsabilità delle altre imprese costituende l’ATI.

Nel caso dunque di ATI in itinere la sottoscrizione del contratto fidejussorio da parte di tutte le associate non assume rilevanza decisiva, dovendosi piuttosto fare riferimento al concreto contenuto della polizza.
Quando la cauzione è stipulata da una sola impresa facente parte di ATI non ancora costituita, occorre quindi stabilire quale soggetto e quale obbligazione debbano essere garantiti e dunque debbano essere indicati nell’intestazione della polizza. In presenza di un ATI non ancora costituita, infatti, il soggetto garantito non è e non può essere tanto l’ATI ma piuttosto tutte le imprese associande; quest’ultime, operando singolarmente fino all’epoca della costituzione(e perciò autonomamente responsabili del proprio operato in relazione all’assolvimento degli obblighi di gara: altro a seguito del contratto, quando sussistono vincoli di solidarietà, ancorchè diversi a seconda se l’ATI è orizzontale, verticale o mista) devono essere garantite, ciascuna, dalla polizza stipulata, anche se sottoscritta da una sola di esse.

Concludendo, per la regolarità della cauzione, in ossequio a principi di economicità e speditezza della procedura, è ritenuta sufficiente la sottoscrizione della stessa da parte di una sola impresa (tendenzialmente la mandataria), purchè la garanzia indichi chiaramente tutti i soggetti il cui eventuale inadempimento viene garantito).

Come chiarito nella nota decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione 4 ottobre 2005, n. 8, “la polizza … deve essere intestata non solo alla Società capogruppo, ma anche alle mandanti, che sono individualmente responsabili per le dichiarazioni rese... Conseguentemente, il fideiussore… deve richiamare la natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese, identificandole singolarmente e contestualmente” (analogamente T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 14 aprile 2009, n. 740); nel medesimo senso, ex plurimis, T.A.R. Sardegna, sez. I, 3 luglio 2008, n. 1298; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 18 marzo 2008, n. 1381; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 2 ottobre 2007, n. 9620; Consiglio di Stato, sez. IV, 19 giugno 2006, n. 3660).

Conformemente, con la pronuncia in questione, il Consiglio di Stato conferma che “le singole associande sono individualmente responsabili delle dichiarazioni rese per la partecipazione alla gara, sì che verrebbe a configurarsi una carenza di garanzia per la Stazione appaltante quante volte l’inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma dalle mandanti: a ciò pone rimedio il richiamo della natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese mediante la contestuale ed individuale identificazione delle stesse” (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2589 del 24 aprile 2009). Da cui l’esclusione nel caso specifico sottoposto, ove la polizza era intestata alla “ATI X con Y”, e perciò “all’ATI, pur non ancora costituita e non alle singole imprese”.

Analogamente “ciò che rileva è che la polizza fidejussoria garantisca i rischi connessi al possibile inadempimento di tutte le imprese dell’ATI costituenda (in particolare il rischio relativo alla mancata sottoscrizione del contratto d’appalto per fatto dell’aggiudicatario), non essendo necessario che ciascuna di esse provveda a sottoscrivere la polizza stessa” (Cons. di Stato, n. 2400 del 21 aprile 2009). Da cui l’esclusione anche nel caso, essendo la garanzia intestata alla sola mandataria e in tale veste. Di speciale interesse, sotto ulteriore e diverso profilo, la decisione del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3746 del 12 giugno 2009.
Chiarite le modalità di sottoscrizione, va infatti precisato che la cauzione provvisoria discende (cfr. art. 75 del Codice) da norma imperativa, che pertanto opera anche in mancanza di previsione nella lex specialis, così come avviene ad esempio per le dichiarazioni di moralità (art. 38 del Codice), o per l’obbligo di indicare le parti del servizio in caso di ATI. La cauzione, invero, “costituisce parte integrante dell’offerta e non elemento a corredo”, e non una mera “forma di garanzia della quale la stazione appaltante sia libera di avvalersi o meno”.
Insomma, la carenza della cauzione impone l’esclusione, anche se quella non sia menzionata dal bando e dagli atti di gara.

Un limite alla discrezionalità dell’Amministrazione quando travalica nell’arbitrio: un’interessante pronuncia del Consiglio di Stato

M.M.

Con la sentenza del 21 aprile 2009, n. 2399, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ritorna sul tema dei limiti alla discrezionalità dell’Amministrazione in fase di predisposizione della lex specialis. È infatti del tutto pacifico essere ammessa la possibilità, per la stazione appaltante, di stabilire requisiti di ammissione che, pur nell’osservanza della normativa in materia, siano rispetto ad essa più stringenti; purchè, tuttavia, ciò sia motivato in relazione a specifiche esigenze della stazione appaltante, riconducibili al miglior perseguimento dell’interesse pubblico, e più in generale esse non risultino sproporzionate o irragionevoli, anche con riguardo al principio di massima partecipazione e tutela della concorrenza. Pertanto (cfr.Consiglio di Stato, sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3103), “l'esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione di fissare i requisiti di partecipazione alla singola gara, rigorosi e superiori rispetto a quelli previsti dalla legge, costituisce precipua attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, sanciti dall'art. 97, cost. e si sostanzia quindi nel potere-dovere assegnato all'amministrazione di apprestare (proprio mediante la specifica individuazione dei requisiti di ammissione e di partecipazione ad una gara) gli strumenti e le misure più adeguati, opportuni, congrui, efficienti ed efficaci ai fini del corretto ed effettivo perseguimento dell'interesse pubblico concreto, oggetto dell' appalto da affidare: le scelte così operate dall' amministrazione aggiudicatrice, ampiamente discrezionali , impingono nel merito dell'azione amministrativa e si sottraggono, pertanto, al sindacato del giudice amministrativo, salvo che non siano ictu oculi manifestamente irragionevoli, irrazionali, arbitrarie, sproporzionate, illogiche e contraddittorie”.

La pronuncia in commento conferma la sussistenza di tale facoltà, ma ne evidenzia compiutamente i limiti: “la discrezionalità dell’Amministrazione in sede di predisposizione dei requisiti di ammissione delle imprese alle gare d’appalto, per quanto ampia è pur sempre limitata da riferimenti logici e giuridici che derivano dalla garanzia di rispetto di principi fondamentali quali quelli della più ampia partecipazione e del buon andamento dell’azione amministrativa”.
La ricorrente in primo grado, nel caso in esame, aveva impugnato il bando di gara evidenziando che la stazione appaltante aveva annoverato, fra le cause di esclusione, anche la presenza di contenziosi pendenti con l’Amministrazione stessa alla data di presentazione delle offerte in gara.
Tale fattispecie ricalca fedelmente il caso già sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato in occasione della decisione della sez. VI, n. 4060 del 19 luglio 2007.
Già in quella occasione, il giudicante aveva ritenuto che tale previsione si ponesse come “condizione generale preclusiva per l’accesso alla gara”, andando ad implementare quindi le fattispecie già previste dall’art. 75 d.p.r. 554/99 (applicabile ratione temporis, oggi art. 38 d.lgs. 163/2006): da cui, la ritenuta illegittimità, dal momento che i requisiti generali di ammissione sono “prescrizioni ispirate a ragioni di ordine e sicurezza pubblica, incidenti sulla sfera di capacità dell’imprenditore ad acquisire la qualità di affidatario di lavori pubblici, l’introduzione di ulteriori limiti oltre quelli stabiliti dal diritto comunitario… resta riservato al legislatore nazionale, così che i casi previsti dalla disposizione in esame hanno carattere tassativo e non possono essere integrati ad libitum dalla stazione appaltante”.
In altre parole, la stazione appaltante, se può prevedere requisiti più stringenti per l’accesso alle procedure pubbliche, non può tuttavia spingersi a integrare i requisiti generali, già stabiliti (cfr.art. 38 d.lgs. n. 163/2006) da norma, poiché derogatoria al principio di massima partecipazione, eccezionale.
I requisiti a carattere generale, con speciale riguardo a quelli incidenti sulla moralità professionale, sono sostanzialmente riservati alla legge. E d’altronde, ad avviso della Sezione, “la clausola … si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., che riconosce la piena tutela in giudizio dei diritti e degli interessi… e con l’art. 41 Cost. relativo ai diritti di iniziativa economica e di libertà di impresa”, poiché “la semplice esistenza di un contenzioso in atto non è affatto indice della inaffidabilità dell’impresa, potendo la lite chiudersi a favore della stessa”.
Una siffatta diagnosi di inaffidabilità, sostiene Palazzo Spada, è affidata dall’ordinamento alla normativa speciale sul punto, costituita oggi in particolare dall’art. 38 d.lgs. 163/2006 e in precedenza dall’art. 75 d.p.r. 554/99 (e analoghe disposizioni per servizi e forniture), senza quindi che la stazione appaltante possa interferire in proposito. Clausole del genere – si aggiunga – possono far sorgere più di un dubbio sui reali intenti dell’amministrazione: è infatti evidente che, da una parte, esse sembrano avere portata più sanzionatoria del contenzioso che finalizzata al pubblico interesse; dall’altra, vi è il rischio, altrimenti modo, di consentire una selezione poco trasparente, finalizzata all’impedire la partecipazione a concorrenti sgraditi, previamente individuati.
Discrezionalità si, concludendo, ma non in tema di requisiti generali connessi alla moralità professionale.