Per partecipare alle gare di appalto occorre lo svolgimento in concreto dell’attività indicata nell’oggetto sociale

F.B.

Più volte i bandi di gara richiedono – fisiologicamente – che l’impresa concorrente, quale requisito di partecipazione, svolga una determinata attività, risultante dalle certificazioni della CCIAA.
Talvolta si domanda genericamente l’iscrizione alla camera di commercio, mentre in altri casi gli atti di gara richiedono espressamente  lo svolgimento corrente dell’attività corrispondente all’appalto. Per cui, sostanzialmente, possono distinguersi due ipotesi:
a)  quando la lex specialis richiede la sola iscrizione presso la CCIAA, dovrebbe essere sufficiente la menzione dell’attività nell’oggetto sociale;
b) quando invece richiede lo svolgimento dell’attività, quest’ultima deve essere effettivamente svolta, e risultare dall’apposita parte del certificato camerale dedicata alle attività concretamente in essere.

Con la decisione in esame, n. 3280 del 20 aprile 2009, la VI Sezione del Consiglio di Stato adotta invece, richiamando alcuni precedenti conformi, un’interpretazione rigida, assimilando le due ipotesi, e richiedendo, in ogni caso, il concreto svolgimento dell’attività oggetto dell’appalto, in ogni caso in cui la lex specialis domandi, quale requisito, l’iscrizione alla Camera di commercio per i servizi di cui alla procedura.
Ciò perché “oggetto sociale e attività effettivamente esercitata, quest’ultima da comprovare mediante la prescritta dichiarazione verificabile in base alla certificazione camerale, infatti, non possono essere considerati come concetti coincidenti, atteso che un’attività può ben essere prevista nell’oggetto sociale, risultante dall’iscrizione sotto la voce “dati identificativi dell’impresa”, senza essere attivata poi in concreto”. Quindi, “è ovvio che, salvo voler privare la clausola della lettera di invito di significato, nessun rilievo può attribuirsi all’oggetto sociale dell’impresa, il quale abilita sì quest’ultima a svolgere quella determinata attività, ma nulla dice sull’effettivo svolgimento della stessa”.
Quando la legge di gara richieda la “iscrizione alla CCIAA per l’attività di…”, in conclusione, è come se la clausola domandasse la dimostrazione dello svolgimento in concreto, con la conseguenza che deve aversi riguardo non alle attività per la quale l’Impresa si è iscritta (comunicazione S1), ma per quelle delle quali sia stato comunicato l’inizio dello svolgimento (modulo S5).

Tale interpretazione, per inciso, si allinea con alcuni precedenti dei Tribunali Amministrativi Regionali (cfr.T.A.R. Valle d’Aosta, n. 12 del 13 febbraio 2008), ma supera l’altro precedente del Consiglio di Stato citato nella decisione in commento (Consiglio di Stato, V, n. 925 del 19 febbraio 2003), ove il Collegio era pervenuto alle medesime conclusioni ma a fronte di clausola di ben diverso tenore, la quale faceva espresso riferimento alla “attività svolta”.
Ad opinione di chi scrive, la ricostruzione di cui alla pronuncia in commento è tutt’altro che peregrina, purchè però rapportata a previsioni degli atti di gara esplicite: quando cioè dal bando emerga, ancorchè senza formule sacramentali, l’intenzione dell’Ente di domandare l’“effettivo svolgimento”.
Non bisogna dimenticare, infatti, che numerosi bandi distinguono con chiarezza le due ipotesi, domandando distintamente sia l’iscrizione alla camera di commercio, sia il concreto svolgimento dell’attività, previsione che, a generalizzare troppo, rischia di divenire priva di senso.
La tesi in esame impone comunque alle imprese un onere di particolare attenzione nelle comunicazioni alla Camera di commercio, troppo spesso relegate a inutili burocrazie, e svolte intempestivamente.

L’allegazione alle dichiarazioni del documento di riconoscimento è imprescindibile

C.M.

Con la decisione in commento il Consiglio di Stato torna ad esprimersi in ordine alla necessità dell’allegazione, per le dichiarazioni a corredo dell’offerta, della copia fotostatica del documento di identità del dichiarante.
Come noto, giusta l’art. 38 d.p.r. 445/2000 “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.
La noma citata, secondo la lettura che va per la maggiore, non è frutto di una impostazione burocratica, ma è finalizzata a solennizzare quel nesso tra dichiarazione e dichiarante che permette di riferirgli la titolarità delle dichiarazioni rese, e soprattutto la responsabilità per la loro veridicità.
Secondo consolidata giurisprudenza, infatti, “nella previsione di cui al combinato disposto degli art. 21, comma 1, e 38, commi 2 e 3, d.P.R. 445/2000, l'allegazione della copia fotostatica, sia pure non autenticata, del documento di identità dell'interessato vale a conferire legale autenticità alla sua sottoscrizione apposta in calce a una istanza o a una dichiarazione, e non rappresenta un vuoto formalismo ma semmai si configura come l'elemento della fattispecie normativa diretto a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione a una determinata persona fisica; pertanto, la mancata allegazione del documento di identità non costituisce una mera irregolarità sanabile con la sua produzione postuma, ma integra gli estremi di una palese e insanabile violazione della disciplina regolatrice della procedura amministrativa”, (Cons. Stato, sez. V, n. 5761 del 6 dicembre 2007, e analogamente Consiglio Stato, sez. VI, 23 luglio 2008, n. 3651).
È dunque sempre necessaria la fotocopia del documento di indentità, al fine di rendere le dichiarazioni rese rilevanti ed efficaci: e su queste conclusioni non può che condividersi, se è vero che, in mancanza, la dichiarazione resa avverrebbe sostanzialmente “senza rischio” di un mendacio penalmente rilevante, con ogni  conseguenza sui possibili abusi.
In linea con l’orientamento, la sentenza qui in commento, la quale conferma sia l’imprescindibilità dell’allegazione documentale, sia l’impossibilità di regolarizzazione postuma.
Più complesso stabilire se davvero occorra una fotocopia del documento per ogni singola dichiarazione (come peraltro di prassi avviene), o se sia sufficiente un documento per più dichiarazioni.
Fermo che in questi casi il bando la fa da padrone (ben può la lex specialis, in effetti, incidere su ogni aspetto di dettaglio), in mancanza di apposita clausola la questione è dibattuta.
Se certa giurisprudenza ha assunto un orientamento rigoroso (il documento occorrerebbe, infatti, per ogni singola dichiarazione anche se nella medesima busta), va registrata una lettura più aperta, essendosi affermato, ad esempio, che (T.A.R. Sardegna, 13 marzo 2008, n. 457) “la formalità prescritta dall'art. 38 del d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 (in base al quale le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore) non deve essere tramutata in un formalismo senza scopo, esigendo che più dichiarazioni rese dalla stessa persona in un medesimo procedimento e facenti parte di un medesimo insieme probatorio debbano necessariamente essere accompagnate, ciascuna, da una fotocopia del documento d' identità” . Rigore si, ma cum grano salis.
Piuttosto pacifico (cfr. es. T.A.R.  Sicilia, Catania, 19 giugno 2006, n. 1020), invece, che la norma che impone l’allegazione del documento (si tratta d’altronde di previsione generale, che opera ben oltre il campo delle gare) operi anche in assenza di apposita previsione della lex specialis. O meglio, oltre quelle fattispecie specificamente indicate dalla normativa sugli appalti, essendovi in effetti talune disposizioni espresse (cfr. l’art. 38 d.lgs. n. 163/2006 in tema di dichiarazioni sulla moralità professionale) che fanno rinvio al d.p.r. n. 445/00.
Pertanto, l’allegazione occorre ogniqualvolta ai fini della gara sia occorrente una dichiarazione sostitutiva di atti.
Altrettanto consolidato, infine, che nel caso di mancata allegazione non può farsi ricorso alla potestà di concessione di un termine per integrare: la violazione della disposizione di cui al d.p.r. n. 445/2000 (ancor più quando sia violata apposita clausola a pena di esclusione del bando, e nel caso nulla quaestio), insomma, non può essere sanata in un momento successivo alla produzione dell’offerta tramite integrazione successiva (in termini, ad esempio, TAR Lazio, Roma, n. 487 del 27 gennaio 2007, e Consiglio Stato, sez. VI, 27 maggio 2005, n. 2745).
E, questa volta, si tratta come noto di una peculiarità delle procedure concorsuali quali le gare pubbliche.
L’art. 46 d.lgs. 163/2006 prevede in effetti la possibilità per la stazione appaltante di richiedere integrazioni o chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati. Se la portata della norma, vista anche l’ampia casistica che si presenta, non è del tutto univoca, anche è vero che la giurisprudenza è sostanzialmente concorde nel ritenere che (in disparte l’inapplicabilità nel caso di carenze originarie dell’offerta tecnica o economica) le integrazioni – a salvaguardia del principio di par condicio – sono consentite solo nel limite in cui occorra chiarire il contenuto di una domanda presentata ritualmente e tempestivamente; è dunque da escludersi che si possa ricorrere alla regolarizzazione di documenti che non sono stati presentati toutcourt, come avviene nel caso di un omissione nell’allegazione della copia del documento.

Dichiarazione delle condanne penali ex art. 38: oneri del dichiarante tra esigenze di rigore e di buon senso

F.B.
L’art. 38 è norma di ordine pubblico, e se non è applicabile analogicamente, va interpretata con rigidità.
Lo ribadisce il Consiglio di Stato, con la decisione della V Sezione, n. 2364 del 20 aprile 2009, in materia di dichiarazione dei reati incidenti sulla moralità professionale.
È noto che l’art. 38 del Codice, tra le altre, vieta la partecipazione ai concorrenti i cui amministratori (chi di preciso essi siano peraltro non è univoco) e direttori tecnici – anche cessati – abbiano subito condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità professionale”.
Stilare un elenco delle problematiche poste dalla norma sarebbe attività complessa, visto che non c’è profilo che, sia in dottrina che in giurisprudenza, non abbia posto dubbi interpretativi.
Tra le varie questioni emerse, si segnala quella all’attenzione del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento: se il concorrente possa  limitarsi, nel rendere la dichiarazione di moralità, ad indicare le condanne per reati  - a sua opinione – gravi, ovvero se l’onere in questione implichi la dichiarazione di tutti i reati, gravi o meno, spettando poi alla stazione appaltante valutare se si rientri o meno nelle ipotesi di esclusione.
Va evidenziato che buona norma imporrebbe – per opportuna cautela (fosse solo per le sanzioni sia penali sia interdittive alla partecipazione connesse alle false dichiarazioni) – di rendere comunque una dichiarazione completa, relativa sia ai reati gravi incidenti sulla moralità, sia ai reati non gravi e/o non incidenti sulla affidabilità professionale. D’altro canto, si tratta di uno di quei casi (come la regolarità contributiva) ove (cfr.art. 38 d.lgs. n. 163/2006) l’autodichiarazione resa ai sensi del d.p.r. n. 445/2000 non sostituisce la verifica diretta dell’Ente, tenuto comunque ad acquisire il certificato del casellario giudiziario; con la precisazione che il casellario in questione, poiché a richiesta della pubblica amministrazione, contempla l’annotazione di tutti quei precedenti (ad esempio, patteggiamenti e decreti penali di condanna) che non compaiono nel casellario a richiesta del privato.

Cautela tantopiù opportuna, dal momento che la giurisprudenza in molti casi ha ritenuto “gravi e incidenti” condanne anche per reati di genere assai modesto (come le contravvenzioni) senza dare peso a profilo come la pena concretamente irrogata, la concessione della non menzione, la condizionale. È discutibile, peraltro, se davvero il concorrente debba dichiarare tutti i reati anche quelli all’evidenza non gravi o non incidenti sulla moralità professionale; o, più in concreto, se possa dirsi mendace la dichiarazione di chi operi una simile cernita, pretermettendo di menzionare condanne che egli non ritiene rientrare nell’art. 38.

L’orientamento forse prevalente – qui ribadito da Palazzo Spada – è tuttavia estremamente rigoroso: “va decisamente ripudiata la tesi secondo cui l’art. 38 imporrebbe al singolo concorrente di dichiarare unicamente i reati gravi, e non già tutti quelli ascritti in via definitiva…. La legge obbliga i partecipanti alle gare a rendere dichiarazioni complete e veritiere, e quindi recanti l’esatta indicazione di tutti i precedenti penali, ivi inclusi quelli per i quali sia stato concesso il beneficio della non menzione…; qualora difettasse la precisa e esaustiva rappresentazione di tutte le condotte…, la stazione appaltante non sarebbe in grado di stimare la gravità e l’eventuale incidenza sul requisito della moralità”; e d’altronde, la normativa si presterebbe “a facili abusi, e verosimilmente ad una sistematica elusione”.
Si conferma pertanto la tesi di chi ritiene, per dirla con altra analoga e recentissima giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, n. 3215 del 27 marzo 2009), che “nelle gare di appalto pubblico, la mancata dichiarazione dell'esistenza di condanne penali costituisce una circostanza che ha valore autonomo e che incide sulla moralità professionale del soggetto, a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato. … Il Consiglio di Stato ha infatti di recente statuito che l'esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti, quali la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna, si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara (Consiglio Stato, Sez. V, 12 aprile 2007, n. 1723; in termini, anche Consiglio di Stato, Sez. V, 6.6.2002, n. 3183) perché la valutazione circa la sussistenza del requisito della moralità professionale spetta alla stazione appaltante e non al concorrente, sicché quest'ultimo non ha il potere di anticipare tale giudizio omettendo nella sua dichiarazione dati penalmente rilevanti (Consiglio Stato, sez. V, 06 dicembre 2007, n. 6221)”.
Insomma, chi rende la dichiarazione deve – pena l’esclusione – far menzione di tutte le condanne, siano esse, o meno, per reati gravi incidenti sulla moralità (altra questione è se possano omettersi le pronunce per le quali sia intervenuta riabilitazione, estinzione o depenalizzazione, su cui – more solito – la giurisprudenza è più che mai divisa). Altra giurisprudenza aderisce invece ad un criterio sostanziale, e ritiene che sia del tutto legittimo che il concorrente – in mancanza di diversa previsione della lex specialis – indichi le sole sentenze che a suo ritenere rientrano nell’elencazione di cui all’art. 38.

Ad esempio, cfr. Consiglio di Stato,   sez. V, 8 settembre 2008, n. 4244, per la quale “il fondamento dell'esclusione dalla gara pubblica per difetto del requisito della c.d. moralità professionale … è di evitare l'affidamento del servizio a chi ha commesso reati lesivi degli stessi interessi collettivi che, in veste d'aggiudicatario, sarebbe chiamato a realizzare; data la premessa, discende da essa la duplice conseguenza che il difetto del requisito della moralità professionale non concerne tutti i reati commessi dall'imprenditore …, e che il partecipante alla gara, nel rendere la dichiarazione … ben può operare un giudizio di rilevanza delle singole condanne subite e ritenere che i relativi fatti non incidano sulla moralità professionale, senza incorrere nel mendacio dell'autocertificazione resa”.
Nello stesso senso la recentissima pronuncia del T.A.R. Lazio Roma, n. 3984 del 20 aprile 2009 (per inciso tre settimana dopo la sentenza n. 3215, dietro citata, del medesimo T.A.R, di segno del tutto opposto): “ai fini dell’esclusione dalla gara di appalto per incompleta o infedele dichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici) per il requisito della "moralità professionale", non è sufficiente la sola mancata dichiarazione, ma occorre indagare se il reato per il quale si è verificata la mancata dichiarazione incida effettivamente sul requisito di affidabilità morale richiesto dal Codice per essere destinatari dell’affidamento di una commessa pubblica”.
L’ennesimo contrasto interpretativo, insomma, posto da una norma, all’atto pratico, tutt’altro che azzeccata (nonostante all’atto di redigerla fosse già maturata l’esperienza del Regolamento di esecuzione della legge Merloni).
In verità, ad opinione di chi scrive, se è vero che la norma è poco chiara, è anche vero che, trattandosi di clausola sotto comminatoria di esclusione, il criterio della “stretta interpretazione” dovrebbe pur sempre fare da guida.
Da questo punto di vista, logica vorrebbe che si avesse riguardo alla lex specialis, la quale dovrebbe farsi carico, se mai, di chiarificare la portata dei vari adempimenti.
Quando la legge di gara si limita – come spesso accade – a imporre di dichiarare genericamente l’insussistenza di cause di esclusione, ovvero l’insussistenza di condanne per “reati gravi incidenti sulla moralità”, magari predisponendo apposito modulo di dichiarazione di identico tenore, pretendere che il concorrente menzioni anche pregressi bagatellari appare francamente eccessivo.
E è proprio questo il punto: perché, se talvolta i bandi si prodigano nel richiedere (perché no, ripetendosi all’infinito) la dichiarazione di tutti i reati, nel qual caso almeno vi è chiarezza, spesso gli atti di gara utilizzano locuzioni generiche, che inducono davvero a ritenere che chi sottoscrive la dichiarazione ex art. 38 deve operare una cernita tra condanne rilevanti e irrilevanti.
Nel qual caso, quando il bando sia equivoco, sulle esigenze di rigore dovrebbe prevalere forse il principio di affidamento, anche tenuto conto che l’Amministrazione può ben operare un vaglio più approfondito in sede di verifica dei requisiti post aggiudicazione, sulla base del casellario.
La sentenza in questione – se con la motivazione esaminata si appalesa più che rigida – in ulteriore parte cede a una lettura più aperta.
Esaminando separato e diverso motivo, infatti, il Consiglio di Stato afferma invece che, per i soggetti cessati (ma ciò può valere anche più in generale), non sussiste un mendacio rilevante allorché venga omessa la dichiarazione di reati non risultanti dal casellario giudiziario.
Il problema è più che noto: secondo il Testo unico che disciplina la materia, il casellario a richiesta dell’amministrazione contempla tutte le varie tipologie di condanne, mentre quello a richiesta del privato (si noti: il “titolare” delle condanne, e non il soggetto terzo, che a quei dati non ha alcun accesso) non indica né i patteggiamenti né i decreti penali, e ciò a prescindere se sia stata concessa o meno la sospensione condizionale o la non menzione.
In breve, se un soggetto ha subito ad esempio un decreto penale, questo non risulta nel casellario comune, bensì risulta nel solo casellario a istanza dell’amministrazione. Con la conseguenza che l’Impresa non può materialmente avere conoscenza di tale reato in capo a un proprio amministratore, direttore tecnico, o procuratore, a meno che non sia questi a darne comunicazione: circostanza assai grave nel caso di soggetti cessati, perché in questi casi, giocoforza la dichiarazione non è resa dal cessato, bensì da altri per suo conto (ancorchè certa, per fortuna isolata, giurisprudenza si sia spinta, persino, a pretendere la dichiarazione personale del soggetto cessato dalla carica).
Pertanto, al momento di partecipare a una gara, il massimo della diligenza che può gravare sull’amministratore, per essere sicuri della veridicità della dichiarazione circa i cessati dalle cariche nel triennio, consiste nell’obbligare questi (tra l’altro, si tratta di un obbligo cui il destinatario potrebbe anche non voler adempiere) a produrre il casellario; il quale, nondimeno, non menziona né i decreti penali né le sentenze di patteggiamento, quale che sia il reato in questione.
Quid, pertanto, nel caso la dichiarazione circa il cessato si mostri mendace, senza colpa dell’amministratore dichiarante? Anche qui la giurisprudenza si è divisa.
Per un primo filone, quanto descritto non esime, pena l’esclusione, dall’obbligo di una dichiarazione veritiera, senza necessità di indagare sulla buona fede.
Ad esempio, T.A.R.  Trentino Alto Adige, 2 dicembre 2008, n. 309, per la quale, nel caso di soggetti cessati, “è legittima l'esclusione dichiarata a carico dell'offerente a seguito dell'emersione, in seguito a verifica d'ufficio dei requisiti di partecipazione, a carico dell'amministratore cessato dalla carica nel triennio antecedente alla pubblicazione del bando di tre sentenze ex art. 444 c.p.p. iscritte nel certificato del casellario a tal fine acquisito, a nulla rilevando che la ditta offerente abbia usato l'ordinaria diligenza nell'acquisizione delle citate informazioni”. Per altra giurisprudenza, invece, “non può ritenersi scientemente falsa allorché corrisponda alle risultanze del certificato del casellario giudiziale rilasciato su richiesta dell’interessata ai sensi dell’art. 23 ss. d.p.r. n. 313/2002, posto che il certificato contenente la totalità delle iscrizioni che riguardano una determinata persona può essere acquisito esclusivamente dalla p.a. ed è inaccessibile all’interessato” (T.A.R. Veneto, I, 15 novembre 2005, n. 3949); cfr. anche A.V.CC.PP., determinazione n. 75 del 6.3.08, la quale ha dato atto della “impossibilità per l’impresa di conseguire certificazioni relative ai soggetti cessati, in quanto le stesse sono richiedibili solo da parte del soggetto interessato”. Di pari avviso la sentenza qui in commento, per la quale “non può non considerarsi che la condanna …obbiettivamente non risultava dal certificato generale del casellario, né emerge dagli atti che il dichiarante avesse precedentemente avuto in altro modo piena conoscenza del decreto in questione”, con le ricadute del caso in punto di insussistenza “dell’atteggiamento psicologico”. Questa lettura è, ad opinione di chi scrive, non solo condivisibile, ma anche l’unica conforme ai criteri di logica e proporzione (tantopiù quando si ritenga, come affermato in talune recenti pronunzie, che la dichiarazione effettuata “per quanto a conoscenza” è da intendersi inutiliter data).
L’aderire all’orientamento diverso – per il quale ogni mendacio obiettivo, sia esso colpevole o incolpevole, comporta di per sé l’esclusione – porta a esiti davvero paradossali: semplificando, le Imprese con soggetti  cessati nel triennio antecedente il bando non potrebbero mai partecipare alle gare con la certezza di non incorrere in false dichiarazioni, e quindi la presentazione di offerta equivarrebbe, sempre e comunque, a correre il rischio di dichiarare dati mendaci.
Giusto, allora, quando la dichiarazione non riguardi la posizione propria del dichiarante, e cioè in tutti i casi di dichiarazioni “per conto terzi”, dare rilievo alla buona fede, quando, come nel caso, non vi sia alcuno strumento giuridico (essendo il casellario inaccessibile ai terzi) per appurare con certezza assoluta l’assenza di condanne.
L’art. 38 del Codice dei contratti, tuttavia, resta tutt’oggi in equilibrio precario.

Risarcimento danni e criterio dell’utile presunto: una rassegna della più recente giurisprudenza

M.M.

L’Impresa che vede sfuggire la possibilità di aggiudicarsi un appalto, e che voglia tutelare le proprie ragioni in giudizio, mira tradizionalmente a conseguire in primo luogo un risarcimento in forma specifica; sul punto, consolidata giurisprudenza ha chiarito che il conseguimento del bene della vita richiesto, ovvero l’aggiudicazione dell’appalto previa annullamento degli atti impugnati, ha carattere primario ed esclusivo rispetto all’eventuale risarcimento per equivalente monetario: “

in materia di appalti pubblici il risarcimento del danno per equivalente è da escludersi qualora l'accoglimento del ricorso avverso l'aggiudicazione intervenga in tempo utile a restituire in forma specifica all'impresa interessata la chance di partecipare alla gara da rinnovare, consentendo quindi il soddisfacimento diretto e pieno dell'interesse da essa fatto valere” (Consiglio di Stato, sez. V, 28 gennaio 2009, n. 491).
In mancanza, tuttavia, di risarcimento in forma specifica, il ricorrente plausibilmente proseguirà il giudizio al fine di conseguire il risarcimento del danno per equivalente monetario.
Sullo sfondo di tale questione, si affaccia peraltro il mare magnum della pregiudiziale amministrativa, laddove è stato ritenuto da parte della giurisprudenza conforme alle note ordinanze SS.UU. 13 giugno 2006, n. 13659 e 13660, che il ricorso con cui si chieda il risarcimento per equivalente monetario non è condizionato dai termini decadenziali posti dalla legge per l’impugnativa dei provvedimenti ritenuti lesivi.
Il danno risarcibile si suddivide nelle tradizionali voci del danno emergente e del lucro cessante: quanto al primo, in materia di gare pubbliche viene in evidenza il rimborso delle spese di partecipazione alla procedura; tale “voce” non è peraltro ritenuta risarcibile da una parte minoritaria della giurisprudenza, sulla scorta della considerazione che tali spese costituiscono di fatto un investimento “a fondo perduto”, e che le stesse non spetterebbero in caso di aggiudicazione della commessa (in tale senso, Consiglio di Stato, VI sez., 2 marzo 2009, n. 1180).
Quanto al lucro cessante, si registra anzitutto la “sottovoce”, di recente creazione giurisprudenziale, del danno cd. curriculare: esso consiste nel “pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'Amministrazione. L'interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un'impresa, va, infatti, ben oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé, e al relativo incasso; alla mancata esecuzione di un'opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all'immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara” (così Consiglio di Stato, VI sez., 9 giugno 2008, n. 2751).
La tradizionale partizione di tale voce di danno, tuttavia, enuclea le due categorie della perdita di chance e del mancato utile.
Sovente “accorpate” dalla giurisprudenza ai fini della concreta quantificazione del danno liquidabile, tali voci si differenziano soprattutto in relazione alla posizione soggettiva del soggetto richiedente il risarcimento: si ha perdita di chances, infatti, in tutti quei casi in cui il concorrente, pur a seguito di un eventuale accoglimento del proprio ricorso, non può conseguire la certezza di risultare aggiudicatario della commessa (ciò perché lo stesso è stato escluso dalla gara prima dell’apertura delle buste, o perché la gara è stata revocata, o perché si verte in materia di erronea verifica dell’anomalia dell’offerta del primo classificato, essendo risultando anomala anche l’offerta del ricorrente, etc.).

Il mancato utile, invece, sarà invocato da quel ricorrente che, a seguito dell’accoglimento del gravame, abbia la certezza di risultare aggiudicatario: si pensi al caso del primo graduato cui si imputi, ad esempio, la mancata produzione in gara di documentazione prevista a pena di esclusione.
La prova dell’entità del danno è, tuttavia, argomento di non facile definizione.
Il danno, infatti, viene tradizionalmente commisurato al margine di utile ipotizzato dall’Impresa in sede di gara; tuttavia, tale parametro, apparentemente l’unico cui poter fare concreto riferimento, può talora celare taluni inconvenienti pratici. Si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui un concorrente, che non si sia (ingiustamente) visto aggiudicare la commessa, abbia formulato un’offerta economica prevedendo un utile d’impresa estremamente ridotto; trattasi di ipotesi border line con la fattispecie di non serietà dell’offerta, ma che ad ogni buon conto è comune nella prassi (si pensi alla partecipazione alla gara di Cooperative Sociali, ONLUS, e più in generale di soggetti privi di scopi istituzionali di lucro) ed è talora ammessa tout court dalla giurisprudenza. In un caso del genere, parametrando il risarcimento monetario all’utile sperato dall’Impresa concorrente, è evidente che non potrà riconoscersi, a titolo di ristoro, altro che una somma poco più che simbolica, plausibilmente non sufficiente a giustificare la proposizione di un ricorso giurisdizionale. In disparte quanto sopra, in generale, in merito alla quantificazione del lucro cessante, la giurisprudenza ha tradizionalmente seguito il cd. criterio del 10% dell’utile sperato dal concorrente, come ribassato in gara, estendendo in via analogica la disposizione di cui all’art. 345 della l. n. 2248 del 1865, in materia di recesso della Pubblica Amministrazione dal contratto di appalto. Sul punto, chiarisce Consiglio di Stato, V sez., 14 aprile 2008, n. 1665: “per ciò che riguarda… il lucro cessante come indebita sottrazione delle chances di guadagno da esecuzione dei lavori, il danno andrà presunto in ragione dell’usuale 10% del valore dell’appalto. È infatti criterio consolidato che, ai fini della quantificazione di un siffatto danno, nella determinazione forfetaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici, trovi applicazione analogica l’art.345 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F – ora sostanzialmente riprodotto dall’art. 122 del regolamento di cui al d.p.r. n. 554/99 – che quantifica al 10% del valore dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione … ragioni di necessaria concretezza nella determinazione del detrimento patrimoniale impongono di considerare che il riferimento di base per il calcolo di detta percentuale presuntiva sia quello della base d’asta, come ribassato dalla offerta del ricorrente”.
Partendo da tale ammontare, la giurisprudenza ha poi elaborato taluni “correttivi”, in base alle reali chances di aggiudicazione dell’Impresa nel caso di specie, secondo quanto già si è detto. In altre parole, occorre verificare se, ai fini del risarcimento del danno, vi fossero chances concrete di aggiudicazione della commessa per la ricorrente, anche minime: “la chance è ristorabile ogniqualvolta la possibilità di vittoria sia seria, anche se non necessariamente superiore al 50%” (Consiglio di Stato, VI sez., 15 giugno 2009, n. 3829).
Così, in tal senso, Consiglio di Stato, VI sez., 15 giugno 2009, n. 3829, ha ritenuto risarcibile secondo il criterio del 10% della base d’asta ribassata il danno subito dall’impresa, ritenendo tuttavia che l’importo risultante debba essere ulteriormente suddiviso per il numero dei partecipanti alla procedura; nel medesimo senso, anche Consiglio di Stato, V sez., 17 ottobre 2008, n. 5096Consiglio di Stato, IV sez., n. 1206/2009 ha invece ritenuto congruo il parametro del 10%, tuttavia ulteriormente ridotto del 50% a titolo di equità, in considerazione della “liberazione delle forze dell’impresa che hanno potuto essere destinate ad altre attività”; nel medesimo senso, Consiglio di Stato, V sez., 28 gennaio 2009, n. 491; Consiglio di Stato, VI sez., 2 marzo 2009, n. 1180 fa invece nuovamente riferimento al parametro del 10%, tuttavia ridotto nella misura dell’utile quantificato dall’Impresa in sede di giustificazione del ribasso praticato.
Non manca, comunque, un orientamento maggiormente favorevole per le Imprese concorrenti, a tenore del quale “si deve riconoscere un risarcimento forfettizato … (10 % del valore complessivo dell’appalto di servizi in esame…), potendosi ritenere implicito il danno (illegittimo) nel non aver potuto conseguire l’aggiudicazione, nel non aver potuto attivare il servizio oggetto di quest’ultima e nel non aver potuto inserire il tutto nel proprio curriculum, in occasione della partecipazione ad ulteriori gare d’appalto” (Consiglio di Stato, V sez., 12 giugno 2009, n. 3679); similmente, la già ricordata Consiglio di Stato, V sez., 14 aprile 2008, n. 1665.
L’orientamento suesposto, che riporta al 10% della base d’asta ribassata, in via forfetaria, l’ammontare del danno ristorabile per equivalente monetario a titolo di lucro cessante, trova tuttavia negli ultimi tempi decise affermazioni in contrario, e talora, il contrasto è apprezzabile anche all’interno della medesima Sezione.
Si veda, a titolo di esempio, la pronuncia n. 5098 del 17 ottobre 2008, V sezione, pubblicata nel medesimo giorno della predetta decisione n. 5096 della medesima sezione, che segue però una strada radicalmente opposta.
Trattasi di un orientamento che ripudia il criterio dell’utile presunto del 10%, sulla scorta di alcune interessanti considerazioni. In generale, il Collegio ritiene che, “nel rispetto del principio basilare sancito dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, si è affermato, … che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il ricorrente debba fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2007, n. 10; sez. VI, 2 marzo 2004, n. 973)”, infatti, “va al riguardo ribadito l’orientamento di questo Consiglio per il quale è inammissibile e comunque infondata la domanda risarcitoria formulata in maniera del tutto generica senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 306)”. Quanto alla possibilità di procedere a liquidazione equitativa, la sezione parimenti ritiene che “quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito. Orbene mentre nel caso di accertamento di danni non patrimoniali l’unica forma possibile di liquidazione è quella equitativa, per quelli patrimoniali è vero il contrario, specie se subiti da imprese nell’esercizio della propria attività”. Effettuate tali premesse, si perviene a dover quantificare l’entità del risarcimento. La sezione, anzitutto, respinge il criterio forfettario del 10%, poiché anzitutto “è desunto da alcune disposizioni in tema di lavori pubblici, che riguardano però altri istituti, come l’indennizzo dell’appaltatore nel caso di recesso dell’amministrazione committente o la determinazione del prezzo a base d’asta”; in secondo luogo, e soprattutto, si rileva che tale parametro “conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale. In tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno”.
Anche il meccanismo predetto dei “correttivi” all’importo del 10% non va esente da critiche: “ulteriore difetto di tale tecnica risarcitoria (come si registra nella prassi giudiziaria, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1513) è che obbliga i giudici più sensibili a moltiplicare gli sforzi per trovare correttivi che rendano meno evidenti gli ingiustificati esborsi a carico della finanza pubblica; … tali escamotage offrono un rimedio inappagante perché scontano il vizio d’origine del costrutto argomentativo che nasce all’interno della logica indennitaria e non si concilia affatto con il regime della prova nel sistema della responsabilità civile in genere e della p.a. amministrazione in particolare”. Infine, in merito alla condanna ex art. 35 d.lgs. n. 80/98, vale a dire quella con la quale il Giudice si limita a indicare i criteri cui dovrà attenersi l’amministrazione nel riconoscimento del richiesto risarcimento, “premesso che nel processo amministrativo non sono ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2004, n. 942), il ricorso alla c.d. <<sentenza sui criteri>> di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell’offerta da parte della p.a. E’ evidente pertanto che il meccanismo processuale divisato dal menzionato art. 35 non può essere strumentalizzato per eludere l’obbligo di allegazione dei fatti costitutivi del proprio diritto”. Medesime considerazioni valgono per la eventuale c.t.u., “che non è mezzo di prova in senso proprio e non può supplire all’onere probatorio della parte (cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2005, n. 1563; sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012)”. Tale orientamento è stato confermato dalle successive decisioni del Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967, sez. V, n. 842 del 16 febbraio 2009, sez.V, n. 2143 del 6 aprile 2009, e sez. VI, n. 3144 del 21 maggio 2009, fra le altre. 
Trattasi, in tutta evidenza, di una linea interpretativa del tutto incompatibile con quella precedentemente illustrata, tuttavia largamente prevalente, almeno nella giurisprudenza di primo grado e, forse, orientata a scoraggiare azioni volte a “monetizzare” indebitamente la mancata aggiudicazione di una gara d’appalto, pur in mancanza di concreti presupposti.
Ciò non sembra del tutto ragionevole; in presenza di atti illegittimi adottati dall’Amministrazione, parrebbe singolare non riconoscere a favore dell’Impresa ricorrente alcuna utilità a titolo risarcitorio; ciò, anche nell’ipotetica assenza o insufficienza di idonee allegazioni documentali, che peraltro, nella maggior parte dei casi, si limiteranno all’offerta economica proposta in gara, che è il solo documento mediante il quale possa darsi prova dell’utile sperato a seguito dell’aggiudicazione della commessa. Più di cosi, la prova diverrebbe davvero diabolica.
Una sintesi fra i due orientamenti appare lontana: è quindi allo stato inevitabile, per le difese dei ricorrenti, la predisposizione negli atti introduttivi di articolate richieste risarcitorie, con conseguenti allegazioni documentali quanto più esaustive, onde non pervenire ad esiti, sia pur vincenti in giudizio, di poca o nulla utilità pratica.
Non può non considerarsi, però, che il risarcimento del danno, a 10 anni dalla sentenza n. 500/99, e pur a seguito dell’entrata in vigore della riforma del 2000, resta ancora nel giudizio amministrativo (in particolar modo in materia di pubbliche gare) un istituto la cui effettività è garantita a corrente eccessivamente alternata.

Giurisprudenza su DURC e regolarità contributiva: tutto da rifare?

F.B.

Sembra davvero non trovare sbocco la discussione sul rilievo della regolarità contributiva ai fini delle gare di appalto. E mentre la giurisprudenza, sia di primo che di secondo grado, sembrava, nell’ultimo anno, avere consolidato una condivisa interpretazione formalistica (per la quale la mancanza del DURC alla data dell’offerta impedisce comunque la partecipazione alla gara), una recentissima decisione del Consiglio di Stato – avallata nei giorni seguenti da una pronuncia del T.A.R. del Veneto – ha rimesso tutto in discussione.
La questione interpretativa – che non ammette che le due opposte letture qui in commento – consiste nel verificare se, ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163/2006, la regolarità contributiva, certificata da un D.U.R.C. positivo, costituisca requisito per la partecipazione alla gara (e per la stipula del contratto).
Va premesso che la normativa, in proposito, è stata più volte modificata dal legislatore negli ultimi anni (e non solo ad opera del nuovo Codice, essendo significativi gli interventi contenuti in leggi speciali): peraltro, i vari orientamenti giurisprudenziali, nonostante i vari tentativi di mettere ordine sulla base delle norme, hanno in più casi finito per argomentare “per princìpi”, di modo che le varie pronunce che si sono accavallate nell’ultimo periodo, talvolta rese in vigenza del d.lgs. n. 163/06, talaltra in vigore della normativa previgente, mostrano una dicotomia di soluzioni tutt’altro che riconducibile alle norme vigenti ratione tempore. In particolare, l’art. 38 d.lgs. n. n. 163/2006, che disciplina i requisiti generali di ammissione (in precedenza, cfr. art. 75 d.p.r. n. 554/1999, e artt. 11 e 12 d.lgs. n. 258/92 e 157/1995), stabilisce il divieto di partecipazione per coloro che “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali” (lett. i)).
Fin qui, la regolarità contributiva non parrebbe costituire requisito generale di ammissione, in quanto la norma sancisce l’esclusione solo quando si tratti di violazioni contributive “gravi”, oltre che oggetto di definitivo accertamento. Con esclusione, perciò, delle violazioni “non gravi” (secondo la valutazione dell’Ente appaltante).
La conclusione appare peraltro avallata dalla circostanza – poco considerata in seno al dibattito sul tema, ma indubbiamente significativa – che il nuovo Codice non ha riprodotto il tenore dell’art. 12 d.lgs. n. 157/95, il quale stabiliva il divieto di partecipazione per i concorrenti “non … in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori”. 
Ciò premesso, ulteriori disposizioni in materia si rinvengono sia nel co. 2 dell’art. 38, sia nella normativa speciale. In primo luogo, è stabilito che la “regolarità contributivo-previdenziale” sia accertata tramite lo strumento del D.U.R.C., di cui all’art. 38, co. 2, dall’art. 2 D.L. n. 210/02, e dall’art. 90 d.lgs. n. 81/08 (già art. 3 co. 8 d.lgs. n. 494/96). In secondo luogo, il co. 2 dell’art. 38 dispone che “resta fermo, per l'affidatario, l'obbligo di presentare la certificazione di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, del decreto-legge 25 settembre 2002, n. 210…”. Mentre l’art. 2 D.L. n. 210/02 prevede che “le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva a pena di revoca dell'affidamento”.
In terzo luogo, il D.M. Lavoro 24 ottobre 2007 ha definito, ai fini del rilascio del D.U.R.C., la nozione di “regolarità contributiva”, con previsione che essa sussiste anche in caso di “richiesta di rateizzazione” approvata, etc., e con previsione di una precisa “soglia di tolleranza” per le somme a debito.
La giurisprudenza è stata più volte chiamata a stabilire, sostanzialmente, se la mancanza di un D.U.R.C. in regola impedisca sempre l’aggiudicazione, o solo quando l’irregolarità dia luogo a una “violazion[e] grav[e] definitivamente accertat[a]”; se il D.U.R.C. debba essere necessariamente regolare già alla data di presentazione dell’offerta; se, infine, abbia o meno efficacia sanante la regolarizzazione postuma alla data dell’offerta (ma antecedente il contratto).

Parte della giurisprudenza si è orientata per una lettura sostanzialistica: in breve, se è vero che le norme prescrivono (pur se con tenore di dubbia limpidezza) l’obbligo di regolarità contributiva, anche è vero che la sanzione dell’esclusione è espressamente prevista per il solo caso di violazioni gravi e oggetto di accertamento definitivo. Altra giurisprudenza, valorizzando il co. 2 dell’art. 38, nonché l’art. 2 D.L. n. 210/02 e il D.M. 24 ottobre 2007, hainvece concluso per una lettura formale, per la quale ogni caso di carenza della regolarità contributiva (rectius, di D.U.R.C. negativo) impone l’esclusione e la revoca dell’aggiudicazione.

Per la prima lettura, a carattere sostanziale, si era ad esempio espresso il T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, I, n. 3740 del 19 giugno 2008, nonché il parere n. 102/2007 dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti. Si concludeva, nel caso, per l’obbligo della stazione appaltante di una congrua motivazione in punto di gravità, evidenziando, anche, l’efficacia sanante della regolarizzazione postuma (cfr. anche, implicitamente, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 716 del 27.2.08, e T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, n. 537 del 22.10.08, per la quale l’inadempimento contributivo “può essere considerato causa di esclusione solo ove sia grave e definitivamente accertato”).
Per la seconda lettura, a carattere formalistico, invece, ogni irregolarità contributiva impone l’esclusione dalla gara: in altri termini, l’un conto sono le “violazioni gravi”, che precludono la partecipazione anche se pregresse e, magari da tempo, sanate; si tratta di “tare”, in buona sostanza, che rimangono in capo all’Impresa alla pari delle sentenze di condanna degli amministratori. Altro conto è la regolarità contributiva, che, anche se non grave, implica il divieto di partecipazione e contrattazione, considerato anche che, nel nuovo regime, ove la valutazione sulla posizione contributiva è istituzionalmente rimessa alle Casse edili emittenti il DURC (e secondo norme che predeterminano le “soglie di tolleranza”), alla stazione appaltante non è richiesto che di prendere atto di tali risultanze, senza poterle sindacare.
In questo senso si sono pronunciate la recente sentenza del T.A.R. Toscana,  n. 182 del 2 febbraio 2009, del T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, n. 8 del 21 gennaio 2008, quella del T.A.R. Lecce, n. 109 del 29 gennaio 2009, e la decisione del Consiglio di Stato, V, n. 5575 del 23 ottobre 2007, capofila di tale orientamento.
Precisamente, il Consiglio di Stato, nella decisione n. 5575/07, ha precisato che la nozione di "regolarità contributiva”, non coincide con quanto previsto dall’art.75, comma 1 lett.e) del D.P.R. n.554/1999 (oggi art. 38 co. 1 d.lgs. n. 163/06, lett. i)), ma implica nozione più ampia “che comporta l’assenza di qualsiasi inadempienza agli obblighi previdenziali, iniziando dal mancato tempestivo pagamento delle somme dovute a seguito di dichiarazioni e denunce da parte del medesimo soggetto interessato”.
Il T.A.R. Toscana, infine, con la sentenza n. 182/2009, del 2 febbraio 2009, ha chiarito che il requisito della regolarità contributiva “è innanzitutto uno strumento indispensabile di tutela del lavoro e della sua sicurezza mentre, al contrario, le irregolarità contributive e assicurative, da un lato, costituiscono indice di inaffidabilità contrattuale, dall'altro possono tradursi in una forma di finanziamento occulto idoneo ad alterare il corretto confronto concorrenziale ed a pregiudicare la par condicio tra i concorrenti, in danno dell'imprenditore che abbia puntualmente adempiuto agli obblighi predetti. In relazione a ciò appare logico e consequenziale che il requisito in esame sia richiesto in termini rigorosi anche sotto il profilo temporale e dunque se ne pretenda il possesso sin dal momento del primo contatto tra l'impresa e l'amministrazione aggiudicatrice, cioè alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara”. 

Concludendo nel senso che occorre sempre un DURC in regola, pena l’esclusione o la revoca dell’aggiudicazione; che tale regolarità deve esservi già al momento dell’offerta (essendo irrilevante la regolarizzazione postuma); e ciò senza che abbia rilievo la gravità o meno della violazione. Tale orientamento formalistico è stato altresì ribadito dalla sentenza del TAR Puglia, Lecce, n. 109/2009, dep. il 29.1.2009, nonché dalla altrettanto recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1458 del 12.3.2009 (“la regolarità contributiva deve essere presente al momento dell’offerta ; a seguito della entrata in vigore della disciplina sul certificato…, la verifica della regolarità contributiva è demandata agli Istituti di previdenza”).
Da evidenziare, tra l’altro, che talune delle citate sentenze – a scanso di equivoci – hanno altresì affermato (e non ve n’era bisogno una volta optato per il draconiano orientamento formalistico) che la gravità in concreto può sussistere in disparte l’entità delle somme, e anzi, anche le violazioni di modesta entità possono, o addirittura sono, sempre “gravi” (cfr. in particolare la decisione n. 1458 del 12.3.2009). Precisazione (non necessaria) che suscita più di un dubbio, se è vero, come è, che è la legge stessa a distinguere tra “violazioni gravi” e “violazioni lievi”, ove, anche ad aderire all’orientamento formalistico, il regime delle due fattispecie è profondamente diverso.
Mentre tale orientamento sembrava consolidato, la recentissima pronuncia qui in commento ha operato una bruisca sterzata, tornando ai fasti della lettura sostanzialistica dietro citata.
Palazzo Spada, con la decisione n. 2874 del 11.5.2009, ha infatti ritenuto (rinviando gli atti alla Corte dei Conti per ipotesi di danno erariale conseguente al risarcimento), facendo ampio rinvio alla normativa comunitaria, che “nel disposto dell’art. 2, co. 1 del D.L. n. 210/2002, l’effetto automatico della revoca a carico dell’affidataria, sanziona… il fatto oggettivo dell’omessa presentazione alla stazione appaltante del certificato relativo alla regolarità contributiva e non l’irregolarità contributiva in sé e per sé. L’automatismo consegue alla omessa presentazione e non al non essere in regola con i contributi. Circostanza quest’ultima che, in assenza di diversa indicazione nella lex specialis, va valutata in relazione alla gravità dell’infrazione ad opera della stazione appaltante”. 
Vale a dire: poiché non è stabilita (ed in effetti questo è vero) una apposita causa di esclusione nel co. 1 dell’art. 38 (che, altrimenti, avrebbe domandato espressamente il requisito della regolarità previdenziale), le inadempienze verso le previdenze possono rilevare solo se “gravi” e “definitivamente accertate”.
Un cambio di lettura in piena regola, ed un ritorno esplicito alla tesi sostanzialistica: ancorchè la decisione sia stata resa in relazione all’art. 75 d.p.r. n. 554/99 (e su fattispecie antecedente il D.M. del 2007), la lettura appare infatti aderire pienamente ad una valutazione sostanzialistica, valida anche in vigenza del nuovo Codice del 2006. Il revirement della giurisprudenza non è peraltro un caso isolato: da pochi giorni, infatti, è stata pubblicata la sentenza del T.A.R. Veneto, n. 1601 del 26.5.09, la quale, pur premettendo che secondo l’orientamento prevalente la regolarità contributiva (quindi, la positività del DURC) costituisce requisito essenziale, ha concluso facendo riferimento alla lett. i) dell’art. 38, affermando che “la formulazione della disposizione testè citata impone che il provvedimento di esclusione dalla gara per irregolarità contributiva sia congruamente motivato … con riguardo alla sussistenza delle condizioni di gravità e definitività”.
Ovvero: la regolarità contributiva è requisito di partecipazione, e la relativa verifica spetta alle Previdenze che emettono il DURC; tuttavia, alla luce di esso e delle relative risultanze, la Stazione appaltante è comunque tenuta alla propria valutazione in merito alla gravità e definitività della violazione.
La questione pertanto resta aperta, con l’aggravante che entrambe le soluzioni si fondano su argomenti sostenibili. All’Adunanza plenaria la parola conclusiva?

Il “formalismo ben temperato” nelle gare d’appalto. Un’interpretazione di Palazzo Spada

M.M.

La sez. V del Consiglio di Stato, con la decisione in commento, ritorna sul tema del “grado” (ragionevole) di formalismo richiesto alle stazioni appaltanti nell’applicazione delle regole di gara, ed in particolare di quelle imposte dalla lex specialis.
Nel caso in questione, un’Impresa è stata esclusa da una gara pubblica d’appalto di forniture per non aver ivi prodotto, nei termini previsti per la presentazione delle domande di partecipazione, taluna documentazione richiesta dalla lex specialis, ed in particolare “né la carta di circolazione né il certificato di idoneità tecnica alla circolazione di uno dei mezzi indicati per l’espletamento del servizio”: tale documentazione era necessaria, nella logica della lex specialis, a comprovare sia la potenza dei mezzi offerti, sia l’effettiva proprietà degli stessi da parte della ditta concorrente.
L’Impresa appellante sostiene, sul punto, che tali caratteristiche sarebbero state desumibili aliunde, ed in particolare da altra documentazione comunque prodotta in gara.
Tali argomentazioni non sono tuttavia ritenute degne di pregio, in quanto, nel caso di specie, il Collegio non ha ritenuto che la documentazione prodotta dall’appellante fosse equipollente a quella richiesta in gara dalla lex specialis.
In particolare, il Consiglio di Stato non ha ritenuto valide le produzioni da parte della concorrente di dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio, nelle quali si affermava il possesso dei requisiti di cui si chiedeva la comprova: nell’affermare ciò, il giudicante sembra seguire un’interpretazione strettamente formalistica, laddove afferma che “il meccanismo competitivo proprio della gara d’appalto è infatti tale per cui la lettera della lex specialis non è passibile di interpretazioni estensive, dato che le stesse si tradurrebbero in una violazione procedimentale in danno di quei concorrenti che si sono allineati alla legge di gara in modo pedissequo, osservandone alla lettera le prescrizioni”.
Tale interpretazione sembra pertanto confermare quell’orientamento giurisprudenziale, particolarmente rigoroso, a mente del quale il principio di formalità costituisce insuperabile garanzia della par condicio fra i concorrenti in gara, e come tale richiede in ogni caso la sua stretta applicazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 597 del 3 febbraio 2009).
Tuttavia, nella decisione in commento, i Giudici di Palazzo Spada richiamano un orientamento maggiormente “aperto”, diremmo “comunitariamente orientato”, a mente del quale “il principio che ravvisa nel rispetto puntuale delle formalità prescritte dalla lex specialis un efficace presidio a garanzia della par condicio fra i partecipanti può essere oggetto di temperamenti, perché del formalismo procedurale che sorregge il sistema delle gare d’appalto va scongiurata un’applicazione meccanica che contraddica, alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto, la fondamentale ed immanente esigenza di ragionevolezza dell’attività amministrativa, finendo così per porsi in contrasto con le stesse finalità di tutela cui sono preordinati i generali canoni applicativi delle regole della contrattualistica pubblica”.
Il Consiglio di Stato, in altre parole, afferma la possibilità, quando non la necessità, di apportare taluni “temperamenti”, ispirati a criteri di ragionevolezza, che consentano di scongiurare applicazioni meccaniche tali da mettere a repentaglio la stessa finalità concorrenziale, di derivazione comunitaria, cui è preordinato il procedimento ad evidenza pubblica.
Tale orientamento non è nuovo alla sezione, in quanto, recentemente, già la stessa si era espressa in tal senso con la decisione n. 1362 del 9 marzo 2009: “sia pure nel doveroso rispetto della par condicio competitorum, le clausole dei bandi di gara, delle lettere-invito e dei capitolati devono essere interpretate non in modo formalistico, ma sempre con specifico riguardo alle finalità perseguite da ciascuna prescrizione, ad evitare che il rispetto delle forme si traduca in un affievolimento del principio concorrenziale, la cui effettività è sottesa allo stesso meccanismo della selezione comparativa fra più offerte, cui il legislatore, anche comunitario, guarda con sempre maggior favore”.
Tale orientamento richiamato, tuttavia, rischia ad avviso di chi scrive di rimanere sostanzialmente orfano di applicazioni pratiche: nella sentenza in commento, non a caso, il richiamo a tale opzione ermeneutica non fa comunque venir meno la conseguenza espulsiva dell’Impresa concorrente, in ragione della mancanza di documentazione richiesta a pena di esclusione dalla lex specialis di gara.
In tal senso, peraltro, milita anche il principio di stretta vincolatività per l’Amministrazione appaltante delle clausole della lex specialis, in special modo di quelle poste a pena di esclusione (in tal senso, “le prescrizioni dettate dal bando, dalla lettera d'invito e dal regolamento d'appalto, che regolano il procedimento preordinato all'aggiudicazione di contratti con la pubblica amministrazione, hanno carattere vincolante per la commissione di gara che è tenuta a dar loro attuazione specie quando ad una determinata violazione si correli una espressa comminatoria di esclusione dalla gara stessa”; Consiglio Stato, sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5503); non pare che tale principio, allo stato, possa essere in alcun modo superato da generici richiami al “principio concorrenziale”.
Deve, quindi, nuovamente riaffermarsi la “primazia” delle regole di gara, e delle loro previsioni espulsive o meno in presenza di eventuali carenze nelle produzioni documentali richieste; regole che il Giudice amministrativo dovrà analizzare caso per caso, tentando una difficile sintesi fra favor partecipationis e par condicio alla luce della considerazione che la stazione appaltante non può non applicare puntualmente le clausole della lex specialis, essendone strettamente vincolata.

La demolizione delle opere abusive non può avvenire in pendenza del procedimento di sanatoria

M.M.

Con la sentenza n. 782 del 7 maggio 2009 il T.A.R. Toscana ha confermato il principio in oggetto, contribuendo a renderlo ormai di pacifica applicazione.
Nella fattispecie in esame, la Società titolare del permesso di costruire ha avanzato istanza di sanatoria relativamente a talune opere eseguite in parziale difformità con il titolo edilizio; nelle more della definizione della sanatoria, tuttavia, il Comune ha intimato alla Società la demolizione delle opere ritenute abusive.
Da qui, l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio-demolitorio, denunciata dalla ricorrente e affermata dal T.A.R. toscano, in quanto l’intimazione a demolire le opere era sopraggiunta in un momento in cui il procedimento di sanatoria già precedentemente instaurato non aveva ancora avuto definizione, né in senso positivo né in senso negativo, da parte del Comune stesso.
Né vale a rendere legittima l’impugnata ordinanza, nel caso in parola, l’avere il Comune precisato che talune precedenti richieste di integrazione della pratica di sanatoria rivolte alla ricorrente erano, a suo dire, rimaste inevase, e l’aver dato atto di ciò nelle premesse dell’ordinanza impugnata; ciò, giustappunto, in quanto il procedimento di sanatoria deve essere definito con provvedimento espresso, prima di poter procedere all’irrogazione di provvedimenti sanzionatori.
Trattasi, come si è detto, di principio ormai pacifico, e come tale affermato anche dal Consiglio di Stato, con recente decisione della sez. IV, n. 2259 del 15 maggio 2008: “la presentazione dell’istanza [di sanatoria] blocca, fino alla sua decisione, l’‘iter’ procedimentale per provvedere alla demolizione dei manufatti”.

Il Consiglio di Stato ribadisce la “ultrattività” dei piani attuativi scaduti

D.S.

In una recente pronuncia, il Consiglio di Stato (Sez. V, 30 aprile 2009 n. 2768) si è nuovamente soffermato sul significato del principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942 (per il quale, "decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso") ribadendo l’orientamento (ex plurimis, Sez. IV, 4 dicembre 2007 n. 6170, 28 luglio 2005, n. 4018, 02 giugno 2000, n. 3172T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 24 gennaio 2006, n. 508T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 27 aprile 2005, n. 638, T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 29 settembre 2004, n. 2718 e T.A.R. Campania Salerno, 07 agosto 1997, n. 488) secondo cui, fino all’approvazione di un nuovo strumento attuativo che disciplini le aree in essi incluse, deve riconoscersi efficacia “ultrattiva” ai piani attuativi scaduti.
La Quinta Sezione ha infatti osservato, con riferimento alle convenzioni di lottizzazione (correttamente assimilate ai piani particolareggiati disciplinati dalla c.d. legge urbanistica), che l’imposizione del termine di attuazione va inteso nel senso che le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione. Ma, fintantoché tale potere non viene esercitato, l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini di cui alla convenzione di lottizzazione o del diverso strumento attuativo. Ciò, sull’assunto che il richiamato art. 17 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito).
Ne consegue che il termine di efficacia degli strumenti di pianificazione attuativa opera rispetto alle (eventuali) sole disposizioni di contenuto espropriativo e non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano che rimangono pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo, fino all'eventuale approvazione di un nuovo strumento urbanistico attuativo.
La tesi sulla ultrattività in parola, ad opinione di chi scrive, è senz’altro condivisibile. Ciò,  in primis, per la esigenza di evitare che, a fronte di un programma urbanistico in parte realizzato, i nuovi interventi edilizi non si coordinino con il disegno urbanistico sino ad allora seguito, così alterandolo.

La stazione appaltante può richiedere requisiti di partecipazione superiori ai minimi di legge

C.M.
“L’Amministrazione è legittimata ad introdurre, nella lex specialis della gara di appalto che intende indire, disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza”.
Il Consiglio di Stato riafferma un principio di diritto ormai davvero consolidato (cfr. da ultimo TAR Calabria, Catanzaro, n. 1618 del 5 dicembre 2008, TAR Puglia, Lecce, n. 2787 del 6 ottobre 2008, Consiglio di Stato n. 4699 del 30 settembre 2008) sul quale la giurisprudenza amministrativa si è più volte espressa: la lex specialis di gara può prevedere requisiti di partecipazione più ampi rispetto a quelli stabiliti dalla legge, ciò rientrando nella discrezione dell’Amministrazione, non sindacabile se non quando manifestamente irragionevole, in quanto arbitraria o sproporzionata. E con il limite, implicito, della garanzia della libera concorrenza.
Nel caso di specie il bando indicava come condizione di partecipazione alla gara una dichiarazione di possesso di un patrimonio netto di almeno € 2.000.000,00, a fronte di una base d’asta di € 6.250.000,00 per un quinquennio. Il Collegio, nello specifico, ha valutato ragionevole e non sproporzionato il requisito in parola, trattandosi di meno di un terzo del valore dell’appalto, e ciò costituendo idonea rassicurazione circa la solvibilità e la solidità dell’impresa.
Quando invece si tratti di fatturato d’impresa, sia la giurisprudenza che l’Autorità di Vigilanza (cfr. deliberazione n. 20/07), hanno fissato il “limite di ragionevolezza” tendenziale nel triennio fino al doppio della base d’asta (pur dovendosi precisare che, in certi casi, è fatto riferimento alla base d’asta complessiva, ed in altri alla base d’asta per singolo anno).
A ben vedere – e la sentenza qui in commento fa espresso richiamo a tale eventualità -, in ogni caso, l’esercizio della discrezionalità dell’ente sul punto può oggi, entrato in vigore il nuovo Codice dei contratti, risultare se mai ampliato anziché compresso, stante la possibilità, per le imprese, di ricorrere, ai sensi dell’art. 39 d.lgs. n. 163/06, all’avvalimento, in forza del quale, come noto, la concorrente che non possiede i requisiti per partecipare alla gara può, alle condizioni previste, spendere quelli di altri soggetti.
La possibilità di avvalimento non esclude, infatti, il rispetto dei canoni di ragionevolezza e proporzione, e tuttavia può risultare idoneo a incidere, quantomeno, limite della garanzia della concorrenza.

Giurisdizione Ordinaria in materia di pubblici servizi

L.S.
La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, conferma con la recente Ordinanza n. 29426 del 17 dicembre 2008 la propria posizione in merito al riparto di giurisdizione in materia di servizi pubblici; riconoscendo che la controversia relativa all'esecuzione di un contratto di appalto, avente ad oggetto l’affidamento del servizio di censimento delle unità immobiliari di alcuni Comuni ai fini dell’imposizione dei tributi locali e la creazione delle relative banche dati, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, e non nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi ai sensi dell'art. 33 D.Lgs. n. 80 del 1998, n. 80 (come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000), giacché il pubblico servizio postula l’espletamento di un’attività direttamente rivolta al soddisfacimento dei bisogni della collettività, e non è ravvisabile, come nella specie, nel caso di prestazioni erogate non a vantaggio degli utenti ma, anche se mediante contatto con gli stessi, in funzione meramente ausiliaria e strumentale ai compiti propri dell’ente pubblico. Nell’affermare il suddetto principio, la Corte di Cassazione richiama la propria precedente decisione n. 10994/06 con la quale - prima ancora della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 33 del D.lgs. 80/98 - aveva chiarito che, ai fini del riparto della giurisdizione, devono intendersi “controversie in materia di pubblici servizi” solo quelle aventi ad oggetto prestazioni erogate dal gestore del servizio pubblico agli utenti e non anche quelle aventi ad oggetto prestazioni effettuate a favore del gestore per consentirgli di organizzare il servizio.