L’offerta deve essere unica, altrimenti la concorrente va esclusa. Consiglio di Stato, V, n. 6205 del 15.12.08

F.B.
Il Consiglio di Stato (decisione n. 6205, del 15/12/08) riconferma il principio consolidato (si veda, per tutte, Consiglio Stato , sez. V, 07 ottobre 2002, n. 5278) per cui le concorrenti, salvo diversa previsione della lex specialis, non possono presentare più di un offerta, pena altrimenti l’esclusione anche in mancanza di apposita clausola.
L’evenienza ha rilievo, in particolare, per le commesse di forniture, dove l’Impresa produttrice di più prodotti potrebbe avere interesse a presentare più offerte: ciò, come correttamente stigmatizzato dal Consiglio di Stato, tuttavia implica un incremento delle chance di aggiudicazione rispetto alle altre partecipanti, a dispetto della par condicio, e che quindi può essere ammesso solo ove l’Ente abbia, nel bando, disposto in tal senso.
Offerte plurime, altrimenti, non sono concepibili.

Sussiste collegamento sostanziale fra Imprese, anche quando una Società terza detenga l’intero pacchetto azionario delle stesse

M.M.
Il Consiglio di Stato ritorna, con decisione n. 6037 del 5 dicembre 2008 resa dalla VI Sezione, sulla nozione di collegamento sostanziale, ed in particolare sulla distinzione civilistica fra collegamento e controllo, alla luce della “nuova” disposizione in materia dettata dall’art. 34, co. 2, del d.lgs. 163/2006.
La fattispecie sottoposta, nel caso, era relativa al possesso, da parte di una Società terza, della totalità delle partecipazioni di due Imprese, partecipanti alla medesima gara d’appalto.
Nel caso, riveste particolare interesse la motivazione inerente la struttura del predetto art. 34, co. 2: tale disposizione, ad avviso dei Giudici d’appello, individua un’ipotesi di esclusione automatica, corrispondente alle fattispecie di controllo puntualmente tipizzate dall’art. 2359 c.c., ed una diversa ipotesi (giustappunto, riconducibile alla nozione di collegamento sostanziale), per la quale “l’imputabilità dell’offerta ad un unico centro decisionale deve emergere sulla base di univoci elementi”.
Nel caso, il Consiglio di Stato riconduce quindi, preliminarmente, la fattispecie in esame ad un’ipotesi di collegamento sostanziale, e non di controllo ex art. 2359 c.c.: “l’appartenenza al 100% di due concorrenti ad una unica Società madre non integra l’ipotesi di cui alla prima parte della norma in esame, in quanto le due Imprese non si trovano fra loro in una situazione di controllo ex art. 2359”.
È esclusa, quindi, la possibilità di un’automatica esclusione dalla gara delle Imprese: “alcun automatismo può, quindi, derivare dal mero riscontro dell’appartenenza delle due Imprese ad un’unica società”.
La circostanza del possesso da parte di una Società terza dell’intero pacchetto azionario di due diverse Società partecipanti alla medesima gara, pertanto, viene semplicemente ricondotta nel novero degli “indici” del collegamento sostanziale, di cui – al fine di comminare la sanzione dell’esclusione – deve essere quindi verificata la “univocità”.
In fattispecie di collegamento sostanziale, pertanto, l’interprete è chiamato ad operare “una valutazione di ogni circostanza, senza poter far discendere in modo automatico l’esclusione da un unico elemento, anche se di particolare rilevanza”; nel caso, infatti, Palazzo Spada conferma la legittimità dell’esclusione delle Imprese sulla scorta di ulteriori indici, quali ad esempio la commistione di “organi di amministrazione e di direzione delle … Società”.
La soluzione adottata, tuttavia, non sembra allo stato del tutto consolidata, alla luce di diversi orientamenti recentemente emersi.
Tale pronuncia si colloca infatti in sostanziale continuità con l’analogo precedente della medesima sezione del Consiglio di Stato, rappresentato dalla decisione n. 2950 del 4 giugno 2007; la sez. V, con pronuncia n. 4285 del 8 settembre 2008, pare invece porsi decisamente in contrasto: nel caso affrontato, infatti, una Società terza possedeva partecipazioni non totalitarie delle due Imprese concorrenti; ciononostante, è stata ritenuta sussistente non già una fattispecie di collegamento sostanziale, bensì di collegamento “presuntivo” ai sensi dell’art. 2359, co. 3, c.c., con l’effetto che “la Commissione di gara non doveva fornire ulteriori indizi da cui desumere la presenza di un unico centro decisionale, essendo nella specie l’influenza notevole desumibile ex lege, diversamente da quanto avviene per l’ipotesi del collegamento sostanziale fra Imprese”; dovendosi insomma procedere, nel caso, ad una esclusione automatica delle Imprese, senza alcuna ulteriore istruttoria su altri indizi.
L’intervento di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria potrebbe dunque, a breve, rendersi opportuno al fine di chiarire appieno la portata operativa della disposizione di nuovo conio di cui all’art. 34, co. 2 d.lgs. 163/2006.

La gara va annullata se la Commissione apre i plichi in seduta riservata. Consiglio di Stato, VI, n. 5944 del 3.12.08

F.B.
Anche se la legge non dispone espressamente sul punto, l’apertura dei plichi deve avvenire in seduta pubblica, altrimenti la gara è illegittima, per violazione dei canoni di buon andamento e trasparenza dell’azione amministrativa.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, anche richiamandosi ad un recente precedente (n. 1856/08, Sez. VI; ma il principio è costantemente affermato), nella decisione in esame, ove il Seggio di gara aveva provveduto all’apertura dei plichi in seduta riservata, senza la possibilità di accesso per i concorrenti, e senza previa comunicazione.

Non è consentito l’accesso all’offerta tecnica di un’Impresa partecipante ad una gara d’appalto, quando il richiedente non abbia dimostrato la sussistenza di un concreto interesse

M.M.

È decisamente innovativa la decisione n. 6121 del 9.12.2008 della V Sezione del Consiglio di Stato, in materia di accesso agli atti di una gara d’appalto.
Nel caso di specie, veniva sottoposto il diniego di accesso, opposto da un’Amministrazione all’Impresa poi ricorrente, all’offerta tecnica dell’Impresa risultata aggiudicataria; l’Impresa richiedente, esclusa dalla gara d’appalto in parola, aveva impugnato in sede giurisdizionale la propria esclusione e, successivamente, con motivi aggiunti di ricorso, l’aggiudicazione definitiva della commessa.
La decisione in commento ruota intorno alla corretta interpretazione dell’art. 13 del nuovo Codice dei Contratti Pubblici, che “integra” la disciplina in materia di accesso contenuta nella l. 241/1990 con speciale riferimento, giustappunto, all’accesso nell’ambito di procedure pubbliche di selezione; si fa, in particolare, riferimento alle disposizioni di cui al co. 5 e 6 della predetta disposizione.
Fra le esclusioni all’accesso previste dal co. 5, infatti, si rinviene quella sancita dalla lett. a, concernente “le informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”; nel caso di specie, la Società aggiudicataria si era giustappunto opposta alla richiesta di accesso alla sua offerta tecnica, per ragioni di segreto commerciale.
Tuttavia, la grande novità della disposizione predetta è rappresentata dal successivo co. 6, il quale, rielaborando indicazioni già presenti in via generale nella l. 241/90, nonché nella più recente e avveduta giurisprudenza, sancisce che “in relazione all’ipotesi di cui al co. 5, lett. a) e b), è comunque consentito l’accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso”. Rileva la V Sezione, pertanto, che “l’accesso eccezionalmente consentito è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio”, laddove la disciplina generale di cui all’art. 24 l. 241/90 fa riferimento più genericamente alla “tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale”. Tale stretto legame, quindi, fra accesso agli atti e giudizio già instaurato o anche solo potenziale, comporta che la detta norma – sempre ad avviso della Sezione – “imponga di effettuare un accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza”; di conseguenza, “tale giudizio prognostico, anche quando è effettuato dal giudice secondo il rito speciale divisato dall’art. 25, l. 241 cit., non può prescindere dalle eventuali preclusioni processuali in cui sia incorso il richiedente”.
Tale affermazione conduce a conclusioni particolarmente “drastiche”: in altre parole, il giudice adito per la pronuncia sulla legittimità o meno del diniego all’accesso opposto dall’Amministrazione, nell’ambito di una gara d’appalto (nell’ambito di applicazione, cioè, del Codice dei Contratti), dovrà consentire l’accesso ogniqualvolta ciò risulti funzionale all’instaurazione di una lite (o ad una lite già pendente), purchè però detta lite possa concretamente essere proposta; previa, insomma, verifica, da parte del “giudice dell’accesso”, di eventuali preclusioni processuali in cui sia incorso il richiedente: “si pensi al concorrente che intenda accedere all’offerta dell’aggiudicatario dopo che siano scaduti i termini decadenziali per impugnare l’aggiudicazione definitiva”.
Tale soluzione appare pertanto foriera di condurre ad una vera e propria sostituzione del giudice dell’accesso a quello del merito, a giudizio già instaurato, e dunque ad una “prognosi” sostanzialmente anticipata su questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito, la cui soluzione spetterebbe naturalmente al giudice adito per il merito; il tutto, limitatamente alla sola materia degli appalti pubblici.

Se il bando richiede la spedizione dell’offerta tramite servizio postale, va esclusa l’impresa che ricorra a un corriere diverso. Consiglio di Stato, V, n. 6491 del 22.12.08

F.B.
Che le clausole a pena di esclusione debbano essere applicate, senza che residui margine discrezionale in proposito, è principio consolidato, e che discende dalla regola generale di par condicio.
Tuttavia, quando si tratti di meri formalismi, spesso la giurisprudenza risolve la questione facendo ricorso a criteri sostanziali, quali quello per cui è ammissibile l’adempimento che sia, di fatto, equipollente.
La decisione in questione sposa invece la linea dura, sancendo la legittimità dell’esclusione di un’impresa che, anziché spedire l’offerta tramite le Poste, come previsto sotto comminatoria di esclusione, si sia avvalso di altro corriere.
La pronuncia in parola non si sofferma sugli aspetti sostanziali, limitando la motivazione alla presa d’atto della non rispondenza dell’invio dell’offerta a quanto prescritto dalla clausola, sulla quale comunque non sono sollevati dubbi di legittimità.
Va peraltro evidenziato che, in precedenti sentenze su materia similare, la giurisprudenza ha concluso, entrando nel merito, per la ragionevolezza della clausola, stante che solo il servizio postale garantisce “pubblica certezza circa gli estremi della spedizione” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 06 marzo 2006, n. 1365; T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 27 luglio 2005, n. 1293).
Vacilla, in conclusione, il precedente orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV, 20 settembre 2000, n. 4934), il quale aveva, diversamente, ritenuto l’illegittimità di simili clausole.

Le modifiche societarie in corso di gara vanno comunicate alla stazione appaltante, che deve effettuare le verifiche di legge. Consiglio di Stato, V, n. 6046 del 5.12.08.

F.B.
Il mutamento di compagine sociale, le modifiche societarie, e similari, vanno sempre comunicate alla stazione appaltante, la quale, in conseguenza, deve effettuare le verifiche del caso. In mancanza, la gara è invalida.
L’importante indicazione proviene dal Consiglio di Stato, in fattispecie ove la concorrente aggiudicataria aveva subito una “trasformazione”, cui sarebbe dovuto seguire, secondo i princìpi, apposita comunicazione alla stazione appaltante, in uno a tutta la documentazione relativa, ivi comprese le dichiarazioni di moralità dei nuovi amministratori.
La decisione del Consiglio di Stato richiama innanzitutto l’art. 51 d.lgs. n. 163/06, per il quale “qualora i candidati o i concorrenti, singoli, associati o consorziati, cedano, affittino l'azienda o un ramo d'azienda, ovvero procedano alla trasformazione, fusione o scissione della società, il cessionario, l'affittuario, ovvero il soggetto risultante dall'avvenuta trasformazione, fusione o scissione, sono ammessi alla gara, all'aggiudicazione, alla stipulazione, previo accertamento sia dei requisiti di ordine generale, sia di ordine speciale, nonché dei requisiti necessari …”.
Da ciò discende l’onere di informazione gravante sull’impresa, e quello, corrispondente, imposto all’ente.
Oltre che fare applicazione del principio in parola, tuttavia, la pronuncia si segnala per taluni spunti interessanti e originali.
In primo luogo, il Consiglio di Stato ritiene inidonea una mera comunicazione, tantopiù se trasmessa solo dalla mandante, anziché dalla mandataria interessata: la comunicazione deve provenire dall’Impresa oggetto della modifica societaria, e deve essere corredata da ogni documentazione del caso, ivi compresi, si ipotizza, gli atti civilistici connessi, le dichiarazioni di moralità dei nuovi amministratori, le visure camerali, etc.
In secondo luogo, quanto al momento rilevante, la comunicazione deve essere immediata: così, è risultato insufficiente dare seguito all’obbligo solo a seguito dell’aggiudicazione provvisoria, a fronte di modifiche intervenute in tempo antecedente. L’adempimento occorre sempre, per eventi verificatisi anche dopo l’aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, ma l’onere deve essere assolto quanto prima, senza attendere la conclusione delle varie subfasi.
In terzo luogo, quanto agli effetti, se è la Commissione che, a fronte di una comunicazione rituale, ha omesso le verifiche occorrenti, è pacifico che debba essere annullato solo il relativo segmento procedimentale. Se però è l’Impresa che ha omesso la comunicazione – pare doversi ritenere dalla lettura della decisione – la stessa va esclusa dalla procedura.
In quarto luogo, oltre alle fattispecie previste dalla legge, è plausibile che simile obbligo sussista anche al di là dei casi ivi considerati, compreso quello, più comune, e che subisce a identica ratio, dell’avvicendamento degli amministratori senza che si verifichino modifiche strutturali.

Se la lex specialis prevede, a pena di esclusione, che le ATI presentino un unico documento di offerta, la presentazione di documenti distinti è inammissibile.

F.B.
La decisione del Consiglio di Stato, V, n. 6203 del 15.12.08 stabilisce l’obbligo di escludere il costituendo RTI che, anziché presentare “una unica dichiarazione …(in caso di RTI, controfirmata dal rappresentante di ciascuna impresa”, presenti due dichiarazioni distinte.
Il Consiglio di Stato esclude trattarsi di un mero formalismo, riconnettendo la previsione a ragioni sostanziali: nel caso di appalti di servizi (cfr. art. 11 d.lgs. n. 157/95), infatti, per le ATI deve trattarsi di offerta congiunta, che specifichi le parti del servizio svolte da ognuna, con le ricadute del caso in punto di responsabilità solidale per l’intero servizio.
Il fatto che, anziché un’unica dichiarazione, ciascuna associata abbia presentato un proprio documento di offerta (ancorchè i due documenti siano identici nei contenuti), quindi, implica un vizio rilevante, e non la violazione di una regola solo formale.
La conseguenza, nel caso di specie, è risultata quella della obbligatoria applicazione della clausola, che comminava la sanzione dell’esclusione.
La decisione, tuttavia, si presta a scenari più diffusi, in quanto, una volta ricondotto l’obbligo di offerta congiunta a presupposti sostanziali, plausibilmente ne segue il principio per cui una offerta formulata tramite documenti distinti (ancorchè identici), è passibile di esclusione anche in mancanza di apposita clausola, tantopiù se si considera che, secondo giurisprudenza consolidata, l’art. 11 d.lgs. n. 157/95 costituisce norma di ordine pubblico, la cui violazione è senz’altro causa di esclusione anche se manca apposita previsione nel bando (in questo senso la giurisprudenza in fattispecie mancata specificazione delle parti del servizio, cfr. es. Consiglio Stato , sez. V, 28 settembre 2007, n. 5005, ed in particolare in caso di ATI verticale).   
Se mai, vi è da chiedersi se simili conclusioni valgano anche per il d.lgs. n. 163/06, il quale (art. 37) chiarisce la regola della responsabilità solidale in capo a ciascuna associata, ma non prevede, a stretto rigore, l’obbligo di offerta congiunta.

Divieto di commistione tra requisiti dell’offerta, e requisiti soggettivi di partecipazione: il divieto opera, ma cum grano salis. Consiglio di Stato, IV, n. 5808 del 27.11.08

F.B.
Palazzo Spada mette un punto fermo sul c.d. divieto di commistione tra criteri di valutazione dell’offerta e requisiti soggettivi di partecipazione.
Come noto, criteri come il fatturato pregresso, i servizi svolti, o il numero delle sedi (ovvero: criteri che non attengono all’offerta, ma all’Impresa e alle sue vicende storiche e organizzative), possono essere posti – pur sempre secondo criterio di ragionevolezza – quali requisiti di accesso alla procedura, ma non costituire metro di valutazione dell’offerta.
Simili previsioni, infatti, pongono a rischio la concorrenza, a privilegio delle sole Imprese maggiori e più risalenti, e non risultano pienamente conformi alle norme (cfr. es. art. 23 d.lgs. n. 157/1995, oggi art. 83 d.lgs. n. 163/2006).
Da cui, in linea generale, la conclusione nel senso che le condizioni soggettive dell’Impresa, del genere di quelle descritte, non possono costituire oggetto di valutazione dell’offerta e quindi criteri di assegnazione del punteggio di qualità. Come affermato sia dalla Corte di Giustizia (es. sentenza n. 19.6.03, Gat, e 20.9.88 Beentjes), nonché dall’Autorità di Vigilanza ll.pp., e dalla giurisprudenza (da ultimo, ad esempio, “costituisce erronea applicazione dell'articolo 83 del Codice degli appalti la commistione fra requisiti soggettivi di partecipazione ed elementi oggettivi di valutazione dell'offerta che si verifica quando elementi di valutazione specificati nel disciplinare riguardano caratteristiche organizzative e soggettive della concorrente, che afferiscono all'esperienza pregressa maturata dalla concorrente ed al suo livello dì capacità tecnica e specializzazione professionale” (T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 05 maggio 2008, n. 735).
La decisione qui commentata, in riforma della impugnata sentenza del TAR Lazio, fornisce una opportuna chiarificazione, valida, in particolare, per gli appalti di servizi: ferma la vigenza del divieto di commistione, per tali appalti, il principio subisce talune deroghe con speciale riferimento alle caratteristiche organizzative, in quanto l’organizzazione di impresa può costituire, secondo la discrezionalità rimessa alla stazione appaltante in punto di criteri di valutazione, elemento di sicuro rilievo ai fini del corretto svolgimento del servizio.
Simile interpretazione era già stata fatta propria con la decisione n. 2770/08, del 9.6.2008, ove il Consiglio di Stato aveva chiarito che “aspetti dell’attività dell’impresa possano illuminare la qualità dell’offerta”, con la conseguenza che “non deve enfatizzarsi il rischio di commistione tra profili soggettivi ed oggettivi. Tenerli distinti, cioè, non significa ignorare che, trattandosi di organizzazioni aziendali, determinate caratteristiche dell’impresa – tanto più quando specifiche rispetto all’oggetto dell’appalto – possano proiettarsi sulla consistenza dell’offerta”.
Con la decisione qui in esame si conferma la tesi.
Simili previsioni (fermo che a tali criteri non può essere attribuito un valore eccessivo) sono perciò legittime, in quanto “… senza voler contestare il noto orientamento giurisprudenziale di derivazione comunitaria secondo cui, essendo la procedura di gara tesa a selezionare la migliore offerta e non il miglior offerente, il bando di gara non può duplicare, nella previsione degli elementi dell’offerta oggetto di valutazione, la prescrizione dei requisiti di capacità tecnica ed economica già preliminarmente richiesti ai concorrenti ai fini dell’ammissione alla gara, non può però sottacersi che tale principio va applicato cum grano salis nelle procedure – come quella che occupa – relative ad appalti di servizi, in cui l’offerta tecnica non si sostanzia in un progetto o in un prodotto, ma nella descrizione di un facere che può essere valutata unicamente sulla base di criteri quali-quantitativi, fra i quali ben può rientrare la considerazione della pregressa esperienza dell’operatore, come anche della solidità ed estensione della sua organizzazione d’impresa”.

I Partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune*

M.P.C.
1. Sono qua raccolti gli studi realizzati nel quadro del Progetto di ricerca nazionale avviato nel 2005 sul tema del Partenariato pubblico privato, da tre gruppi di ricerca delle Università di Firenze, Lecce e Parma.
Per Partenariato (cui ci si riferisce usualmente anche con l’acronimo PPP) si è inteso, in primo approccio, una forma di cooperazione a lungo termine tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le risorse necessarie sono poste in gestione congiunta ed i rischi legati ai progetti sono suddivisi in modo proporzionato sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto,
Il tema era stato individuato per quattro principali motivi: le prospettive indicate dal Libro verde della Commissione europea del 2004 sul Partenariato; le novità legislative che possono rapportarsi a questa problematica, come la finanza di progetto; l’evoluzione in funzione del partenariato di istituti giuridici di antica tradizione, come le fondazioni, od anche di più recente rilievo, come le società miste; la ricchezza, ma anche la disomogeneità e l’erraticità, della giurisprudenza formatasi su queste problematiche.
Da ultimo, il tema ha acquistato ulteriore rilevanza in quanto, con il terzo decreto correttivo al Codice dei contratti pubblici (d. lgs.152/08), è entrata nel nostro ordinamento la categoria dei contratti di partenariati, quali contratti “aventi ad oggetto una o più prestazioni (…) compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico dei privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti”.
Nel PPP si uniscono istituti di tradizione (oltre alle già citate fondazioni, le concessioni) ed altri assai recenti, noti con espressioni linguistiche non italiane o miste (come il project financing e il leasing in costruendo) che denotano l’origine non autoctona; si combinano discipline comunitarie (basti considerare i principi rilevanti previsti dai Trattati e le direttive su gli appalti pubblici) ed evoluzioni originali della nostra normativa, come per le fondazioni “pubblicistiche”. La giurisprudenza nazionale sul PPP è decisamente segnata dalle scelte della Corte di giustizia, assai spesso genuinamente creative, cui i giudici italiani e degli Stati membri si rivolgono tramite la procedura di rinvio pregiudiziale. Lo sviluppo dei partenariati è uno dei più chiari esiti della progressiva vanificazione della netta dicotomia tra diritto pubblico e diritto comune, sia nel PPP contrattuale che in quello “istituzionalizzato”
In Europa, il Partenariato esercita una forte attrazione; politica prima che giuridica. Evoca infatti principi generali della costituzione economica quali “l’economia sociale di mercato”; dapprima propria della Costituzione tedesca, poi trasmigrata anche del diritto primario dell’Unione europea. Un principio che solo gli economisti più astratti continuano a ritenere privo di contenuti propri, ma che invece da tempo ha assunto una precisa fisionomia ad opera della Corte costituzionale tedesca e dei giudici europei. Il Partenariato evoca, inoltre, l’esistenza di una “terza via” rispetto all’economia socializzata ed al mercatismo, segnata da un tendenziale equilibrio tra interessi pubblici ed interessi privati; come tale apprezzata in tutto il nostro continente, pur con varietà di toni.
Al di là dell’Europa, il Partenariato è indicato dalle Nazioni Unite come una condizione essenziale per raggiungere gli obbiettivi di un equo sviluppo economico e sociale indicati nella Dichiarazione del Millennio del 2000, una volta dimostrato che, dopo due decenni di privatizzazioni e di economia di mercato, il settore privato da solo non può soddisfare pienamente i bisogni sociali, specie nei campi in cui gli investimenti hanno ritorni bassi o lenti.
La grande crisi economica che nel 2008 ha colpito tutti gli Stati sta contribuendo alla valorizzazione - o, a seconda dei Paesi, alla scoperta - del PPP come uno degli antidoti per superare i fallimenti del mercato. In particolare, favorisce la realizzazione di infrastrutture e di opere di particolare utilità sociale, come nei settori della sanità e dell’istruzione; consente altresì interventi nel settore dei servizi pubblici locali.   
Le ragioni per cui il PPP appare così attraente nell’Unione europea sono anche più prosaiche, dato che, in tempi di forti vincoli alla finanza pubblica, taluni istituti che si riportano al Partenariato sono considerati estranei alla sfera del “pubblico”, così da non subire le restrizioni previste dai Patti di stabilità. Una forte spinta in questo senso è stata data dall’Ufficio statistico europeo (Eurostat) con la decisione dell’11.2.2004 (“Treatment of the PPPs”), secondo cui nel caso dei contratti per infrastrutture – ma la tesi è facilmente generalizzabile – i contratti di partenariato non sono da registrare nei bilanci delle pubbliche amministrazioni, quando ricorrano le condizioni che il partner privato si assume il rischio della costruzione ed almeno uno dei due rischi della disponibilità o di quello legato alla domanda.
La decisione di Eurostat è di dubbia fondatezza, perché contrasta con i criteri generali desumibili dal Sistema europeo dei conti nazionali (SEC95 e regolamento CE n. 2223/96) ed anche perché non tiene conto degli oneri pubblici che sono inerenti ad ogni iniziativa di partenariato. Tuttavia, in mancanza di iniziative contrastanti da parte della Commissione, era inevitabile che la citata decisione di Eurostat si sia stata richiamata dal terzo decreto correttivo ed integrativo del 2008 al Codice dei contratti pubblici; salvi alcuni adempimenti procedurali per assicurare gli obblighi di comunicazione sulle operazioni così assunte.
2. Per quanto provvista di varie attrattività, la problematica riassunta con il termine di PPP appare però, dal punto di vista giuridico, variegata, se non addirittura eterogenea; unita solo dal generico filo rosso della necessaria bilateralità pubblico-privata.
Al fine di verificarne la consistenza come possibile categoria giuridica, si è assunta come punto di partenza la griglia dei caratteri del PPP indicata dalla Commissione europea nel citato Libro verde del 2004.  I caratteri tipici del PPP sono, per la Commissione, i quattro seguenti: a) la durata relativamente lunga della collaborazione; b) le modalità di finanziamento del progetto, garantito da parte del privato; c) il ruolo importante dell’operatore economico, che partecipa alle varie fasi del progetto; d) la ripartizione dei rischi tra il partner pubblico e il partner privato, sul quale sono trasferiti rischi di solito a carico del settore pubblico.
A loro volta, gli istituti giuridici che si possono così rapportare alla nozione di PPP sarebbero divisibili in due categorie: quella del partenariato contrattuale e quella del partenariato istituzionalizzato. La prima categoria comprende le varie forme di PPP che si fondano su legami esclusivamente convenzionali; la seconda comprende le forme che implicano una cooperazione in seno ad una entità distinta.
La definizione del PPP assunta dalla Commissione europea e le sue principali articolazioni non sono convincenti. Solo in alcuni casi si ritrovano i quattro elementi che il Libro verde indica come caratterizzanti; è forzata la trattazione congiunta di istituti in realtà assai diversi, come l’appalto e la finanza di progetto; non appare appropriato aver incentrato il Partenariato istituzionalizzato sulle società miste, quando varie altre figure giuridiche (come le fondazioni) possono esservi rapportate, anche in ordinamenti diversi da quello italiano. La Commissione omette poi, ingiustificatamente, di considerare che la giurisprudenza della Corte di giustizia sta dando un colpo quasi mortale all’utilizzabilità delle società miste, proprio per l’ambiguità della formula del PPP. Più in generale, non corrisponde al dato giuridico di riferimento, quale oggi è, l’idea che nel PPP i soggetti pubblici definiscono gli obbiettivi e ne controllano la realizzazione, mentre il partner privato individua le modalità più efficaci per realizzare gli obbiettivi così posti. Infatti, per quanto riguarda la definizione degli obbiettivi è tipico di molte forme di PPP che i privati concorrano alla definizione degli obbiettivi da conseguire, ovviamente nel novero di quelli di pubblico interesse; così come, per converso, è rilevante l’influenza del pubblico nei modi di gestione dei PPP (basti pensare alle influenze della parte pubblica nei partenariati istituzionalizzati).
La ricerca ha confermato l’ambiguità della posizione della Commissione. Il PPP non rappresenta una categoria giuridica, comprensiva di istituti che, pur nella loro peculiarità, hanno tratti comuni; ma una nozione descrittiva con cui ci si riferisce, senza particolari conseguenze giuridiche, ad ogni tipo di situazioni – contrattuali o istituzionalizzate – che siano segnate dalla compresenza di soggetti pubblici e privati.
3. Nella fase di avvio della ricerca si era parlato di “luci, ombre e vaghezze” del PPP, per indicare quanto il tema da esaminare fosse, allo stesso tempo, accattivante quale sintesi di istituti giuridici che paiono prevenire o risolvere i fallimenti del mercato; nuovo per taluni aspetti sino ad allora poco o niente trattati (la finanza di progetto o i contratti di sponsorizzazione); ma anche fuorviante in altre (come la qualificazione di un tipico contratto quale l’appalto come istituto di PPP).
Le ricerche realizzate – che qua si pubblicano – hanno confermato taluni limiti del Libro verde. Anzitutto, per il PPP contrattuale aver considerato come istituto di questo tipo il contratto di appalto pubblico, nel quale, come da sempre noto, le parti formalizzano le proprie antagonistiche posizioni e certo non si accordano per realizzare congiuntamente obbiettivi di comune interesse.
In secondo luogo, per il PPP istituzionalizzato è - come già anticipato - incongruo con la direzione del diritto comunitario aver dato particolare rilievo alle società miste; tralasciando altri fenomeni particolarmente rilevanti in alcuni Stati membri (come in Italia, le fondazioni “pubblicistiche”), e la considerazione di come possano rilevare nozioni, che si originano nello stesso diritto comunitario, come l’organismo di diritto pubblico. Nozione, quest’ultima, con cui non si aggiungono nuove forme di soggettività giuridica, ma si qualificano pubblicisticamente, per determinati profili, soggetti giuridici che mantengono la loro forma privatistica.
In terzo luogo, è risultato che la Commissione non ha colto la grande ricchezza di esperienze e differenziazioni nell’ambito europeo; come se si potesse applicare un medesimo modello giuridico nell’intera Unione, che comprende gli Stati ove storicamente si sono originati i vari fenomeni rapportabili al partenariato ed ove ancora si manifestano tendenze autoctone, come, merita rilevarlo ancora, la riscoperta in Italia delle fondazioni.
Infine, il Libro verde è incentrato sulla disciplina sostanziale del Partenariato, e lascia in ombra i profili giustiziali e le regole processuali. Pur sapendo che la Comunità riconosce agli Stati membri, in via di principio, autonomia per il diritto processuale, è anche noto che si tratta di un’autonomia fortemente condizionata al rispetto di principi posti dai Trattati e definiti dalla Corte di giustizia. Inoltre, in taluni campi come la tutela negli appalti pubblici, la Comunità interviene direttamente con norme comuni di carattere processuale: da ultimo, la direttiva 2007/67 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007. La mancata considerazione di questi profili mina la sostenibilità giuridica di un approccio unitario, perché lascia spazio ad una differenziazione locale nei profili della tutela che finisce per attentare all’uniformità della stessa disciplina sostanziale.
4. Molte sono, al contempo, le “luci” del PPP che la ricerca ha puntualmente confermato: il pieno riconoscimento al ruolo dei privati nell’organizzazione e nell’attività della pubblica amministrazione; la scossa rinnovatrice che ne deriva per le amministrazioni; un diverso metodo giuridico che privilegia l’analisi economica del diritto e che, più in generale, dà rilievo ad un nuovo diritto con caratteri fortemente integrati, frutto dell’ibridazione tra le discipline giuridiche.
Per quanto riguarda il ruolo dei privati, il PPP è quanto di più lontano possibile dalle politiche di privatizzazione; e per questo apprezzato da più parti. Infatti, presuppone necessariamente un rapporto giuridico – contrattuale o istituzionalizzato, come si è detto – tra soggetti pubblici e privati, che è estraneo, allo stesso tempo, alla riduzione della sfera pubblica e alla pubblicizzazione delle attività private.
Può essere, semmai, uno dei risvolti giuridici del principio di sussidiarietà sociale ed amministrativa, che di recente hanno trovato eco anche nella Costituzione (art. 118, c.1, novellato con la riforma del 2001, che favorisce “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”). In realtà, il Partenariato implica – come traspare dal suo nome – un incontro di volontà tra soggetti pubblici e privati per realizzare congiuntamente iniziative di pubblico interesse; laddove la sussidiarietà implica una sostituzione dei privati all’amministrazione, pur con modalità diverse a seconda dei casi.
Per quanto riguarda poi lo stimolo al miglior funzionamento della pubblica amministrazione, è evidente che la realizzazione e l’efficace funzionamento degli istituti di PPP presuppongono un’amministrazione “forte”, capace di dialogare con il privato e, quando necessario, contrastarlo. Non vi può essere partenariato se uno dei due soggetti è debole o inefficiente; partenariato implica infatti un rapporto almeno tendenzialmente paritario, pur nella diversità delle rispettive organizzazioni e degli interessi perseguiti.
Dato che al tempo presente – e presumibilmente a venire – l’amministrazione non può rinunciare all’apporto di risorse e di conoscenze provviste dal PPP, è essenziale che si completino rapidamente i processi di riforma amministrativa richiesti dai vari istituti ricomprendibili nell’ambito del partenariato. Ancora molto rimane da fare, ed anzi vi è il rischio che alcuni di questi istituti siano marginalizzati non per i loro eventuali limiti, quanto per la difficoltà o incapacità di loro gestione da parte delle pubbliche amministrazioni. Si aggiunga che l’assunzione del ruolo di partner in un complesso rapporto con soggetti privati implica anche l’assunzione di responsabilità superiori a quelle usuali; situazione ancora poco gradita da molti titolari di pubblici uffici.
Il terzo principale profilo positivo della problematica del PPP è rappresentato dal superamento di alcune tradizionali barriere tra le discipline giuridiche e dalla conseguente necessità di un approccio interdisciplinare e supportato da metodo dell’analisi economica del diritto. Se tale circostanza era stata da tempo chiarita per istituti generali, come le concessioni, di cui il PPP ha sviluppato specie particolari, come la finanza di progetto, sono poi emersi altri istituti o procedure – ad esempio il dialogo competitivo o il metodo di aggiudicazione delle gare tramite l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa – che presuppongono non solo un efficace “Stato banditore” (ovvero preposto all’Auction), ma anche un’amministrazione capace di gestire situazioni aperte e in confronto con le controparti (ovvero preposta alla Negotiaton) Tali situazioni, che sono tipiche del PPP, non trovano un’appropriata collocazione nella contrapposizione dominante tra unilateralità e negoziazione (espresso usualmente con la locuzione anglosassone di Auction versus Negotiation), e perciò favoriscono in metodo integrato di trattazione ora definito con il sincretismo di NegoAuction.
5. Accanto alle luci ed alle ombre del PPP rimangono poi talune vaghezze. La prima è data dall’eterogeneità degli istituti che si considerano ascrivibili al Partenariato; così che la nozione non acquista una precisa valenza giuridica, ma neanche euristica, risultando puramente descrittiva. La seconda discende dall’attenzione concentrata quasi esclusivamente sul momento genetico del partenariato – di entrambi i tipi, contrattuale e istituzionalizzato – mentre rimane pressoché in ombra la fase dell’esecuzione e svolgimento dei rapporti; malgrado l’intuibile decisività di tali fasi. La terza è la mancata definizione delle competenze comunitarie e nazionali, questione che pure veniva adombrata nel Libro verde. Trattasi di problema cruciale: atteso infatti che taluni istituti ricompresi (a torto, a mio parere) nel Partenariato, come gli appalti pubblici, sono da tempo disciplinati in modo assolutamente prevalente dal diritto comunitario, altri istituti dovrebbero rimanere invece saldamente disciplinati dal diritto nazionale; pur se nel rispetto – è quasi superfluo dire – di principi generali del diritto comunitario di generale applicazione, come il principio di non discriminazione.
L’esperienza del recente periodo ha confermato le pericolose incertezze scaturenti da questa mancata definizione. Si consideri in particolare il caso delle società miste e del loro utilizzo per l’esercizio di servizi pubblici locali, in cui l’Italia (ma molto simile è la posizione di altri Stati membri) ha assunto una molteplicità di discipline, che molte volte sono state considerate dalla Corte di giustizia in contrasto con il diritto europeo.
6. Una volta verificato che gli istituti giuridici che usualmente si rapportano al PPP non rappresentano una categoria omogenea, è preferibile parlare, al plurale, di Partenariati; con ciò sottolineando il distinto carattere dei molti istituti che vi si ricomprendono. Appare poi condivisibile la conclusione cui è pervenuta la Commissione, al termine del dibattito pubblico seguito al Libro verde, di non procedere ad una disciplina comunitaria specifica per il PPP. In effetti, vi è stata larga convergenza per delimitare l’applicazione del diritto comunitario al rispetto dei principi derivanti dal Trattato, come i principi in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi (artt. 43 e 49 TCE), ed i principi conseguenti di trasparenza, parità di trattamento, proporzionalità e mutuo riconoscimento.
Diverso è il caso specifico delle concessioni - sia di lavori che di servizi – per le quali non appare rinviabile una disciplina comunitaria che regoli, almeno, le procedure di aggiudicazione. Infatti, per garantire gli interessi del mercato interno non è sufficiente l’applicazione dei soli principi del Trattato o di parte delle direttive appalti; ma occorre una disciplina ad hoc capace di riportare un fenomeno assai diffuso nell’alveo della legalità comunitaria.
Per il resto, ogni possibile normativa sul PPP non farebbe che limitare il positivo ricorso a contratti atipici o l’uso di contratti tipici in funzione di obbiettivi di partenariato.
A fronte dello scenario europeo, la nostra normativa nazionale presenta numerosi profili di interesse in quanto sono stati disciplinati vari istituti del genere Partenariato e, con il citato d. lgs. 152/08, si è riconosciuta la categoria dei contratti di PPP. Sul tema, il diritto italiano risulta nel complesso più avanzato della media degli Stati membri dell’Unione europea.
Il quadro è certo lungi dalla definizione, come dimostrano le continue modifiche di istituti chiave del PPP, come il project financing, alla ricerca di un’appropriata combinazione tra efficacia della procedura e rispetto del diritto comunitario. Ma anche la cautela, per non dire l’incertezza, della previsione dei contratti di PPP nel Codice dei contratti pubblici, senza alcuna definizione generale e con talune referenze contrattuali di tipo meramente esemplificativo. In effetti, le stesse remore per una disciplina europea specifica per i contratti di PPP non possono non valere anche nell’ordinamento interno, specie per quanto riguarda il paradossale effetto limitativo che ne potrebbe derivare nell’uso di contratti atipici in funzione di partenariato.
Ciò malgrado, gli istituti di partenariato appaiono entrati irreversibilmente nel nostro ordinamento e destinati ad un progressivo perfezionamento, grazie anche al contributo della giurisprudenza e della scienza giuridica.
7. Le ricerche qua pubblicate dimostrano complessivamente che “i PPP non sono una panacea per ogni problema. Sono difficili da programmare, da realizzare e da gestire”. Inoltre, dimostrano che la loro appropriata utilizzazione richiede un’amministrazione pubblica consapevole e ben attrezzata. In tal senso, il PPP è uno dei fattori di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni; ma, allo stesso tempo, l’esito dell’organizzazione e dell’operatività delle pubbliche amministrazioni come effettivamente sono.

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* Lo scritto è l’Introduzione al volume, curato dallo stesso Autore, dal titolo “Il Partenariato pubblico-privato”, Edizioni Scientifiche, Napoli, 2009.
 
[1] La definizione corrisponde sostanzialmente a quella fatta propria dal Parlamento europeo nella risoluzione del 16.10.2006 riguardo ai partenariati pubblico-privati e diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni. Alquanto diversa è la definizione assunta dalla Commissione, come di seguito si dirà.
Commissione delle Comunità europee, Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, Bruxelles, 30.4.2004, COM (2004) 327 definitivo.
Le prestazioni ivi previste, a titolo esemplificativo, sono la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio. L’articolo in esame stabilisce poi che “rientrano, a titolo esemplificativo, tra i contratti di PPP la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, l’affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le società miste”. In altri ordinamenti, come in Francia (legge 2.7.2003), già da qualche è stata approvata una legge sul PPP.
L’espressione “partenariato istituzionalizzato”, non felicissima, è contenuta nel citato Libro verde in riferimento ai casi che implicano una cooperazione tra il settore pubblico ed il settore privato in seno ad un’entità distinta.
Questo almeno è il pensiero di importanti funzionari delle NU. Cfr. Adil Khan, Achieving the Millennium Development Goals: the Public-Private Mix, in Atti del Congresso IISA su Public Administration and Private Enterprise. Cooperation, Competition and Regulation, Berlino, 2005, pag. 9 estr.
Le posizioni delle Nazioni Unite trascurano però il rilevante dato dell’inesistenza in molti Paesi di un settore privato “domestico” capace di assumere il ruolo di partner del settore pubblico; con il conseguente rischio che possibili realizzazioni di PPP siano gestite da investitori stranieri, poco attenti ai bisogni locali.
Non mancano tuttavia autori che si riconoscono in questa posizione. Così, R. Dipace, Partenariato pubblico e contratti atipici, Giuffrè, Milano, 2006, passim, spec. 39.
M.P.Chiti, Introduzione. Luci, ombre e vaghezze nella disciplina del Partenariato pubblico-privato, in Id. (a cura di), Il Partenariato pubblico-privato. Profili di diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, Bologna, 2005, 7 segg.
Come è efficacemente detto nella Risoluzione del Parlamento europeo citata alla nota 1, “i PPP non costituiscono un primo passo verso la privatizzazione di compiti pubblici”. Un primo passo per adeguare le pubbliche amministrazioni alle esigenze poste dal PPP è stato effettuato con la costituzione dell’Unità tecnica di progetto, presso il Ministero dell’Economia (legge 14.5.1999, n. 144), organo di consulenza e supporto di qualsiasi amministrazione in tema di finanza di progetto. Moltissimo resta però da fare, ad iniziare dalla individuazione di uno specifico ufficio preposto alle forme di PPP; oggi distribuite senza alcun criterio tra molte strutture e prive normalmente di personale specializzato.
Sul tema sono rilevanti gli studi di M. Cafagno (come Lo Stato banditore, Giuffrè, Milano, 2001), ripresi adesso, in prospettiva del PPP, da M. Ricchi, NegoAuction, discrezionalità e dialogo competitivo, in …………
Adottando una nozione ampia di PPP, oltre agli istituti sicuramente rapportabili alla nozione di PPP, come quelli trattati nel Libro verde della Commissione, nel nostro ordinamento possono rilevare molti altri istituti come gli accordi di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990, le varie forme convenzionali, i contratti di global service.
Anche il Libro verde della Commissione si limita, per quanto riguarda la fase successiva alla selezione del partner privato, a richiamare che le condizioni e modalità di esecuzione non devono avere un’incidenza discriminatoria diretta o indiretta, od ostacolare in modo ingiustificato la libera prestazione di servizi o la libertà di stabilimento (cfr. punto 2.3.).
Al riguardo cfr. il contributo di V. Ferraro, qua pubblicato.
Così la citata risoluzione (nota 1) del Parlamento europeo.

Sopralluogo obbligatorio e associazioni temporanee di imprese. Consiglio di Stato, V, n. 6057 del 9.12.08

F.B.
La decisione in commento afferma il principio per cui – in ragione del consolidato principio del favor partecipationis, e di quello per cui l’esclusione può discendere ove espressamente comminata, risultando allo scopo inidonee le clausole non univoche – ai fini del sopralluogo, in mancanza di diversa previsione della lex specialis, è sufficiente che provveda l’Impresa designata mandataria.
Nel caso di specie, si trattava di A.T.I. costituenda ove la presa visione della documentazione (ma lo stesso vale per il sopralluogo, che è la fattispecie più comune) era stato eseguito dalla sola mandataria.
La lex specialis stabiliva l’obbligo di sopralluogo e visione dei documenti, pena l’esclusione, a carico di “ciascuna impresa partecipante” , con conseguente problematica interpretativa per il caso di associazioni non ancora costituite.
La tematica è di generale interesse, in quanto, circa gli adempimenti di tal genere, la giurisprudenza ha fornito, nel tempo, soluzioni non univoche.
In mancanza di espressa previsione di legge, la disciplina specifica è rimessa al bando di gara. Spesso, quest’ultimo precisa le ritualità del sopralluogo nel caso di A.T.I. (soprattutto se non ancora costituite), con soluzioni diverse, che sostanzialmente si riconducono a tre tipologie: obbligo a carico della mandataria, oppure a carico di tutte le imprese, ovvero ancora a carico di una qualsiasi delle imprese, anche se mandante.
Le imprese, all’occorrenza, nei casi dubbi sono comunque solite inviare – se la lex specialis non lo vieta – un solo rappresentante per tutta l’ATI, ma munito di procura speciale.
La problematica si pone in casi, come quello che ha avuto ad oggetto la decisione in questione, ove, da una parte, il bando non specifica circa il soggetto tenuto, e, dall’altra, chi ha partecipato al sopralluogo non è munito di procura (oppure, come nel caso, è munito di procura che non contempla il sopralluogo).
Il Consiglio di Stato ha risolto la vicenda contenziosa sulla base del principio del favor partecipationis: allorchè il bando stabilisca che ciascuna impresa deve, a pena di esclusione,  provvedere al sopralluogo, senza ulteriori specificazioni per il caso di ATI, è sufficiente che vi provveda la mandataria (o comunque una delle associate). Pertanto, corrispondentemente, è sufficiente (sempre in mancanza di differente previsione) la produzione di una unica certificazione di avvenuto sopralluogo.